VENTINOVE

Faceva caldo. Il sole era tramontato già da qualche minuto; tra le fronde degli alberi poteva ancora scorgere lingue di fuoco ammorbidite da tenui azzurri, vibranti arancioni. Le foglie assorbivano la luce morente del giorno, illuminate solo in parte, come piccole pietre preziose intente ad arricchire i rami resi neri dall'oscurità incombente. Non soffiava neanche il più leggero alito di vento, l'aria era ferma, carica di umidità, soffocante.

Eppure Abel aveva la pelle ricoperta di brividi. Osservò una coccinella camminare sul bordo laterale della balaustra, la seguì muoversi in avanti, tornare indietro, spalancare le ali e volare via.

Poggiò la nuca contro la parete alle proprie spalle e alzò lo sguardo verso l'uomo che stava in piedi di fronte a lui, con le braccia incrociate sul petto e un'espressione indecifrabile dipinta in viso. Forse si sentiva davvero in colpa per come erano andate le cose meno di un'ora prima, oppure era Abel che continuava a farsi di paranoie proprie proiettandole sugli altri.

Era riuscito a liberarsi di Rudi e dei suoi scatti di ira improvvisi – non avrebbe avuto la forza di mantenerlo calmo ancora a lungo ed era contento che Balthasar lo avesse richiamato a sé per impegnarlo in qualcos'altro, in qualcosa che esulasse del tutto dal prendersi cura di lui. Ormai aveva capito che suo fratello non era affatto stupido come voleva fare credere, ma era contento che avesse accettato quella distrazione imposta, lasciandolo solo.

Solo non lo era per davvero, ma almeno Roberto sembrava in grado di controllare la propria rabbia, a differenza di Rudi. Era sicuramente meno emotivo.

Rabbrividì e si passò le mani sulle braccia. Il caldo gli accarezzava la pelle, ma lui si sentiva gelido, ghiacciato fin nel profondo.

Osservò il manto erboso tingersi di sfumature sempre più scure, i minuti trascorsero velocemente, mentre la sua mente pareva spegnersi e annullare la percezione dello scorrere del tempo. Batté le palpebre e si accorse di non essere più in grado di distinguere con certezza le forme oltre il patio.

-Dovresti dormire un po'- sentì dire da una voce di donna.

Si girò verso l'ingresso del covo e individuò Telsa a un paio di passi di distanza da lui. La riconobbe, oltre che per la voce, dalla linea delle gambe, dal suo odore, dalla dolcezza che gli suscitava la sua sola presenza al proprio fianco. Un'emozione tenera, inspiegabile, ma che era in grado di rimettergli subito il cuore su ritmi più delicati, meno angosciosi.

Non riusciva a vederla in viso, era troppo vicina e lui non aveva granché voglia di alzare la testa, stava comodissimo seduto sul pavimento, le ginocchia tirate al petto e il mento incastrato nell'incavo del gomito di un braccio.

Dormire. Era sveglio, ma non vigile da diverse ore ormai, e si sentiva proprio come se avesse dormito per ore, ma dormito male, malissimo, e per nulla riposato.

Con la coda dell'occhio intravide una mano di Roberto protendersi verso di lui. Rivolse un'occhiataccia in quella direzione, ma alla fine accettò il suo aiuto per rialzarsi.
Si lasciò condurre da entrambi di nuovo dentro il covo, e gli sfuggì una smorfia di disgusto: non ne aveva granché voglia.

Lo portarono direttamente nella sua stanza. Abel guardò prima Telsa, poi Roberto, poi il letto e si lasciò cadere su quest'ultimo a pancia in giù. Percepì le dita di Telsa sulla testa neanche dieci secondi dopo e chiuse gli occhi. Il suo tocco gli riportò alla mente i ricordi di altre carezze in situazioni similari, e una tristezza struggente gli strinse il petto. Aveva perso Hauke e non aveva potuto fare nulla per impedirlo. Reik stava male e non poteva fare nulla per aiutarlo. Florian, però, aveva deciso – aveva deciso di lasciarlo. Per quello non avrebbe potuto trovare mai nessuna rassegnazione: se avesse agito in modo diverso, se avesse prestato più attenzione alle sue esigenze, se avesse dedicato qualche istante in più per ascoltarlo. Se.

