TRENTA

Abel tossì, sentendosi pizzicare la gola da una patatina andatagli di traverso. Recuperò una tazza di caffè e bevve avidamente – anche se sapeva di acqua di pozzanghera putrida. -Dovrei convincere chi fa la spesa, qui dentro, a cambiare miscela di caffè, piuttosto- ribatté e bevve un altro sorso di caffè.

Sua madre aggrottò la fronte e sottili rughe le solcarono la pelle sotto l'attaccatura dei capelli, rovinando l'illusione della sua eterna giovinezza. Doveva aver passato la metà della decade dei cinquanta, ormai, ma sapeva ancora ingannare con il suo aspetto, fin troppo spesso, spacciandosi per una ragazzina. La statura, le forme acerbe del corpo, la pelle candida e il visino delicato. Ma si portava dentro lo stesso veleno che sembrava infettare il sangue della maggior parte dei membri della sua famiglia e ciò stava cominciando a turbare la sua maschera, in qualche modo.

-Sono seria-

-Anch'io. Rischio un attacco di acidità mortale-

-Non sarà, per caso, colpa della combo di patatine e caramelle?-

-Oh, no. Quella la digerisco sicuro. Guarda- e sollevò un morbido marshmellow nella sua direzione, schiacciandolo ripetutamente tra due dita con grande soddisfazione. -Sono così arcobalenosi! Stanno bene con tutto-

Sua madre strinse le braccia sul petto, irrigidendosi. -Sono seria- ribadì.

Abel sbuffò. -Anch'io! Sono un serio unicorno divino che mangia dolcetti arcobalenosi. Come fai a non prendermi sul serio?-

Gesche trasalì per la rabbia. Adorava prenderla in giro. Adorava vederla indispettirsi, zittirla con le sue stronzate, senza permettere alla sua mente di riuscire a trovare in tempo battute con le quali stroncare i suoi tentativi di portarla fuori strada. Era sempre stato bravo, in quello, molto bravo. Più bravo si era scoperto nel giocare a quel modo con Gesche, nello specifico, rispetto che con tutti gli altri, perché Gesche non ammetteva "deviazioni", non era in grado di comprendere l'ironia. Era stato deleterio – sicuramente per lei, non di certo per Abel – rendere palese al figlio di questa sua "debolezza" in concomitanza con il suo periodo adolescenziale: era stato proprio quello che aveva minato il loro rapporto, quello di cui Abel si era servito per allontanarsi del tutto dalla sua famiglia d'origine prima di mollare il Clan, la prima volta.

All'epoca aveva creduto di avere il suo amore, aveva creduto davvero che Gesche lo amasse più di Saul e di tutti gli altri – a eccezione di Rudi, ovviamente. Per scappare da casa senza ferire troppo lei aveva creduto che fosse opportuno, prima, minare anche il loro rapporto.
E così aveva fatto.

Per molto tempo si era sentito in colpa, per questo, finché non aveva compreso che anche sua madre non gli avrebbe mai potuto perdonare quel dannato "difetto genetico". Essere nato umano era la sua colpa più grande, quella imperdonabile – anche se lui non la vedeva affatto come tale.

Se fosse nato licantropo, ma senza un braccio, senza una gamba, con le orecchie a sventola, avrebbero avuto gli stessi problemi nell'accettarlo?

Essere umano, dopotutto, era parte di lui, non vi vedeva affatto un difetto.

Era nato così e stava bene nella propria diversità, anche se la sua famiglia continuava a non accettarlo.

Abel sospirò mesto e smise di mangiare. Era trascorso tempo da allora, da quando aveva deciso di togliersi il "collare" impostogli dalla famiglia, e di imparare a respirare secondo i suoi ritmi. Era trascorso così tanto tempo da aver reso i ricordi di quel periodo qualcosa di nostalgico, qualcosa a cui sarebbe volentieri tornato. Era sicuramente più piacevole l'idea di rivivere i tormenti adolescenziali, le litigate con i suoi genitori per via della sua indole ribelle, della sua appena dichiarata omosessualità. Le liti e i dispetti che aveva messo in scena per cercare di attirare la loro attenzione, nella speranza di sentirsi amato da entrambi tanto quanto loro amavano Ada e Rudi.

