UNO
Darsi a danze sensuali, battute a sfondo sessuale, risatine frivole, lo aveva aiutato a malapena a riacquisire una certa sensibilità alle dita dei piedi.
Abel sbuffò, percorse zoppicando lo stretto corridoio che conduceva al suo camerino, e fece per farvi irruzione con la grazia innata di un elefante – o una diva di Hollywood in ritardo.
Perché era in ritardo, anche quella volta, come sempre. Tuttavia, rimase fermo sulla soglia, stupito per le due persone che sorprese all'interno della stanza. -Non si bussa?-
-La porta era aperta-
-Tu non c'eri-
Risposero all'unisono i due intrusi.
Abel sbuffò ancora e imprecò. -Dettagli irrilevanti. Ve ne approfittate solo perché sapete di essere i miei favoriti-
Sorrisero entrambi.
Uno dei due aveva pure occupato la sua sedia. La sua sedia. L'unica presente nel camerino. Un energumeno alto un metro e ottandue, biondo, con gli occhi di un azzurro così sfavillante da far invidia persino al cielo più terso, incorniciati da un paio di occhiali da vista dalla montatura sottile. Il sorriso dell'Intruso Numero Uno si fece più largo, forse consapevole dello sguardo ammirato che era riuscito a catturare.
-Vaffanculo- disse Abel e corse a sedersi sulle sue ginocchia.
Si chinò subito verso i propri piedi per cercare di togliersi le scarpe, e in risposta ricevette una pacca su una coscia. La mano birbante rimase per poco lì, prima di scivolare sensuale verso l'alto.
-Reik- sibilò Abel e strinse la sua mano, impedendogli di andare oltre. -Tu non hai niente da dirgli?- sbottò, rivolgendosi all'Intruso Numero Due.
Si mosse troppo repentinamente e le calze non fecero presa sui jeans indossati dal compagno, finendo per farlo sbilanciare di lato. Agitò le mani per aria, finendo per stringere quelle del secondo uomo, che arrivò in tempo per sorreggerlo, prima che rovinasse sul pavimento come una pera troppo matura.
Alzò gli occhi sul suo viso dalla pelle nera, come un cielo notturno privo di stelle. I capelli ancora più scuri, che aveva tagliato di recente cortissimi, eliminando i ricci morbidi che Abel aveva amato tanto – e per cui non lo aveva ancora perdonato, anche se ciò dava alla sua bellezza una vena ancora più granitica, facendo risaltare gli zigomi alti, la mandibola decisa: sembrava scolpito nell'ematite.
-Questo non ti fa guadagnare punti, sappilo-
Reik rise. -Sei ancora arrabbiato con Florian perché si è tagliato i capelli?-
-Assolutamente sì!- sbottò, liberandosi dalla presa del suo secondo amante.
Florian scosse la testa con espressione rassegnata. -Ricresceranno- disse.
Abel sgranò gli occhi stupito, ma subito dopo assottigliò lo sguardo, fissandolo con diffidenza. -Possono davvero ricrescere i capelli di un vampiro?-
L'uomo annuì. -Unghie e capelli continuano a crescere anche dopo la morte del corpo-
Sussultò. -Non mi dire queste cose macabre dopo che mi hai costretto a cenare! Rischio di vomitare!-
-Sempre delicato e sensibile come un cactus, amore mio- lo riprese Reik e tornò a intrufolare una mano sotto la gonna del suo vestito.
-E tu hai l'ormone impazzito, stasera?- domandò con voce stridula, percependo il suo tocco sfiorargli l'elastico inguinale degli slip.
Per sua fortuna, indossava ancora i collant.
Un pensiero improvviso gli attraversò la mente, stordendolo per qualche secondo, facendogli prendere in considerazione un'ipotesi poco piacevole, ma che avrebbe spiegato perché il suo Reik, di solito tanto pacato e diplomatico – fuori dalla lenzuola – si stesse comportando come se fosse intenzionato a girare un filmino porno dentro il suo camerino.
Non era da lui.
Aprì le mani come a voler allontanare entrambi e si alzò. Reik era più alto di lui pure da seduto e Florian era in piedi – un altro energumeno che lo sovrastava. Ma Abel era alto a malapena un metro e sessanta, senza tacchi; il mondo era pieno di energumeni, ai suoi occhi.
-Non mi farete cambiare idea, non riuscirete a distrarmi. Ho un appuntamento, sono già in ritardo. Devo ancora cambiarmi-
-E noi che pensavamo saresti andato lì con gli abiti di scena- disse Reik con tono ironico.
-Siamo qui per farti da accompagnatori. Per evitare di farti arrivare troppo in ritardo- aggiunse Florian.