Interruppe i propri pensieri. C'erano tanti se intenti ad affollare la sua mente, ma Florian aveva scelto di lasciarlo, quel punto non avrebbe mai potuto cambiarlo.

-È piacevole accarezzarti i capelli. Sono così corti... pizzicano la pelle- riaprì gli occhi.

La voce di Telsa gli era arrivata fin troppo vicina e si rese conto che doveva essersi distesa accanto a lui. Aveva proprio bisogno della sua presenza, del suo calore. Si girò verso di lei, si distese su di un fianco e nascose il volto sotto il suo mento, annusando a pieni polmoni il suo profumo. Sapeva di erba appena tagliata, di sole, di grano, di estate. Gli venne da sorridere e le baciò una spalla, tirò la testa indietro in cerca dei suoi occhi. Telsa gli accarezzò un sopracciglio, non ricambiando il suo sguardo, seguendo con attenzione le proprie carezze al suo viso. -Hai bisogno di dormire-

-Ho bisogno di tante cose... Non sono sicuro di riuscire a dormire-

Percepì il letto cedere alle proprie spalle e Roberto passargli un braccio intorno alla vita, incastrando il mento nell'incavo del suo collo. -Puoi sempre provare...-

-Si riprenderà?- chiese interrompendolo.

Roberto si strinse di più a lui, ma non rispose. Gli baciò la nuca, intrecciò le gambe alle sue e lo sentì sospirare. Abel strofinò la punta del naso contro quella di Telsa, le baciò le labbra, e le percepì pizzicare di una tensione dolcissima. Nascose il viso nel suo seno morbido. Il contatto con il suo corpo gli trasmetteva una sensazione diversa – non aveva nulla a che vedere con quello che era solito provare quando stava con Reik, Florian, con quello che era stato il contatto con Hauke. Non aveva a che fare neppure con le emozioni che gli suscitavano gli abbracci di Rudi o di chiunque altro. Telsa era una coccola. Un ricongiungersi con la parte di sé che desiderava solo amore, amore puro e fine a se stesso. E Telsa sapeva come soddisfare quella parte di lui, nonostante i cattivi pensieri, le cose orribili che incombevano nella sua vita. Neppure se ne rese conto e si addormentò.

Faceva caldo. Il sole era tramontato già da qualche minuto; tra le fronde degli alberi poteva ancora scorgere lingue di fuoco ammorbidite da tenui azzurri, vibranti arancioni. Le foglie assorbivano la luce morente del giorno, illuminate solo in parte, come piccole pietre preziose intente ad arricchire i rami resi neri dall'oscurità incombente. Non soffiava neanche il più leggero alito di vento, l'aria era ferma, carica di umidità, soffocante.

Eppure Abel aveva la pelle ricoperta di brividi. Si guardò le braccia, le gambe, lasciati scoperti dagli abiti sottili ed estivi che indossava.

Non erano brividi.

Si alzò di scatto, colpendosi braccia e gambe per scacciare le decine di formiche che camminavano sulla sua pelle, decine di puntini neri che pizzicavano, prudevano, mordevano. Balzò giù dal patio grattandosi la testa con violenza.

Solo dopo si accorse di aver schivato con un balzo i gradini distrutti, senza neanche riportare un graffio.

Le formiche erano scomparse. Si guardò attorno: non sembrava neppure più la piccola radura che si apriva di fronte la baita che sormontava le viscere del covo.

Gli alberi si erano tinti di un nero assoluto, le foglie non brillavano più, il sole era calato del tutto. Eppure riusciva a scorgere ancora i contorni delle cose intorno a lui, come se i suoi occhi si fossero abituati a vedere anche al buio più profondo e denso.

Aggrottò la fronte. L'aria era gelida, provava la stessa sensazione quando in estate, per via dell'eccessivo caldo, apriva l'anta del freezer per metterci la testa dentro.

La pelle si irrigidì sui muscoli e nuvolette di fumo fuggirono dalle sue labbra. Si strinse tra le braccia. Rabbrividì ancora – quella volta, però, si trattava davvero di brividi.