Aveva creduto, in quel periodo, di non essere biologicamente figlio loro, si era sentito diverso e sbagliato, in più nelle loro vite, per questo motivo.

Gli faceva rabbia sapere nel presente che tutto ciò era stato architettato, che non era mai stato vero, soprattutto se ripensava a quanto aveva sofferto da ragazzino per questa bugia.

Tuttavia, avrebbe volentieri barattato il presente per il passato. A breve sarebbe stato il suo compleanno: era nato in estate, ma la sua primavera era già terminata da tempo, e il tempo dei tormenti adolescenziali era finito. La vita da adulto lo stava distruggendo, non aveva più alcuna voglia di giocare, né di perdere tempo nel tentativo di conquistarsi un po' dell'amore delle persone che lo circondavano.

Ripensò a Roberto e Telsa: erano stati lì, la notte precedente, e durante il litigio con Florian, e senza porgli tante domande si erano schierati dalla sua parte, lo avevano sostenuto e supportato. Non aveva avuto bisogno di attirare la loro attenzione.
C'erano stati e basta.

Ed era esattamente quello che pretendeva per il futuro: chiunque sarebbe incappato nel suo cammino avrebbe dovuto tenere conto del fatto che Abel non era più disposto a scendere a compromessi, a sopprimere se stesso per farsi amare. La sola idea di dover continuare a farlo gli faceva accapponare la pelle.

Meglio solo.

-Sono molto delusa da te-

Un sorriso tirato mosse le sue labbra. Appunto. -Addirittura-

-Ti stai rivelando un pessimo capoclan-

Aprì le braccia e non le rispose subito, ma proprio mentre decideva di non darle corda, le parole abbandonarono di getto la sua bocca. -Punti di vista-

Gesche pestò un piede a terra con stizza e il morbido abito le ondeggiò intorno al corpo, come spuma marina. Sembrava un angioletto infuriato, ed era divertente vederla in tali vesti. -C'è un solo punto di vista. Cerca di essere obiettivo-

-Lo sono. Sono obiettivamente dalla mia parte-

La pelle del volto di sua madre si tinse di un buffo rosso violaceo. -Stai mettendo in pericolo la nostra gente, continuando ad agire in modo scellerato, senza senso. Che cosa ti spinge a collezionare stronzate in questo modo? Dove vuoi arrivare?-

Allargò ancora le braccia e trattenne una risata isterica. -Ti ricordo, mammina cara, che la mia gente è in pericolo perché io sono in pericolo. È colpa mia, verissimo- e scese dal piano da lavoro della cucina, avvicinandosi a lei. Le puntò contro un dito. -Rischio di morire ogni giorno, ogni istante. Ho lasciato loro liberi di decidere, hanno scelto di restare al mio fianco nonostante tutto-

-Folli- sussurrò Gesche e fece un passo indietro. -Potevi ordinare loro...-

-Non ti piace che io sia capoclan- la interruppe. -Benissimo. Effettivamente sono troppo umano per esserlo, è questo il punto no? Un umano divina, ma sempre umano, ahimè!-

Leggeva chiaramente sul viso di sua madre il disappunto, la rabbia, l'insofferenza che le stava suscitando quella conversazione.

Credeva che avrebbe incassato le sue accuse senza difendersi?

E no, il ragazzino implorante il tuo amore è morto.

Reclinò il capo da un lato e sorrise – doveva essere orribile, quel suo sorriso, lo intuì dalle reazione di panico che lesse aprirsi sul suo volto. Era figlio di quello di Saul, il suo sorriso – l'unico essere vivente in grado di spaventare con un sorriso. E doveva avere un ché di grottesco il suo modo di muoversi, esattamente come lo era quello di Rudi.

Gli uomini della famiglia Lorenz possedevano qualcosa di spaventoso – lo aveva sempre saputo. Aveva appena scoperto di essere uno di loro, però, e ciò lo stupì profondamente.

Sua madre aveva paura di lui.
Non era l'amore che aveva sempre agognato da lei.

Scrollò le spalle. -La nostra conversazione finisce qui- disse con tono lapidario. Gesche fece per aprire bocca, ma lui sgranò appena gli occhi, mettendola a tacere. -Ho cose più importanti da fare che perdere tempo con te-

Ed era stata vera la sua ultima dichiarazione. Abel uscì dalla cucina e Gesche non lo seguì.