Abel gli rivolse un'occhiataccia. -Come no-
Non gli credeva neppure un pochetto. E Florian non sapeva mentirgli, quindi era certo che stesse mentendo, glielo leggeva chiaramente in viso.
-Telsa mi presta i suoi vestiti. Non ho tempo di struccarmi, ma loro ci sono ormai abituati, si sono rassegnati a me, credo. E non ho tempo di cazziarvi...-
-Abel...- tentò di interromperlo Reik.
Alzò la voce per metterlo a tacere. -Volete accompagnarmi? Benissimo! Ma guida sempre Roberto, come avevo già deciso, ché non ho voglia di darvi alcuna possibilità di farmi perdere l'appuntamento-
Florian sospirò teso, ma tacque.
Reik scosse la testa, ma tacque.
E Abel seppe di aver vinto.
•
Roberto li aspettava già in auto. Lo vide di sfuggita mentre, con un dito, si aggiustava gli occhiali, spingendoli sulla radice del naso, e si girava verso di loro, intenti a uscire dall'ingresso secondario del locale.
Abel entrò nell'abitacolo e prese subito posto sul sedile anteriore del passeggero. Allacciò la cintura di sicurezza e si girò a guardare il guidatore. Aveva un'espressione ironica stampata in viso, che gli piegava un angolo della bocca, dalle labbra sottili, disegnando un sorriso sghembo, troppo divertito per suoi gusti – sapeva proprio di presa in giro.
Aggrottò la fronte. -Buonasera, eh-
Roberto alzò una mano in segno di saluto, un gesto molle e decisamente poco entusiasta. -Vedo che abbiamo degli ospiti- disse, girandosi a guardare brevemente verso i sedili posteriori, dove avevano preso posto Reik e Florian.
Abel sbuffò e quasi si trovò a maledire mentalmente i suoi compagni che si erano trincerati dietro un ostinato silenzio, lasciando a lui l'arduo compito di dover giustificare la loro imprevista presenza.
Non aveva scuse, comunque.
Non voleva neppure darne, di scuse.
-Hai intenzione di mettere in moto?- chiese invece, con tono piccato. L'uomo scosse la testa e il suo sorriso si allargò, mentre tornava a guardare dinanzi a sé. -Cerca di farmi arrivare a destinazione con il minor ritardo possibile, senza ucciderci, grazie- aggiunse e Roberto accese l'auto.
Nella semioscurità dell'abitacolo, la sua pelle – di solito pallida, tendente a un giallo malaticcio – sembrava quasi grigia, ma di un grigio perlaceo, che ricordava il colore della faccia luminosa della luna, e pareva risplendere di luce propria. Era sempre stato fisicamente rachitico, le spalle strette, il petto un po' incavato, i fianchi e le gambe sottili, ma quella sera gli parve che riempiesse il sedile del guidatore più del solito. I suoi occhi scuri erano schermati dai riflessi che, le lenti degli occhiali, catturavano dalle luci che rischiaravano le strade di Idstein. Sembrava di buon umore, allegro, ma Roberto era sempre allegro – quando la sua attenzione non veniva risucchiata del tutto da qualche aggeggio elettronico, o da un film western.
-Sembri ringiovanito- mormorò. Roberto, in risposta, prese una curva stretta a tutta velocità e Abel si aggrappò al sedile, imprecando. -Ti avevo pregato, dannazione! Pregato! Di non ucciderci!-
-Io sono un vampiro. Le tue preghiere sono sprecate con me-
Abel sbuffò. -Voi non avete nulla da dirgli?- chiese rivolgendosi ai due che occupavano i sedili posteriori, e che parevano fossero di colpo diventati loquaci e presenti come due statue di sale.
-Siamo vivi- disse Reik.
-Un incidente non ucciderebbe nessuno di noi tre e tutti e tre ci prodigheremmo per salvare te- rispose Florian.
E il suo tono di voce, ad Abel, risuonò assolutamente serio.
Troppo serio.
Rischiava di incazzarsi.
Imprecò ancora e tornò a guardare la strada, imponendosi di stare zitto.
Con la coda dell'occhio, vide Roberto sogghignare e si trattenne dal strangolarlo: non sarebbe servito a farlo fuori e lui, in fin dei conti, non era un tipo solito a esternare il proprio malcontento con la violenza. Anzi.
Tendeva a elaborare mentalmente piani malvagi e sanguinari che poi, spesso, si traducevano in urletti striduli e battute affilate.
Era Abel. Era fatto così.