Si mosse in direzione del covo, con l'intenzione di rientrare, ma un rumore improvviso lo fece trasalire e voltare alla propria destra. Non c'era niente, nessuno, eppure quel dannato rametto si era spezzato. Aveva ceduto al peso del freddo, della neve?

Aggrottò ancora la fronte.
Fioccava. Impalpabili fiocchi di neve vorticavano tra le fronde degli alberi, alcuni sciogliendosi appena arrivavano al suolo, altri depositandosi tra i fili sottili dell'erba.

Tornò a guardare dinanzi a sé. E la baita non c'era più. Un lungo sentiero si apriva verso il nulla, verso un punto reso incerto dalla presenza di fitta nebbia.

Aguzzò la vista, seguendo i movimenti morbidi degli sbuffi grigi che danzavano a meno di venti metri dal punto in cui si trovava lui.

Ci fu un tuono e parve squarciare il cielo, spaccarlo sopra la sua testa. Riportò l'attenzione sulla nebbia e un lampo la illuminò, mostrandogli la sagoma di una creatura che riconobbe subito.

Il cuore gli balzò in gola.
Avanzava verso di lui lentamente, ma senza dubbi su quale fosse il suo obiettivo.

Abel percepì le ginocchia tremare, ma le gambe si mossero lo stesso e scattò di lato, girando in parte su se stesso, iniziando a correre verso la parte opposta. Era diverso rispetto che dentro al labirinto di Magda: non si sentiva appesantito dalla stanchezza, udiva il proprio fiato corto, ma i polmoni non bruciavano. Le orecchie erano piene dei battiti frenetici del suo cuore, ma non gli doleva il petto.

Perché quel dannato mostro continuava a perseguitarlo?

Era morto – e Hauke era morto per salvarlo da lui.

Perché continuava a tormentarlo, a infestare i suoi incubi?

Incubi.

Stava sognando?

Ed era consapevole di stare sognando.

Si sarebbe potuto ribellare, fuggire, svegliarsi?

Si fermò all'improvviso e il demone continuò a muoversi, ma a restare nello stesso punto, tra la nebbia, intento a fissarlo. Le zampe erano enormi e si piegavano, le ossa si contorcevano sotto la pelle spessa, producendo suoni fradici. La nebbia ammantava la sua forma, ampliandola, nascondendone i contorni, dando l'impressione che fosse persino più grosso di quanto ricordasse.

Di colpo non fu più convinto di voler rischiare.

Avevano già tentato, in passato, di farlo fuori nel sonno, incatenandolo al suo stesso inconscio, tramutandolo in una realtà ad occhi chiusi.

Riprese a correre. Si guardò brevemente alle spalle e scoprì con sgomento che il demone aveva abbandonato il suo nascondiglio di nebbia. Riportò l'attenzione davanti a sé e accelerò la corsa. E corse con il ringhio della bestia che continuava a perseguitarlo ad ogni passo, percependo il suo fiato di marciume e morte alitargli sul collo.

Il sentiero del bosco sembrava infinito e nell'istante stesso in cui fece questa considerazione inciampò, cadde e si rialzò di scatto a sedere.

Il demone incombeva dietro di lui e Abel si sollevò da terra il più velocemente possibile e fece per riprendere a correre, ma si bloccò. Davanti a sé si apriva lo spiazzale dell'ospedale. Non c'erano auto posteggiate. Erano stati montati dei falò al loro posto e tre donne erano legate a dei pali, esattamente sopra le cataste di legna secca, avvolte dalle fiamme.

E c'era Magda, le braccia conserte, intenta a sfoggiare un lungo abito da sera dello stesso colore delle fiamme. Fissava i tre patiboli con espressione granitica, senza tradire la minima emozione.

Abel ebbe un mancamento e cadde ancora. Strisciò sui gomiti, allontanandosi da Magda, guardò di lato. Il demone stava scivolando di nuovo nella nebbia, ed ebbe la sensazione che stesse scappando. Con una flemma decisamente strana – forse era indeciso se lasciarlo andare e nascondersi o se portare a termine il suo lavoro. 

