TRENTASEI

Keller lo fissava con un misto di incredulità e allegria fuori luogo. Si passò una mano tra i radi capelli biondi e si aggiustò gli occhiali sulla radice del naso. -Perché mai dovremmo scendere a patti con il Clan? Riusciremo a riavere quello che è nostro, come abbiamo sempre fatto, usando i nostri mezzi-

I loro mezzi. Abel trasalì. Improvvisamente non aveva più tanta voglia di morire. Aveva fatto una cazzata. Era stato difficile eludere la sorveglianza del Clan e uscire di nascosto, ma in quel momento si domandò per quale motivo si fosse convinto di agire in modo tanto scellerato.

Voleva morire? Perché morire per mano dell'A.S.S.S. – sicuramente – a seguito di torture indicibili?

Erano riusciti a ledere l'armatura infrangibile di Saul. Era sicuro che suo padre si fosse mostrato tanto premuroso con lui solo per via di ciò che aveva subito lì dentro. Non era mai stato prigioniero dell'Associazione tanto a lungo da sperimentare la loro ospitalità sulla propria pelle, fino all'ultima detenzione.

Erano riusciti a scalfire Saul: avrebbero massacrato lui.

Volevi morire? Potevi gettarti sotto un treno, cazzo.

Ma non voleva morire. Non si fidava più di nessuno di coloro che lo circondavano, ma voleva bene a ognuno di loro, e sentiva sulle proprie spalle il peso della responsabilità della sicurezza del Clan. Era il capo in carica – anche se, forse, proprio come quelli dell'Associazione, anche i membri del Clan pensavano che lui fosse solo un burattino nelle mani di Saul.

Non era così.
Magari suo padre aveva fatto in modo di stimolare certe sue decisioni, di plagiarlo anche a distanza, muovendo le sue pedine per portarlo sulla strada che aveva voluto lui. Tuttavia Abel aveva agito seguendo solo il suo istinto, i suoi credo. Non ammetteva repliche riguardo questo punto. Sapeva di essere rimasto fedele a se stesso. Sentiva di essere cambiato, ma non di certo perché plagiato da Saul – o chi per lui. -Siete selettivi anche con chi decidete di scendere a patti? Eppure noi dovremmo avere una marcia in più- reclinò il capo da un lato e sorrise. -Siamo amici di vecchia data-

Keller scrollò le spalle. -Amici? Non direi proprio, no. Siete più il frutto di un capriccio dei nostri antenati. Pupazzetti che hanno perso il senno-

Si morse un labbro e strinse con forza le estremità dei braccioli della sedia, fino a farsi sbiancare le nocche. Non tollerava quel genere di discorsi: erano esseri viventi, non pupazzetti. Come e perché erano nati era assolutamente irrilevante. Vivevano, provavano emozioni, dolore. Si innamoravano. Pensavano, agivano secondo i propri pensieri. -Non sono d'accordo-

-E a noi cosa dovrebbe importare del fatto che lei non sia d'accordo?- Keller tornò a poggiarsi contro lo schienale della poltrona. -Cosa si fa con i giocattoli rotti, signor Schmidt?-

Percepì le guance andare a fuoco per la rabbia. Fu così improvvisa e devastante che gli parve di ardere all'istante, dai piedi fino alla sommità della testa. E captò un movimento alle proprie spalle.

Non pensò, agì: balzò sopra la scrivania di Keller, riuscendo ad avere una visuale più ampia della stanza, di modo da tenere tutti i presenti sotto controllo. Ma restavano cinque contro uno.

Keller lo fissò dal basso con un sorriso che era tornato a essere parecchio compiaciuto. -Davvero atletico. La vedo in forma, signor Schmidt. Chissà quanto potrà durare...- e lasciò la frase in sospeso.

Era certo che lo avrebbero catturato: glielo leggeva in viso. E forse aveva pure ragione, ma Abel non era assolutamente intenzionato a mollare senza lottare. -State prendendo per il culo pure Magda- disse per prendere tempo, anche se credeva a ciò che aveva appena detto.

Keller annuì. -Una bella serpentella irriverente, la sua amica. Ma totalmente fuori di testa. Credeva davvero di poter scendere a patti con noi!- e rise.

Magda avrebbe avuto un brusco e spiacevole risveglio.

Non è un tuo problema – non ora.

Uno dei becchini spezzò la tensione, avvicinandosi a lui, protendendo le mani in avanti.

-E lei non può pretendere che io mi faccia sfuggire ancora l'opportunità di catturare il capoclan di Idstein, signor Schmidt- il suo tono si era fatto basso, minaccioso. -Parlo di suo padre, ovviamente- sempre più basso.

In risposta il suo corpo reagì ricoprendosi di brividi di tensione e paura. Con la coda dell'occhio continuò a tenere sotto controllo il tipo che avanzava verso di lui. Un passo per volta. Con estrema calma. Prima o poi la calma si sarebbe spezzata e tutto sarebbe esploso nel caos: aveva imparato a riconoscere quei momenti di stallo prima della tempesta.

