VENTIQUATTRO
Assurdo.
Assurdo.
Assurdo.
Non riusciva a pensare ad altro.
Assurdo.
Non riusciva proprio a pensare ad altro se non a quanto fosse stata assurda la litigata avuta con Florian e Reik.
Reik e Florian.
Tutti e due.
Non più solo uno, adesso pure l'altro.
E dicevano di amarlo, di capirlo, di accettarlo, ma poi, a conti fatti, erano loro che pretendevano di essere capiti, amati, accettati, e pareva che non stessero facendo il minimo sforzo per fare altrettanto con lui.
-Il primo posto-
Sì, come no. La Hit Parade dell'amore! Che idioti!
E lo faceva incazzare ancora di più il fatto che Hauke non gli avesse rivelato nulla di quello che aveva percepito nella baita, perché questo lo avrebbe obbligato a incontrarlo ancora e, con tutta probabilità, a sorbirsi ancora le scenate di gelosia di Reik e Florian. Di conseguenza, era arrabbiato pure con Hauke.
Lo amava, era certo che non avrebbe mai smesso di amarlo, nonostante il tipo di persona che Hauke era, nonostante tutti i loro spiacevoli trascorsi. Ma, appunto, lo amava, il suo cuore lo aveva accettato fin da subito per quello che era, paure, incomprensioni, litigate e limiti compresi.
Era il primo uomo di cui si era innamorato, verissimo, ma non era il suo primo amore, non si trovava in cima a nessuna classifica; si trattava soltanto di averlo incontrato prima di Reik e Florian, una questione del tutto temporale e non di valore. Ma non aveva avuto modo di spiegare tutto ciò ai suoi compagni – non ne aveva avuto voglia.
Avrebbe preferito che loro rimanessero aperti a quelle che sarebbero potute essere le sue motivazioni, invece di vederli tirare fuori sentenze senza neppure consultarlo.
Era furioso. Non era riuscito a portare avanti quella conversazione, aveva afferrato la prima maglietta che si era trovato sotto mano, indossato le scarpe ed era sceso di corsa per strada.
Sentiva il bisogno di restare da solo, di pensare da solo. Di cercare di fare chiarezza dentro di sé – e per quello, aveva decisamente bisogno di stare da solo.
Lo accolse un'aria frizzantina che gli ricoprì presto la pelle di brividi, scontrandosi con il calore del suo corpo. Un calore dato da tutto il sole che aveva preso durante il giorno, dalla sauna dentro la giacca e dalla rabbia che gli scoppietteva in petto.
Sospirò e si torturò un po' i capelli, camminando senza meta, seguendo le linee dei mattoni che componevano il marciapiede come se fossero una guida – verso dove, non ne aveva idea.
Era rimasto troppo sconvolto dall'aver perso di vista Krista senza preavviso. Era persino tornata da Magda. Un pezzo di quella che era diventata la famiglia, che lui stesso si era costruito, era andato perso senza alcuna spiegazione. Non era stata sua intenzione abbandonarla nel dolore, ma la vita l'aveva condotto lontano da lei proprio quando lei avrebbe avuto più bisogno di supporto.
E non aveva avuto neppure il tempo di riflettere su tutto ciò prima di quel momento.
Era circondato da troppe persone, persone che – nel bene e nel male – si aspettavano qualcosa da lui.
Tutti pretendevano qualcosa, anche se cercavano di ottenerlo attraverso vie diametralmente diverse le une dalle altre.
Abel, però, si sentiva davvero stanco, sempre più stanco. Non gli era rimasto tempo neppure per se stesso e non aveva la più pallida idea come fare a dividersi per gli altri.
Sollevò gli occhi al cielo, ammirando l'intensità oscura della notte, costellata di stelle piccole, scintillanti come diamanti, disseminate dappertutto attorno alla luna, splendente, seppur esposta sola per tre quarti.
Niente luna piena.
Sorrise triste e si guardò attorno, rendendosi conto di essere finito dentro il parco del quartiere. Altalene, scivoli sulla sinistra, una fontanella al centro della piazzetta, panchine sparse un po' ovunque, aiuole cariche di fiori e profumi.
E anidride carbonica, ma tanto, prima dei fiori, sai quante altre cose mi faranno fuori...
Quel pensiero lo rese ancora più triste. Sedette su una panchina, poi ci ripensò e si stese, fissando il cielo, senza neanche riuscire a vederlo per davvero.
Era stanco di vivere con la costante presenza della Morte al proprio fianco – e non stava pensando proprio a Rudi, in quel momento.
Come minimo, mi verrà un'ulcera.
Sarebbe mai riuscito a invecchiare? A vivere una vita tranquilla – almeno – nei successivi anni?
Stentava a crederci.
Si tirò a sedere e scosse la testa, nascondendo il viso oltre la coltre dei propri capelli.
E Florian e Reik.
E Hauke.