Si lasciarono alle spalle Idstein, superarono il Galgenberg, percorrendo una lunga strada che continuava costeggiando la brughiera di Dasbach. Superarono pure quella, mentre il sonno cominciava a corteggiare le palpebre di Abel, e sembrava permettergli che se solo si fosse convinto a chiudere gli occhi, con tutta probabilità, sarebbe riuscito a dormire ore intere e tranquille.
Aveva sonno, sì, ma non dormiva per più di due ore di seguito da settimane – e non si concedeva un sonno tranquillo forse addirittura da molto più tempo.
Scosse la testa e si passò una mano dietro al collo, massaggiando i muscoli tesi. -Ci vorrebbe un caffè- percepì qualcuno picchiettargli una spalla con un dito, e si girò infastidito verso i sedili posteriori. Si trovò davanti agli occhi una tazza con dentro del caffè fumante. -Che diavolo...- l'aroma invitante gli mozzò il respiro, mentre le papille gustative parevano iniziare a ballare la danza della gioia alla prospettiva di poter bere del caffè.
-L'ho preparato prima di scendere da casa. Per fortuna è ancora caldo- disse Florian, agitando davanti ai suoi occhi un thermos.
Roberto fermò l'auto, Abel prese la tazza tra le mani, sentendosi stordito per la sorpresa inaspettata. -Grazie- mormorò e scese dal mezzo.
Si trovavano al limitare della brughiera, nei pressi di un fitto bosco, scuro, tenebroso, inquietante. Tanto fitto da non permettere di continuare oltre in auto. La luna era alta nel cielo e proiettava lunghe ombre al suolo, restituendo le forme dei tronchi degli alberi in maniera distorta. Somigliavano a lunghe dita scheletriche che si protendevano verso di loro.
Abel bevve un sorso di caffè e, continuando a stringere la tazza tra le mani, si addentrò nel bosco. Roberto camminava al suo fianco, gli altri due li seguivano a pochi passi di distanza. Si mosse con sicurezza, anche se non c'era un sentiero da seguire, stando attento a dove metteva i piedi, evitando radici sporgenti, ghiaccio scivoloso, affondando spesso nella neve.
Per fortuna, indossava gli stivaletti imbottiti di pelliccia di Telsa. Due suoi maglioni, la giacca, leggings e pantaloni felpati.
Per fortuna, Telsa portava la sua stessa misura.
Ma lui sentiva freddo lo stesso.
Arrivò a destinazione che aveva bevuto tutto il suo caffè, e la tazza gli si era freddata tra le mani. La restituì a Florian e sollevò lo sguardo a fissare il tetto spiovente dell'abitazione spettrale che sorgeva tra la fitta vegetazione invernale. Le finestre erano chiuse, sprangate. La porta d'ingresso era realizzata in ferro battuto – sembrava promettere di pesare almeno un paio di tonnellate. I gradini, che salivano verso il piccolo patio che si apriva sul davanti, presententavano diversi buchi e alcune grosse schegge, rimaste attaccate alla struttura, e somigliavano spaventosamente ai dei pugnali lasciati lì per dissuadere chiunque ad avventurarsi nella salita.
Sospirò. Non aveva alcuna voglia di entrare, ma era in ritardo – come sempre. Non aveva tempo per inventarsi una scusa e saltare il suo appuntamento.
E, come se ciò non bastasse, si trovava in mezzo al fottuto nulla e stava crepando di freddo.
Era in compagnia di Roberto, come dai suoi piani, ma la presenza inaspettata di Reik e Florian non gli dispiaceva neanche troppo – anche se si sentiva ancora restio nel doverlo ammettere a voce.
La porta d'ingresso cominciò ad aprirsi molto lentamente, accompagnata da un cigolare sinistro.
Sarebbe dovuto arrivare da solo all'ovvietà per cui non avrebbe avuto alcun bisogno di bussare per annunciare il proprio arrivo – neppure di urlare di tirare fuori una passerella, una scala mobile, per salire i pochi gradini senza restarci secco. La porta si stava aprendo, infatti, alla stregua di un ponte levatoio e si poggiò con un tonfo, reso fradicio dalla neve in cui sprofondò, proprio a pochi centimetri dai suoi piedi.
Un energumeno alto due metri riempì quasi tutto lo spazio dell'ingresso. La luce, proveniente dall'interno dell'abitazione, illuminava il contorno del suo corpo massiccio, lasciando in penombra i lineamenti del viso, ma Abel lo riconobbe subito. Gli era ormai diventato così familiare, nelle ultime settimane, che non ebbe alcun bisogno d'altro per capire chi aveva deciso di accoglierlo, quella sera.
E ciò non gli sembrava affatto un messaggio di buon auspicio.
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