Sedici
«Le assicuro che non sono in grado di spiegare la situazione di Aria, signor Johnes. Durante la riunione tenutosi con i colleghi qui in ospedale e quelli collegati in teleconferenza eravamo giunti alla conclusione unanime che il caso di sua figlia fosse qualcosa di unico. Nessuno di noi, e parlo di medici con esperienza trentennale, ha mai avuto pazienti con un quadro clinico analogo. In questo momento non so davvero come affrontare questo caso, deve credermi. Sua figlia è passata dall'arresto cardiaco allo stato vegetativo alla totale ripresa di tutte le funzioni organiche in dieci giorni, senza riportare alcun deficit. Non esiste un caso simile in tutta la bibliografia medica mondiale. Che vuole che le dica, se crede nei miracoli è il caso di accendere un cero grande quanto il Colosseo, mi dia retta.»
Ecco, perfetto. Da sfigata asociale presa di mira dai bulli peggiori della scuola a fenomeno da baraccone. Magnifico. Ora sì che avrò uno stuolo di ammiratori, di quelli armati di coltello a serramanico, pronti ad infilzarmi o a gonfiarmi di pugni solo perché mi ritrovo con i riflettori puntati addosso. Mio malgrado. Odio essere al centro dell'attenzione. Preferisco mantenere un basso profilo, vivere nell'ombra, apparire pallosa e forse stupida, pur di essere lasciata in pace. Ad aggravare la situazione c'è la sparizione di due su dieci dei tizi che mi hanno mandata in coma. Ne parlano di continuo, su tutti i telegiornali, nessuno ha più tracce di loro. Sono spariti nel nulla. Teletrasportati all'inferno, per quel che ne so. E che spero. Non lo nego. Quando chiudo gli occhi mi si presentano due possibilità: viaggiare a velocità assurda su quel dannato treno diretto chissà dove in compagnia dell'indesiderato bel tenebroso, oppure rivivere quel maledetto pomeriggio, in cui ho visto il sorriso diabolico della morte molto da vicino. Ho visto a che livello di profondità si è schiantata l'anima umana. La cattiveria, l'odio, il gusto di distruggere il prossimo. Per cosa? A distanza di mesi giuro che non l'ho capito, sono sincera. Io sono una come tante, mi piace studiare, ascoltare Pink e starmene per i fatti miei. In che modo ho scatenato tanta rabbia? Come ho portato dieci ragazzi a decidere di farmi quasi morire, schiacciata da pugni, calci e sassate? Perché? Di cosa sono colpevole? Cosa ho detto per far sì che si sentissero in dovere di liberare il mondo dalla mia inutile e scomoda presenza? Perché mi considerano tanto ripugnante da coprirmi di offese oscene e dire addirittura che piuttosto che avere accanto una come me preferirebbero amputarsi gli attributi? Giuro, non lo so.
«Aria? Tutto bene, tesoro?» mio padre mi scuote, riportandomi al presente.
«Sì, tutto bene. Possiamo andare a casa, adesso?» ho fretta di uscire da questo posto. Non ne posso più.
«Sì, direi che potete andare. Questa è la lettera di dimissioni. Ci rivediamo nella data indicata per una visita di controllo. Se ci fossero novità inattese non esitate a chiamarmi, ho scritto il mio numero di cellulare privato.» proclama il medico con aria solenne, porgendo una busta azzurra a mio padre, mentre io a stento mi trattengo dallo sbuffare sonoramente. Chissà perché gli adulti se la tirano così tanto per la loro posizione sociale. Si vede lontano un miglio che indossano una maschera sociale che cambia all'occorrenza. Vogliono solo apparire e far credere che ogni gesto che compiono sia un'immensa concessione. Malati di divismo in modo cronico e incurabile, affetti da un bisogno incolmabile di mostrarsi superiori e accumulare cianfrusaglie costose solo per far credere di poter abbaiare più forte degli altri, all'interno del branco. Che palle. Voglio solo andarmene in camera mia, infilarmi gli auricolari e stordirmi con la musica invece che con gli incubi.
«La ringrazio, dottore. Ci vediamo alla visita.» conclude mio padre, stringendo la mano del medico e sorridendogli con gratitudine, avvicinandosi frettolosamente alla porta per raggiungere me, che non riesco ad aspettare oltre. Mentre la palese insicurezza maschile mi lascia del tutto indifferente, anzi, mi sta urtando i nervi in modo preoccupante, non posso non rimanere sconcertata dall'ombra che intravedo in fondo al corridoio. Una sagoma che si è mostrata solo per una frazione di secondo, ma io sono certa che si tratti di Alexandros. Perché si nasconde? Inizio ad essere stufa di tutti questi misteri. Mi volto in direzione di mio padre, per fargli cenno di accelerare il passo e mi accorgo che mi sta fissando. Il suo sguardo è inquietante. Ma ancora più sconcertante è la matrigna che si sbraccia, all'ingresso. Ci mancava solo lei. Ora sì che sono a posto.
«Fate presto, ho parcheggiato nell'area dei taxi, in doppia fila!» Questa è totalmente fuori di testa. E qualcuno dovrebbe spiegarle che il rossetto fucsia con la matita più scura sul contorno delle labbra non si usa più da vent'anni.
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