-Durante il nostro ultimo incontro abbiamo dovuto lasciar correre, per evitare che la nostra amica mangiasse la foglia, ma capirà bene che se lei si presenta qui di sua spontanea volontà...-

Che cazzata. Ho fatto una cazzata.

Ci aveva sperato. Era stato sicuro di non riuscire nel proprio intento, ma era andato lì perché in fondo al cuore aveva davvero sperato che tutto potesse risolversi senza più spargimenti di sangue, senza più essere costretti a costruire nuovi incubi sulla misura di ognuno di loro. Non si fidava di nessuno, eppure continuava a nutrire un'insensata fiducia nel bene.

E questo non lo stava premiando, anzi.

Sarebbe dovuto diventare più cinico e freddo, arrogante e distaccato.

Ma prima doveva uscire vivo fuori da lì.

Il tipo alla sua destra compì l'ultimo passo nella sua direzione. Abel si girò di scatto, fece perno sulle sue spalle e saltò giù dalla scrivania. Il becchino inciampò e cadde.
E scoppiò il caos.

Corse in direzione dell'uscita e per il corridoio, mentre un allarme acuto scattava all'improvviso, rischiando di perforargli i timpani. Vide arrivare delle persone dalla parte verso cui stava procedendo, udiva chiaramente i passi dietro di sé e si infilò in una stanza a destra.
Senza riflettere.

C'era una donna lì dentro.

Una strega? Lo avrebbe scoperto presto.

La tipa si scagliò contro di lui e Abel si flesse sulle ginocchia, la colpì all'addome, girò intorno a lei, schivando il calcio che puntava alla sua testa. Lei lo afferrò per le spalle e lo sbatté contro il pavimento, Abel fece perno sui talloni e riuscì a capovolgere le loro posizioni. Si trovò a cavalcioni sopra di lei ed ebbe un attimo di esitazione: difendersi sì, ma agire colpendo per primo era un altro discorso.
Non voleva aggredirla.

Lei non parve porsi i suoi stessi problemi e gli diede un pugno in pieno volto.

Si sentì stordito e instintivamente le afferrò i polsi, mentre la testa pulsava per il dolore. Si girò verso la porta e vide arrivare gli altri.

Si alzò di scatto e agì d'istinto – ancora. Non ragionava più. Era tutto una tensione, ansia, respiri accelerati, battiti del cuore impazziti, sudore, muscoli che pulsavano, si contraevano fino allo spasmo. Pensieri fugaci e inafferrabili.

Si diresse verso la finestra che si apriva nella parete. Ricordava vagamente che erano saliti al primo piano della struttura, ma non aveva tempo per ricordare davvero.

La finestra o i becchini.

Scelse la finestra, si arrampicò sul basso muro e si lanciò oltre.

Chiuse gli occhi, sentendosi abbracciare dal vuoto, lo stomaco si contorse, si riempì dello stesso vuoto che lo circondava, il panico gli serrò la gola e il vento lo avvolse nel suo abbraccio mortale.

Stava per morire. Ne era sicuro.

Il tempo si dilatò, assunse consistenza. Gli attimi si tramutarono in minuti, i secondi in ore. Eppure tutto stava scorrendo troppo velocemente, tanto da non permettergli di riprendere a pensare.

Ma non toccò terra. Si incastrò in qualcosa di solido, evitando lo schianto, percependo l'aria ritirarsi intorno a lui.

Aprì gli occhi.

Il viso di Saul gli apparve in tutta la sua solida concretezza, riempiendo la sua intera visuale.
Ed era incazzato, furioso.

Ed era lì.

Porca puttana.

Suo padre lo fece tornare con i piedi per terra. Ebbe il tempo di scorgere Musa, Rudi, Roberto, Telsa, Hias e altri due tipi che non conosceva. E Geert. Si stupì di vederlo lì, ma, ancora una volta, non ebbe tempo per riflettere sulla cosa.

Il gruppo si mosse intorno a lui, formando una specie di scudo vivente. Erano circondati – ed era certo che quella volta non sarebbero stati risparmiati colpi.
L'aria si fece cupa, due donne e un uomo vennero avanti, distaccandosi dal gruppo dei becchini. Abel comprese immediatamente chi erano prima ancora che il loro aspetto mutasse, rivelando la loro natura demoniaca.

Rudi assunse la forma di Tod, e fu il primo a muoversi, spezzando la tensione.

Comparvero i lupi di Telsa, Saul e gli altri, l'unico a rimase in forma umana fu Geert, e si pose davanti a lui, schermandolo con il proprio corpo.

L'ansia gli bloccò il respiro in gola, mentre dal folto del bosco comparivano altri lupi, enormi bestie dall'aspetto parecchio incazzato.

Arrivarono i suoni raccapriccianti, le urla.

Ed era colpa sua.

Oh mio Dio, che cosa ho fatto...

Aveva tentato di salvare la sua gente, vendendo l'anima al diavolo, invece era riuscito a mettere in pericolo tutti.

Piantò le unghie in un braccio di Geert. Lui lo fissò per qualche istante e il suo sguardo era pieno del suo stesso rammarico, del suo stesso sgomento. Lesse dolore, profondo, immenso. Il suo cuore ebbe un sussulto. E seppe di averlo già perdonato per il suo tradimento.