Deglutì a vuoto, scivolò ancora indietro e toccò qualcosa di diverso. Non era terra, non era erba, non era neve e trasalì per il panico.

Magda continuava ad assistere al rogo mostruoso, sempre impassibile, mentre le urla delle tre donne arrivavano al picco del loro strazio.

Sollevò gli occhi dietro di sé e vide Rudi incombere su di lui. Non ebbe neppure il tempo di tirare un sorriso di sollievo. Suo fratello mutò forma, indossando i panni terrificanti del Tod, e lo afferrò dal collo, sollevandolo dal suolo.

Si svegliò urlando. Il fatto che, quella volta, fosse stato consapevole di stare vivendo un sogno non era servito: era stato lo stesso orribile.

Era solo nel letto.
Niente Telsa, niente Roberto. Solo.

Si sentiva disperato. In pericolo.
Avrebbe dovuto cominciare a dubitare pure di Rudi? Perché quel dannato demone lo perseguitava ancora? Perché Magda era lì? E quelle donne? Erano delle streghe?

Ormai aveva compreso che i suoi sogni non sempre erano solo sogni.

Qualcosa si agitava nel suo inconscio, non sapeva se fosse solo frutto dei suoi tormenti, dei suoi sentimenti, dei pensieri che lo angosciavano, ma qualcosa c'era.

Non aveva ancora capito cosa, ma spesso si erano verificate situazioni poco piacevoli a seguito di un suo incubo.

Lo aspettava l'ennesima brutta sorpresa.

Scosse la testa.
Aveva fame e brama di caffè. Scese dal letto, districandosi a fatica dalle lenzuola.

Si diresse a passo malfermo in direzione della cucina, muovendosi nella semioscurità del corridoio, tastando la parete di sinistra con una mano. Doveva essere notte, altrimenti le luci che illuminavano i corridoi e le stanze non sarebbero state tanto fioche. O forse era lui a percepirle così a causa della confusione che si agitava nella sua mente e che non gli permetteva di ragionare in modo lucido. Non riusciva più a distinguere tra giorno e notte, tra realtà e finzione. Bene e male. Era arrivato al capolinea della sua sanità mentale, ne era consapevole. 

Si fermò di colpo fissando la propria attenzione sui piedi nudi di qualcuno, sormontati dall'orlo delicato di un abito bianco. Trasse un lungo sospiro e comprese chi era prima di sollevare lo sguardo su di lei. 

Era quasi certo che quella volta non gli sarebbe stato concesso il lusso di ignorarla.

-Abel- disse Gesche e lui reclinò il capo da un lato, mentre i fumi del sonno lo abbandonavano del tutto e il suo stomaco brontolava.

Aveva davvero fame. Da quanto tempo non si nutriva? Non ricordava il suo ultimo pasto.
-Gesche- borbottò e la superò, entrando in cucina.

Si precipitò verso i mobiletti affissi alla parete e ne tirò fuori le merendine di Rudi. Non aveva voglia di perdere tempo a cucinare. Sedette sul piano di lavoro vicino al lavandino e si mise accanto un pacco di patatine, uno di marshmellows e un altro di croissant preconfezionati al cioccolato. Aggredì le patatine e mentre il sapore di sale e rosmarino gli riportavano alla vita le papille gustative, prima ancora di ingoiare, mise in bocca anche un marshmellow. Fu una combo micidiale – probabilmente da acidità –, ma il sapore lo sconvolse così tanto da non permettergli di comprendere del tutto se gli piacesse oppure no.

Nell'indecisione prese altre patatine e l'ennesimo marshmellow e mise tutto in bocca contemporaneamente.

Sua madre lo aveva seguito e lo fissava alquanto disgustata.

Non gli importava. E, soprattutto, non aveva alcuna voglia di parlare con lei, eppure sapeva benissimo che stava per patire l'ennesima discussione poco piacevole. Glielo leggeva in viso: i lineamenti delicati del suo volto erano tesi, la pelle tirata sui muscoli, gli occhi castani – dalle sfumature rossastre – erano pieni di disappunto.

La osservò passarsi una mano tra i lunghi capelli candidi, di un bianco perlaceo. -Dovresti rinunciare al tuo ruolo-

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