TRENTUNO
Abel odiava gli ospedali.
Era pure certo che non fosse l'unico essere al mondo ad odiare gli ospedali, ma era altrettanto certo che il suo odio era più profondo di quello degli altri.
Odiava gli ospedali, l'odore nauseabondo di disinfettante.
Odiava l'atmosfera asettica degli ospedali, il freddo capace di penetrare nei vestiti, scendere fin dentro le ossa come sottili aghi.
Odiava l'aria condizionata sparata a palla e il rumore dei passi sui pavimenti lucidi, passati di cera.
Odiava quel modo ossequioso con cui alcuni si rivolgevano ai medici, l'atteggiamento distaccato degli infermieri e tutto quel parlottare a un volume di voce tale da impedire a chiunque di capire una sola parola delle chiacchiere altrui.
Odiava gli ospedali e i ricordi di lui che custodivano.
Odiava gli ospedali per le troppe volte in cui in ospedale c'era finito, accompagnato da Saul o da Gesche, dopo una scazzottata con Rudi. E odiava il ricordo degli sguardi accusatori di medici e infermieri che si muovevano sui suoi genitori - quelli che all'epoca aveva creduto i suoi genitori adottivi, i suoi salvatori -, con il terrore che qualcuno potesse arrivare e portarlo via da loro. Riportarlo alla vita che aveva patito prima di loro. Perché se c'era una cosa che Abel non aveva mai condiviso con nessuno, quella era sicuramente fatta di tutti i ricordi dei suoi primi anni di vita. Ricordi nebulosi, frammentari - per fortuna. E lontani, tanto lontani dal suo presente.
Un presente che, però, non sembrava voler prendere una piega meno drammatica del passato, come se fosse nato sotto una cattiva stella, come se fosse destinato a incassare delusioni, orrori e paura.
Sospirò e si passò una mano sulla fronte, percependo i polpastrelli gelidi contro la pelle del viso bollente. Si sentiva tutto bollente, colmo di un calore soffocante, come se avesse la febbre. Aveva la stessa sensazione spiacevole in bocca di quando aveva la febbre: caldo e mancanza di salivazione, di qualsiasi altro sapore. Solo il sapore del caldo. Non aveva aggettivi per descrivere quella sensazione, se non, appunto, elencando tutta una seria di dispregiativi.
-Stai bene?- si sentì domandare e si volse in direzione della voce di donna che aveva udito.
Avrebbe voluto urlarle addosso. Non la vedeva da settimane, forse mesi: aveva perso il conto. L'ultima volta lo aveva rapito e adesso si trovava davanti a lui, con i suoi grandi occhi, di un castano dalle striature rosse, spalancati, colmi di terrore.
-Come credi che stia? In procinto di darmi a qualche orgia o di organizzare un festino alcolico da sballo!- rispose con voce sprezzante.
Avrebbe voluto essere ironico, ma non ci era riuscito per niente.
-Abel...-
-Mamma- la interruppe e Gesche trasalì. -Che cosa è successo?- le domandò e lei scrollò le spalle distogliendo l'attenzione da lui.
-Non qui-
-Hai intenzione di rapirmi di nuovo?-
-Se sarà necessario, come lo è stato la scorsa volta...-
-Necessario?!- tuonò Abel, guadagnandosi l'occhiataccia di un'infermiera. La ignorò e si impose di abbassare il tono di voce.
-Necessario, sì. Visto che tu non rispondevi più alle mie chiamate, ai miei tentativi metafisici di mettermi in contatto con te-
-Non è sensato tutto questo, non è umano!-
-Dimentichi, figlio caro, che io non sono umana e mai ho voluto esserlo-
-Non ho neanche idea di come sia riuscito a bloccarti nella mia mente-
-Mi hai tagliato fuori dalla tua vita, mi hai mosso, dentro di te, tanta rabbia da escludermi anche dalla mente, non era mai successo prima-
-Mi faceva male averti dentro la testa. Sarà per questo motivo che il mio corpo ti rifiutava-
-La Connessione del sangue è una sorta di incontro psico-fisico. Sì, è una cosa non umana, per fortuna, ma tu sei sempre figlio mio e...-
-E non lo tolleravo più- la interruppe.
Gesche sgranò appena gli occhi, ma poi la sua espressione si fece vacua, e ridusse le labbra a una linea sottile, dura. -È un dato di fatto: sei umano, hai delle debolezze, dei limiti umani-
Abel si morse un labbro. -E questo vi ha sempre impedito di accettarmi-
-Come osi?- Gesche lo afferrò per un lembo della maglietta che indossava, strattonandolo un po'. -Io sono tua madre, ti ho partorito, ti ho messo al mondo. Licantropo o no, sei mio figlio!- disse, sussurrando le ultime parole a un palmo dal suo viso.
Abel se la scrollò di dosso in malo modo. -Se davvero mi consideri figlio tuo, tuo pari, allora dimmi che cos'è successo. Adesso- ribatté e Gesche incrociò le braccia sul seno, assumendo un'espressione decisamente contrariata.