Erano uguali: avevano agito seguendo la propria concezione di giustizia e avevano mandato tutto a puttane.

Percepì qualcosa attanagliargli una caviglia e il cuore gli balzò in gola. Sgranò gli occhi e Geert aggrottò la fronte. Venne attirato di peso verso il basso, all'indietro, batté il mento contro il suolo, il petto contro la terra, le mani gli si riempirono di polvere ed erba. Nella frazione di un istante venne trascinato verso un punto imprecisato dietro di sé, riuscì a girarsi, a guardarsi alle spalle, senza trovare un modo per arrestare la corsa verso il punto designato.

Vide una delle streghe attirarlo a sé. Era la stessa che lo aveva aggredito nel suo letto, una di quelle che avevano popolato i suoi incubi.

Urlò e tentò di afferrare qualcosa, di piantarsi con le dita nella terra. Si spezzò diverse unghie, il dolore fu lancinante, urlò ancora, finendo con la schiena contro il terriccio.

Poi vide il lupo. Enorme, dal manto color miele, che attaccava la strega direttamente alla gola. La becchina cadde e l'incanto si spezzò, lasciando Abel libero.

Il lupo l'aggredì, lei tentò di difendersi, di richiamare i propri poteri per convogliarli contro di lui, ma lui fu più veloce e attaccò puntando al collo. Recise la testa dal corpo.

Abel serrò gli occhi: aveva visto, ma aveva percepito la scena come la grottesca visione di una finzione, senza riuscire a dare realtà alla sequenza che gli aveva riempito gli occhi di nuovi orrori. A occhi chiusi fu tutto diverso. Comprese fino in fondo quello che aveva visto e la bile gli salì di corsa in gola.

Si piegò su un fianco, sputò saliva, si portò una mano all'addome. Faceva male, si contraeva seguendo spasmi di dolore così forte da fargli temere di stare per lacerarsi dall'interno. Si sentiva sul punto di spaccarsi, di esplodere. Il dolore era così forte da rimbombare in ogni fibra del corpo, schiantarsi con prepotenza tra le tempie, e il mal di testa assunse la potenza di lame che gli trapassavano il cranio. Così forte da rendergli la vista incerta, opaca; poi il bianco, denso e insondabile. Sputò ancora.

Sentì un peso su una spalla, si girò di colpo, terrorizzato. Batté le palpebre. Le forme intorno a lui iniziarono a riacquisire senso, continuando però a essere circondate da indefiniti aloni privi di colori.

Il muso del lupo che lo aveva salvato incombeva su di lui, i suoi occhi erano enormi, di un celeste così intenso, perfetto, inumano. Le iridi brillavano come diamanti trafitti dai riflessi del cielo. Il pelo intorno alle labbra scure e al naso era umido, imbrattato di sangue. Schiuse le fauci, il suo ringhio gli accarezzò la pelle, il suo alito sapeva di morte.

Rabbrividì. Comprese immediatamente che si trattava di Geert. Riconobbe i suoi occhi di lupo. Tentò di rialzarsi, ma le gambe non ne volevano sapere di collaborare. Qualcuno lo afferrò da sotto le ascelle, aiutandolo a rimettersi in piedi. Scoprì che si trattava di Musa e di uno dei suoi ragazzi, mandati da Valerio per aiutarlo a difendersi dalla sua stessa gente. Eppure erano tutti lì, stavano lottando tutti insieme contro lo stesso nemico.

Gli sembrava che stessero pagando un prezzo troppo alto per comprendere un concetto che sarebbe potuto essere tanto semplice: Insieme possiamo farcela.

Insieme possiamo farcela.

Se lo ripeté mentalmente un numero infinito di volte.

Si aggrappò alle braccia di Musa e lei se lo caricò contro, assorbendo tutta la sua fragilità.

Si guardò intorno. La prima cosa che pensò fu che ci fossero troppi corpi a terra.
Troppi.

Non aveva importanza a chi appartenessero. Erano troppi.

Troppi.

Tremò e si scansò da Musa. Cercò con lo sguardo Telsa e vide il suo lupo, il petto ansante, le fauci spalancate, al fianco di Roberto. Roberto era impassibile, aveva perso gli occhiali, il suo volto appariva più pallido del solito, le chiazze di sangue che imbrattavano il suo corpo e i suoi vestiti spiccavano in modo drammatico a contrasto con il colorito smorto.

Rudi era tornato in forma umana. Lo vide afferrare un uomo per la parte posteriore del lungo cappotto nero, sbatterlo con violenza contro il suolo, incombere su di lui. Il suo braccio sinistro mutò aspetto all'istante, la carne si ritirò, i muscoli scomparvero e venne fuori l'arto composto da ossa lucide, la mano scheletrica, terminante in lunghi artigli bianchi che puntavano dritti alla giugulare del becchino.

Urlò nella sua direzione, corse verso di lui, riuscendo a fermarlo in tempo. -Basta! Fermati! Basta!-

Avevano vinto. E la vittoria aveva un sapore amaro.
Disgustoso.

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