Tornò in camera, si fece una doccia e si cambiò d'abito. Infine chiese a Musa di accompagnarlo in ospedale. Doveva incontrare John.

Da quanto tempo il suo amico era ricoverato? Non lo ricordava e questo – sicuramente – faceva di lui un pessimo amico, anche perché non si stava recando lì solo per fargli visita.

Gli dispiaceva essere sempre così impegnato, impelagato in qualcosa tanto da impedirgli persino di ricordarsi di fare visita a un amico che stava male.

Mentre usciva dal covo passò pure dalla stanza in cui si trovava Reik, vide Florian seduto su una sedia posta di fianco la porta d'ingresso e tornò sui propri passi.
Non aveva voglia di litigare ancora con lui.

Pensava che fosse suo diritto fare visita a Reik, assicurarsi delle sue condizioni, ma Florian la pensava diversamente – e lui non aveva tempo da perdere.

Quando Reik si sarebbe risvegliato – perché era sicuro che si sarebbe risvegliato – avrebbe potuto decidere di sua spontanea volontà. Fino ad allora, Abel era del tutto intenzionato nel ridurre al minimo le interazioni con il vampiro, di evitare qualsiasi discorso con lui che non fosse anche strettamente necessario.

Geert si era ripreso praticamente del tutto ed era tornato a non rivolgergli la parola: lo aveva incontrato di sfuggita nella sala comune e il licantropo aveva fatto finta di non vederlo.

Ma gli restava Musa. Alzò lo sguardo su di lei e per farlo dovette piegare il collo all'indietro.

Aveva fatto sesso con suo fratello.
Moriva dalla voglia di tempestarla di domande, eppure immaginava che ciò potesse risultare poco opportuno.

Musa gli rivolse uno sguardo incerto e poi rise, mentre salivano nel taxi.

-Trovi divertente rendere tutti i tassisti di Idstein consapevoli del punto preciso in cui si trova... casa?- le chiese, accostando le labbra a un suo orecchio.

Musa scrollò le spalle e si girò verso di lui, parlando pianissimo per non farsi sentire a sua volta dall'autista. -Prendere un taxi al limitare del bosco che delimita la Brughiera non mi sembra chissà quale indizio. Al massimo, potranno fantasticare su una coppietta che ha cercato intimità nel bosco-

Trasalì e si trattenne dal darle corda. Il suo sorriso soddisfatto gli fece intendere che doveva essersi studiata e conservata quella risposta per parecchio tempo, aspettando l'occasione giusta per inserirla in un loro discorso. -Potrebbe aiutare la polizia o l'Associazione a trovarci- balbettò, sentendosi arrossire.

Non gli piaceva affatto che giocasse con lui a quel modo.

-Fatti la patente- ribatté lei, stizzita, sicuramente insoddisfatta della sua reazione. -Io odio i mezzi a motore-

Ah, già.

Musa era una creatura centenaria. Anche Magda aveva il suo stesso "problema".

Magda.

Scosse la testa e trascorsero il resto del tragitto fino in ospedale in silenzio.

Era stato opportuno portarsi dietro Musa: non avevano tanta confidenza da potersi fare coinvolgere in chiacchiere frivole – e lui le aveva chiaramente fatto intendere di non essere disposto a farle da confidente per le sue scorrazzate sotto le lenzuola con Rudi. Non avevano altro di cui parlare – ed era un bene, dato che aveva la mente satura di pensieri.

Una volta giunti in ospedale, lasciò Musa di guardia alla stanza di John, stupendosi nel non trovare nessun altro a presenziare la porta.

John restava un poliziotto aggredito da qualcuno, da qualcuno che ancora non era stato catturato.

Perché non c'era nessuno a tutelarlo da un'altra possibile aggressione?

Eppure, tutto ciò non gli sembrava affatto assurdo.

Müller stava giocando con la sua vita. Magari sperava pure che un secondo tentativo andasse a buon fine.

-Hai bisogno di qualcuno che ti protegga. Potrei mandarti un qualche unicorno cazz...- Abel si fermò di colpo e si morse un labbro.

Era entrato nella stanza senza guardare in direzione del letto, e solo quando si era chiuso la porta alle spalle aveva cercato con lo sguardo il suo amico.
E aveva scoperto che non era solo. C'erano due bambini con lui.