Sarebbe stato bello averli nella propria vita per sempre.
Sarebbe stato bello se fosse stato amore.
Strofinò la punta di una scarpa contro il terriccio del suolo, smuovendolo un po'.
A questo punto... mi basterebbe che almeno uno restasse al mio fianco. Che mi accettasse. Mi piacerebbe avere qualcuno al mio fianco che mi ami non solo a parole, che mi ami per quello che sono, difetti e stronzate comprese. Qualcuno che mi ami come mai nessuno ha fatto prima, come mai neppure la mia famiglia è riuscita a fare.
Neppure Rudi.
Ed era vero, neppure Rudi l'aveva mai fatto sentire davvero amato, amato per quello che lui era. Forse era proprio questo che gli impediva di "sciogliersi" del tutto con lui, che gli permetteva di restituire ai suoi slanci di affetto solo delle goffe pacche. Rudi lo aveva idealizzato, ammantato di una perfezione che Abel era certissimo di non possedere. Non amava Abel, ma l'idea di Abel che si era creato, un'idea che – in larga parte – non rispecchiava la realtà.
Aveva creduto che con almeno Reik e Florian sarebbe stato diverso. Hauke non lo accettava – anche se forse lo amava ancora. Ma Reik e Florian che tanto si erano battuti il petto con orgoglio: "io sono così, amami così" e poi, arrivati al suo turno, no, lo volevano diverso, non lo capivano.
E Abel si sentiva impazzire.
Non aveva idea di chi dei tre sarebbe stato in grado di privarsi, ma si augurava con tutto il cuore che la Vita non fosse così sadica da privarlo del tutto dell'amore.
Sospirò e si sgranchì il collo.
Si alzò un sottile alito di vento, muovendo le fronde degli alberi, portando con sé rumori sottili, sussurri notturni.
Un brivido gli attraversò il collo e sgranò gli occhi quando udì chiaramente il suono prodotto da qualcosa di legno che si spezzava.
Subito la sua mente corse a ripescare dai ricordi gli incubi che lo tormentavano con più insistenza da giorni – quelli che vedevano per protagonista Florian.
Deglutì a vuoto e tornò a guardarsi intorno.
Non c'era nessuno.
Una serata tranquilla, infrasettimanale. Fresca, piacevole, silenziosa.
Troppo silenziosa.
Si alzò e si mosse in direzione dell'uscita del parco.
Faceva strano quell'assoluta mancanza di umanità. Niente animali, niente più vento, niente più foglie in movimento.
Sembrava che l'ambiente intorno a lui stesse trattenendo il fiato.
Non era poi così tardi: doveva essere ora di cena – cena che, come troppo spesso capitava, lui aveva saltato – ma, davvero, com'era possibile che non ci fosse anima viva in giro?
Un fruscio improvviso lo distraette, facendogli irrigidire i muscoli delle spalle, mentre la pelle tornava a ricoprirsi di brividi – quella volta, però, affatto piacevoli.
Si mosse sempre più velocemente verso l'uscita.
L'ennesimo pezzo di legno che cedeva sotto il peso di qualcuno: ormai era certo di non essere davvero solo. Era una sensazione, orribile e soffocante, ma era sicurissimo di essere seguito.
Non poteva di certo trattarsi di Rudi: si sarebbe già palesato e di certo non si sarebbe fatto scoprire prima di palesarsi.
Non poteva neppure trattarsi di qualcuno con buone intenzioni – ne era straconvinto: A chi cazzo verrebbe in mente di farti prendere un infarto in questo modo? Solo a qualcuno con intenzioni losche.
E aumentò ancora l'andatura riuscendo a scorgere in lontananza il cancello di uscita.
Quello, a un tratto, iniziò a cigolare, il vento si alzò ancora, ma più intenso, rabbioso e possente. Abel sollevò una mano davanti al viso e iniziò a correre. Il cuore in gola, la pelle di nuovo bollente e corse, corse, mentre il vento si faceva sempre più impetuoso.
A pochi passi dall'uscita, il cancello parve oscillare in avanti, verso di lui, e Abel compì d'istinto un paio di passi indietro, ma quello non cadde e con un tonfo secco, metallico, si chiuse, sbarrandogli l'uscita.
Non era normale.
Stava forse vivendo l'ennesimo incubo?
Si strofinò il volto con entrambe le mani e tornò a guardare verso l'uscita del parco: il cancello era sempre chiuso.
Deglutì a vuoto, tentando di rimandare il cuore nel petto e si girò dalla parte opposta trattenendo a stento un urlo di paura.
A pochi passi da lui, sotto i raggi perlacei della luna, si trovava un uomo.
Alto, massiccio – non quanto Hauke –, con due braccia enormi segnate da tatuaggi e il volto attraversato da una cicatrice che gli deformava parzialmente i lineamenti.
Spaventoso.
