UNDICI

Organizzare un viaggio per l'Italia, all'ultimo secondo, era stato più facile del previsto: John si era dato latitante e non aveva più risposto alle sue telefonate, quindi non avevano parlato – dopo il loro breve incontro in ospedale – e Abel non aveva idea di che cosa il commissario avrebbe voluto dirgli prima che lo investissero.

Reik era ancora arrabbiato con lui – forse per non aver schivato l'auto, per non aver preso il numero di targa mentre lo mettevano sotto e lo spedivano nel Mondo dei Sogni; oppure perché non aveva pianto troppo dopo aver scoperto che qualcuno – di nuovo – aveva tentato di ammazzarlo, e che no, non era stato investito per un puro, spiacevole caso.

E Florian era arrabbiato con lui, perché Abel continuava a non mettersi nei panni di Reik, non lo capiva, non empatizzava con lui e continuava a rompere gli equilibri della loro relazione – più o meno, perché non era molto sicuro di queste sue ipotesi, dato che Florian non gli aveva proprio rivolto parola da quando Abel si era auto-dimesso dall'ospedale.

Quindi, organizzare un viaggio last minute era stato proprio facile: aveva chiuso il MoonClan per qualche giorno, e nessuno gli aveva chiesto perché, come, quando, nessuno gli aveva messo il bastone tra le ruote. Avevano comprato i biglietti la sera stessa che aveva incontrato Else, Geert ed Hias al covo del Clan, e due giorni dopo erano già in viaggio.

Abel con Roberto e Telsa.
Else, Geert ed Hias.
Non ne era particolarmente entusiasta.

Sbuffò, armeggiando con la cintura di sicurezza.

-Stai bene?- chiese Roberto, seduto al suo fianco.

-Se la smettessi di smanettare con il tuo cellulare, evitando di farci correre il rischio di farci precipitare tutti...-

-È un satellitare-

Aprì la bocca a formare una "o" di stupore. -E cambia qualcosa?- Telsa ridacchiò nervosamente. -Hai paura di volare?- le domandò.

-Da morire. Ma più sono tesa e più viene da ridere-

Abel fece schioccare la lingua contro il palato. -Si chiama esaurimento nervoso. Benvenuta nel club!-

Telsa rise più forte e le spuntarono delle lacrime agli angoli degli occhi.

Roberto non rispose. Ignorò del tutto la sua domanda e cambiò d'improvviso argomento. -Perché ti sei voluto portare quei tre?- domandò, rivolgendo un cenno approssimativo verso i sedili più avanti, dove in fondo stavano i loro strani accompagnatori.

-Fanno parte della Guardia- tagliò corto Abel.

Non voleva dargli troppe spiegazioni: era ancora arrabbiato con lui per il fatto che pareva infischiarsene del pericolo che stava facendo correre a tutti i passeggeri – lui compreso –, continuando a giocherellare con il suo dannato cellulare.

-Pure Hias? Non lo avevo capito-

Annuì, Telsa lo precedette e rispose al posto suo. -Tutti gli uomini del branco fanno parte della Guardia. È una cosa automatica, decisa per ogni membro del branco di sesso maschile prima ancora della sua nascita. Si dà per scontato che, in quanto facenti parte del branco, siano più motivati a proteggere il capoclan-

-Come no...- borbottò Roberto.

Abel gli rivolse un'occhiataccia. -Lo so da me che questa idea è una grande cazzata. Ma loro sono convinti ancora così-

-Per alcuni è davvero ancora così- mormorò Telsa, facendosi improvvisamente seria.

-Hai capito quello che ha detto Hias al covo, no?- domandò Roberto.

Abel annuì di nuovo e strinse le labbra in una linea sottile. Quella volta fu lui a cambiare argomento. -Com'è che hai un fratello licantropo?-

-Non è proprio un licantropo- mormorò il vampiro, guardandosi intorno con fare circospetto. Abbassò la voce di qualche ottava e poggiò una guancia su una sua spalla. Abel comprese subito che non stava flirtando con lui, ma gli si era solo avvicinato per far sì che a sentirlo fosse solo lui. -Noi siamo una specie a parte-

-Noi?-

Roberto sorrise e si aggiustò gli occhiali, spingendoli sulla radice del naso. -Lo capirai quando arriveremo-

Occupava una scomoda sedia d'acciaio. Poggiava le braccia sulla superficie di un piccolo tavolo, dello stesso materiale della sedia. La stanza era piccola, le luci che la illuminavano fiocamente erano piccole – sembravano delle lucciole incastrate negli angoli. Una porta e uno specchio scuro, dove poteva osservare la propria immagine riflessa in modo distorto. Aveva già distolto lo sguardo da lì un paio di volte, percependo una strana inquietudine ogni volta che era riuscito a incontrare il proprio sguardo sulla superficie vitrea. Ma poi tornava a cercarlo, sentendosi come calamitato in quel preciso punto.