-Buongiorno anche a te- lo salutò John con tono ironico, rivolgendogli un'occhiataccia, ma il sorriso sulle sue labbra stonava apertamente con la sua ostentata espressione di disappunto.

-Questa non me l'aspettavo-

La bambina si arrampicò sul letto e si acciambellò vicino al poliziotto, fissandolo con una certa diffidenza. Il maschietto invece continuò a dondolare i piedi, occupando la sedia vicina al letto.

-Emma e Paul- disse Baker, indicando prima una e poi l'altro. -Così adesso li conosci-

Abel sbuffò e sedette ai suoi piedi, accarezzandogli distrattamente una gamba da sopra il lenzuolo che lo copriva fino alla vita. -Avrei preferito fare la loro conoscenza in altre circostanze-

John si strinse nelle spalle, trasalì appena, e gli rivolse un sorriso triste. Entrambi i bambini assomigliavano parecchio al padre, per lineamenti, per espressioni, per quei loro sguardi colmi di disappunto. Ma Emma era rossa di capelli e aveva il volto ricoperto di lentiggini, Paul, invece, si portava sul volto e sulle braccia le stesse macchioline buffe della sorella, ma era più scuro di capelli. Quei tratti dovevano averli ereditati dalla madre. -Perché sei qui?-

Abel aggrottò la fronte. -Che caz...- si morse la lingua, mentre il suo amico gli rivolgeva l'ennesimo sguardo colmo di rimprovero. -Che domanda... stupidina. Sono venuto per vedere come stai-

Baker assunse un'espressione dubbiosa. Bussarono alla porta e un'infermiera entrò nella stanza. -Scusatemi. È arrivata la signora Lang-

Abel gli rivolse uno sguardo interrogativo. Vide John annuire, accostare le labbra a un orecchio di Emma, sussurrare qualcosa. La bambina fece una smorfia. Gli diede un bacio e scese giù dal letto. Paul si avvicinò al padre, lo salutò e seguì la sorella fuori dalla stanza.

-La signora Lang?-

-Si è sposata e ha preso il cognome del suo nuovo marito- spiegò John, accompagnando le proprie parole con il cenno annoiato di una mano.

-Non è entrata nemmeno a farti un salutino?- e la sua domanda gli fece guadagnare l'ennesima occhiataccia.

-Meglio per me- Abel annuì e prese posto sulla sedia lasciata libera da Paul. -Perché sei qui?- insistette nel chiedergli l'amico.

-Per assicurarmi delle tue condizioni, te l'ho detto-

John sbuffò. -Non siamo mai stati tipi sentimentali. Perché sei qui?-

Sospirò e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. -Magda-

Baker rimase in silenzio. Il suo volto si era fatto violaceo a causa dei lividi che appesantivano la sua pelle. Era ancora fasciato come una mummia e, in generale, dava l'idea di uno che avrebbe trascorso ancora parecchio tempo in ospedale. Senza di lui sul campo si sentiva perso, senza punti di riferimento, senza un porto sicuro.

Era egoista – sicuramente –, ma era anche in pena per lui: non aveva alcuna intenzione di saperlo ancora in pericolo. -Penso che lascerò Musa alla tua porta-

-Cosa?- tuonò il poliziotto e la sua espressione si fece di colpo incazzata. -Non ho bisogno della balia-

-Io credo proprio di sì. E non cambierò idea a riguardo. Rassegnati-

John sbuffò esasperato. -Immagino sia inutile insistere-

-Immagini bene-

-E Magda?- domandò dopo un po'.

Abel prese a giocherellare distrattamente con un lembo del lenzuolo, rigirandolo tra due dita. -Temo che sia invischiata in qualcosa di grosso e spiacevole con... alcuni nostri conoscenti pennuti- si corresse all'ultimo, captando lo sguardo di ammonimento di John e rammentando i sospetti di cui lo aveva reso partecipe la prima volta che si era recato in visita da lui.

-Uhm- fece il poliziotto e si rifuggiò ancora nel silenzio. Poggiò la testa contro il cuscino e chiuse gli occhi, sembrava sul punto di addormentarsi. -Ti serve un movente. Poi potrai trovare anche le risposte che cerchi-

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