Mentre si riprendeva, poco per volta, dallo spavento, perse qualche istante per tentare di decidersi se essere sollevato oppure incazzato.
Nell'indecisione, optò per la seconda opzione.
-Stai fuori?- urlò.
Saul sollevò lo sguardo a incontrare il suo e un sorriso sghembo mosse le sue labbra, scoprendo parzialmente i denti.
Deglutì ancora.
Saul.
Il vero Saul.
Non un incubo.
Non una voce disturbata dalla frequenze telefoniche.
Saul.
Suo padre.
Corse nella sua direzione e gli saltò al collo, bisognoso di sentirlo vero, oltre che vederlo, di toccarlo, di accettarsi che fosse davvero lì, dopo mesi in cui non lo vedeva e in cui lo aveva sentito una sola volta.
Saul rispose subito con slancio, sollevandolo da terra e stringendolo a sé in una morsa quasi dolorosa.
-Tu!- tuonò Abel. -Stronzo! Schifoso bastardo!- e iniziò a scalciare per liberarsi dalla sua presa e tornare con i piedi per terra.
-Ehi, ehi, ragazzino. Che cos'è questo linguaggio? Sono sempre tuo padre-
Abel gli rivolse un'occhiataccia. -Da dove vuoi che incominci? Dall'inizio della mia vita, oppure dagli avvenimenti degli ultimi mesi? Solo quest'ultimi sarebbero in grado di riempire trilioni di enciclopedie sul perché sei uno stronzo, schifoso bastardo!-
Saul sorrise e si passò una mano sui corti capelli, scendendo poi sul viso, nascondendo parzialmente la sua espressione, mentre il suo sorriso si allargava e si tingeva di sfumature pericolose. -Sei ancora vivo-
Gli diede un calcio a una gamba, e subito si trattenne dall'imprecare nel percepire una fitta di dolore attraversargli il piede. Saul rimase impassibile. -Non grazie a te-
-Io veglio sempre su di te-
-Rudi veglia su di me-
-Per conto mio-
-Solo perché sono il tuo cazzo di preziosissimo erede, non di certo perché sei un padre amorevole in pensiero per suo figlio- e batteva sempre lì, su quel punto, perché – ormai lo aveva capito pure lui – sperava sempre in una risposta, che mai arrivava, ma che gli avrebbe potuto riempire il cuore di gioia e di pace se solo qualcuno si fosse degnato di fornirgliela.
Sono qui perché ti voglio bene – sì, sarebbe stato bello. Semplice, breve, ma intenso, profondo. E forse le ferite del suo cuore avrebbero smesso di sanguinare, avrebbero potuto cominciare a cicatrizzare.
L'espressione di Saul si fece cupa e il suo sorriso si spense. -Tu sei mio figlio-
Abel fece un passo indietro, imponendo nuova distanza fisica tra di loro. Tutto l'insensato sollievo di figlio che – nonostante tutto – ama suo padre e gioisce nel vederlo vivo e in salute, si dissolse all'istante, portandosi dietro una grossa dose di amarezza e rassegnazione. -Ma non mi ami per quello che sono. Mi hai messo Rudi alle calcagne. Rudi. Il Tod del Clan. Dopo che mi hai lasciato nella merda per pararti il culo con il Clan-
-Non ti accetto, però ti amo lo stesso-
Saul aveva ignorato buona parte della sua frase, ma si era premurato di rispondere solo alla parte principale e in un modo che fu in grado di ferirlo profondamente.
Abel si morse un labbro, mentre la distanza fisica tra di loro diventava metafisica e pareva che ora ci fosse un'intera voragine a separarli. -Vai a farti fottere- Saul rise. -Potevi anche risparmiarti questa apparizione del cazzo-
Saul sollevò una mano, gli accarezzò una guancia, e si fece scorrere una ciocca dei suoi capelli tra le dita, mentre Abel rabbridiva, accusando già la mancanza del contatto fisico con lui. Gli sarebbe piaciuto abbracciarlo di nuovo, con lo stesso identico slancio d'affetto.
Sentirsi ancora suo figlio, amato.
-Volevo dirtelo di persona- mormorò Saul e accostò il viso al suo. -Veglierò sempre su di te. Nessuno ti farà mai del male-
L'hanno già fatto. Tu per primo – avrebbe voluto controbattere, ma sapeva benissimo che Saul non si stava affatto riferendo al suo cuore ferito.
Non sarebbe stato da Saul: era un uomo d'azione, un mostro, una roccia.
Nessuno gli avrebbe torto un capello, benissimo, ma, ancora una volta, si sarebbe dovuto accontentare di un amore a metà, di un qualcosa che – sapeva già – non gli sarebbe bastato.
Saul gli baciò una tempia e Abel si morse un labbro, serrò gli occhi e lo sentì muoversi, allontanarsi da lui, e non fu in grado neppure di dirgli "ciao".
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