E di nuovo finì per specchiarsi. L'immagine riflessa ebbe un fremito, si scompone in linee orizzontali e imprecise, come se ci fosse una specie di interferenza di linee – eppure era certo che fosse uno specchio, non una televisione.

Aggrottò la fronte e il suo riflesso si ricompose. Sorrise. E Abel rabbrividì.
Lui non stava sorridendo affatto.

Il lui nello specchio reclinò il capo da un lato, mentre i suoi occhi si riempivano di oscurità.

Abel fece per scattare in piedi, con l'intenzione di correre fuori dalla stanza, ma si accorse solo in quell'istante di avere polsi e caviglie legati alla sedia. Tentò di liberarsi, ma non riuscì neanche ad allentare le corde che lo tenevano prigioniero, anzi, si procurò delle lacerazioni alla pelle, così dolorose da spingerlo a desistere dal proprio intento.

Tornò a guardare il proprio riflesso. L'oscurità traboccava dai suoi occhi, dalle labbra, come melma nera, densa, scivolando sulla pelle e lasciando solchi oltre i quali poteva scorgere tessuti, tendini, ossa.

Trattenne un conato e serrò gli occhi, percependo il cuore balzargli in gola, mentre cominciava a sudare. Un sudore freddo, che pareva incollarsi addosso come un velo gelido, bagnato, che lo fece rabbrividire. Scosse la testa, e goccioline di sudore gli attraversarono una guancia, le labbra e sgranò gli occhi spaventato che potesse non trattarsi di solo sudore.

Lo specchio davanti a lui era vuoto. Non riusciva più a riflettersi.

La gola sembrava così piena di cose, parole, urla, respiri spezzati, frammenti di vetro. Si sentiva soffocare, ma non osava aprire bocca.

Si sentiva come se stesse per esplodere, ma tentò con tutte le proprie forze di resistere.

La vista si fece incerta, era quasi certo di essere sul punto di svenire.

-Abel-

Qualcuno aveva parlato, ma non ne aveva riconosciuto la voce. Non era neppure stato in grado di capire se a parlare era stato un uomo, una donna, qualcuno dentro o fuori dalla stanza.

Riportò l'attenzione davanti a sé e si accorse soltanto in quel momento che dall'altra parte del tavolo c'era un'altra sedia, ed era occupata da Hauke.

Fece per allungare le braccia verso di lui, ma era ancora prigioniero. Si guardò le mani, mosse le dita, le corde parvero stringersi ancora di più sui suoi polsi.

Tornò a guardare verso Hauke. La sua espressione era tesa, triste. I suoi occhi sembravano colmi di parole, ma dalle sue labbra, serrate, non usciva un solo suono. Scosse la testa.

Abel urlò e si svegliò.

Balzò sul sedile, sbatté una spalla contro un punto imprecisato della carrozzeria e tornò ad incollarsi al fianco di Geert.

Geert.

Scosse la testa e si passò le mani tra i capelli: si sentiva formicolare ovunque, come se uno sciame di insetti stesse camminando sulla sua pelle. Una sensazione repellente, disgustosa, conturbante.

-Stai bene?- chiese Geert, ma Roberto sterzò all'improvviso, facendolo finire ancora contro la carrozzeria dell'auto.

-Perché cazzo guidi sempre tu!- tuonò Abel, colmo di collera.

-Saresti potuto andare con Telsa ed Else- disse Roberto e lui aggrottò la fronte.

-L'intenzione c'era, ma mi avete trascinato qui con voi. Si vede che non potete fare a meno della mia presenza-

-Si vede un cazzo, nanerottolo. Ti abbiamo trascinato qui perché stai più al sicuro qui-

-Perché sono finito nella macchina delle fighe e potentissime guardie del corpo di sesso maschile?- ribatté piccato. Hias si mosse nervosamente sul sedile anteriore del passeggero, e Roberto sterzò ancora. -Non ci arrivo vivo comunque, a destinazione!- tuonò, e tentò di porre nuova distanza fisica tra sé e Geert.

-Siamo arrivati- disse Roberto e frenò all'improvviso, fermando l'auto.

Abel scese di corsa e si piegò in due, sconvolto da un conato che parve spezzargli lo stomaco, gli serrò la gola e lo lasciò senza fiato, facendogli sputare un po' di saliva.

-Stai bene?- domandò Telsa e percepì la sua mano sulla fronte.

Si calmò subito e l'abbracciò di slancio, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo.

-Mai pensato che questo tuo malessere sia dovuto alla distanza fisica con il branco?- chiese Else.

Abel aprì gli occhi a fatica, percependo le palpebre pesanti come mattoni di cemento. -In che senso?- domandò con un filo di voce.

-Sei cresciuto nel calore e nel potere del branco. È come se fossi sempre stato avvolto da una coperta che, quando hai lasciato il Clan, ti si è strappata di dosso. Magari il tuo fisico sta iniziando ad accusare la prolungata mancanza della... coperta-

Abel aggrottò la fronte. Era davvero questo il motivo? Vero era che era stato investito da un'auto meno di quattro giorni prima, ma poi rammentò che così male ormai ci si sentiva da davvero troppo tempo. La stanchezza, la confusione, il senso di depressione che ammorbava il suo fisico facendogli venire meno il desiderio di prendersi cura di lui – mangiare, dormire: funzioni primitive che lui riusciva a ignorare anche fin troppo bene. E lo stress che aveva assorbito negli ultimi mesi doveva aver nascosto bene il vero motivo del suo malessere.

È una possibilità.

Dopotutto, aveva iniziato a stare peggio dal momento in cui sua madre aveva smesso di intromettersi nella sua mente, da quando aveva iniziato a vivere con un vampiro e un mannaro, da quando aveva smesso di avere rapporti continuativi con Hauke. Si era privato di ogni appiglio che il Clan aveva continuato a tendergli dopo che era stato allontanato dalla sua famiglia – dopo che si era allontanato dalla sua famiglia.

Scosse la testa. -Abbiamo altre priorità, adesso-

Nessuno fiatò e Roberto lasciò la strada, cominciando a muoversi verso un sentiero sterrato che procedeva tra campi verdi, lussureggianti, sotto un cielo terso, carico di nuvole soffici e di un bianco splendente. Era sorprendente come il clima, lì, fosse completamente diverso rispetto a quello che si erano lasciati a casa. L'aria era tiepida, colma del profumo di erba e fiori di campo. Di un calore dolce.

Si tolse la giacca. Il sole gli scaldava la pelle in modo piacevole, confortando il suo fisico abbastanza provato dagli avvenimenti degli ultimi giorni.

Se davvero è come ipotizza Else, la loro vicinanza durante questo viaggio me ne potrà dare conferma.

Prese Telsa per mano e seguirono Roberto, scortati dagli altri tre.

La strada terminava davanti un'ampia cancellata di legno, oltre la quale si scorgeva il profilo di una fattoria, con tanto di casolare dalle pareti di mattoni e il tetto spiovente. Una stalla, un recinto dentro cui stanziavano dormienti tre cavalli. Pulcini e galline scorrazzano un po' ovunque e un cane pastore sonnecchiava sul patio del casolare. Lo vide sollevare il muso, annusare l'aria. Iniziò a scodinzolare e andò loro incontro piano, con le orecchie basse. Roberto gli accarezzò la testa e la bestiola gli starnutì su una mano.

-Okay...- fece Abel, sentendosi teso. -Dove diavolo siamo?-

-A casa- rispose semplicemente il vampiro e la porta dell'abitazione venne aperta e un uomo comparve sulla soglia.

Alto, snello, ma possente, capelli ricci e scuri. Un fucile stretto in una mano, tenuto poggiato su una spalla, con la canna rivolta verso l'alto.

Abel fece un saltello all'indietro e finì per scontrarsi con Else. -Non mi sembra un'accoglienza felice- borbottò.

Roberto sorrise e anche il proprietario della fattoria sorrise a sua volta.

-Potevi avvisarmi. Il silenzio era troppo inquietante- disse l'uomo, scendendo i gradini, continuando a tenere con sé il dannato fucile, andando loro incontro.

-Così è stato più divertente- ridacchiò Roberto e indicò dietro di sé. -Gli hai fatto prendere un colpo-

Abel aggrottò la fronte. Era certo che il vampiro si stesse rivolgendo a lui. Intorno a sé tutti gli altri sembravano assolutamente impassibili. Forse si sono cotti al sole. -Il fucile è necessario?-

Il tipo si portò un dito a toccarsi la punta del naso. -L'olfatto non è più quello di una volta. E Thor è vecchio, cieco e rimbambito- disse, indicando poi il cane.

-Capo!- esclamò Roberto, facendolo trasalire.

-Non chiamarmi così, dannazione- borbottò Abel a denti stretti.

-Lui è Valerio, mio fratello. Valerio, ti presento il famigerato Abel Schmidt-

-Famigerato? Ormai è cosa saputa che sono letale come un bradipo in letargo- sbottò e incrociò le braccia sul petto.

Valerio sorrise e i muscoli della sua mandibola si tesero. Era tutto muscoli, tensione e sensualità, quell'uomo – e forse lo sarebbe stato ancora di più se avesse smesso di stringere un fucile con tanta nonchalance. -Stando a quello che mi ha raccontato il mio fratellino, però, sarai pure letale come un bradipo in letargo, ma sembra proprio che tu sia un tipo difficile da fare fuori- Roberto rise. Abel sbuffò rassegnato alla strana ilarità del vampiro. Valerio allargò le braccia. -Benvenuti nella nostra umile dimora-

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