Sospirò. Aveva sempre visto in sua madre l'unico punto di riferimento della propria vita, l'unica ancora di salvezza in un mondo che non lo voleva, che non lo accettava, che non lo comprendeva. E non si era mai sentito diversamente neppure fuori dal Clan. Era stato come se il suo mondo, in passato, iniziasse e finisse con Gesche.
Da quando sua madre, però, aveva preso il posto di Saul, le cose erano cambiate. Abel stava iniziando pure a ipotizzare che ci fosse un qualche veleno magico, o qualcosa di simile, che entrava in automatico in circolo nel sangue di chi diventava capoclan, rincoglionendo le persone.
-Voglio vedere Hauke-
Gesche scosse la testa. -C'è Geert con lui. Non penso gli farebbe piacere...-
-L'ho fatto finire io qui?- la interruppe. -Non mi pare! Sono solo un amico in pensiero per lui e voglio vederlo, perché diavolo Geert non dovrebbe volermi tra i piedi?-
Gesche rimase in silenzio, mentre la sua espressione assumeva una certa sfumatura canzonatoria. -Non fare finta di essere stupido- ribatté dopo un po'.
Abel aggrottò la fronte. -Voglio vederlo-
-Sta dormendo-
-Allora dimmi tu che cosa cazzo è successo!- tuonò e quella volta udì un richiamo di ammonimento.
Si girò in direzione della voce, scorgendo, pochi passi lontano da sé, un uomo in camice bianco che gli rivolgeva un'occhiataccia.
Come me li faccio amici io...
Scosse la testa e riportò l'attenzione su sua madre.
-I tuoi amici poliziotti non ti hanno detto niente?- gli chiese la donna, rivolgendogli uno sguardo di rimprovero, e lo afferrò per un braccio, allontanandolo dal punto in cui si trovavano, dirigendosi verso una meta imprecisata.
Si fermarono davanti una porta dove era stata applicata una targhetta su cui spiccavano parole di ammonimento, invitando il personale non autorizzato a non oltrepassare la soglia. Gesche si guardò attorno, aprì la porta ed entrò, tirandosi dietro pure Abel.
-Grandioso! Siamo riusciti a scampare ai falò dell'A.S.S.S. e adesso vuoi farci arrestare per una cazzata?- le chiese e Gesche lo ammonì con l'ennesimo sguardo di rimprovero.
-Perché credi che ci troviamo in questo ospedale, idiota?-
Abel trasalì e si volse in direzione dell'angolo più buio della stanza, cercando di individuare il punto da cui era provenuta la voce di uomo poco gentile che gli aveva appena dato dell'idiota.
Dalle ombre lunghe della stanza si staccò una figura di uomo, immenso e massiccio, alto almeno due volte Abel e largo per cinque. Improvvisamente, Abel si sentì decisamente insignificante al suo cospetto. Eppure sapeva di avere dalla propria una mente frizzante e sopraffina, di gran lunga superiore a quella che avrebbe potuto sfoggiare il loro inatteso ospite.
-Oh, mio Dio! Veleno! Ti sei bevuto da solo! Ti vedo un tantinello agonizzante-
Klaus aggrottò la fronte. -Tu e i tuoi stupidi nomignoli, le tue stronzate pure in momenti come questo...-
-Quale momento? Perché mia madre sembra aver perso la lingua a riguardo-
-Non potevo parlare in pubblico-
-Siamo in un ospedale dove vi sentite liberi di accedere alle stanze riservate al personale e...-
-Perché è nostro, questo ospedale. È sotto il nostro controllo- lo interruppe Gesche. Si morse un labbro e Abel percepì un brivido corrergli lungo la schiena nel leggere in sua madre quel tic che apparteneva anche a lui, che la legava a lei anche in quello, nonostante tutto. -Dopo la... uhm. Dopo le incomprensioni che ci sono state con Magda, avevo bisogno di poter contare su altri curatori-
-Oggi si chiamano medici, madre. Benvenuta nel Ventunesimo secolo-
-Fai meno il cretino, idiota-
-Taci, Veleno di merd...-
-Finitela!- sbottò Gesche, battendo le mani per richiamare la loro attenzione. I due si zittirono. -Resta di fatto che qui dentro lavorano anche umani, gente che non fa parte del Clan. Proprio per evitare che certe cose potessero attirare attenzioni poco gradite, di gente decisamente poco gradita, in un posto dove si curano anche licantropi-
Abel sospirò. -Benissimo. Adesso che mi hai rapito di nuovo, mi dirai finalmente che cosa cazzo è successo?-
Klaus scosse la testa e fece per aprire bocca, ma a Gesche bastò sollevare una mano nella sua direzione per metterlo a tacere. -Hauke sta bene. Stavolta è andato vicino al punto di non ritorno, ma ha vinto anche questo scontro-
Abel si morse un labbro e socchiuse gli occhi, non riuscendo più a sostenere lo sguardo di sua madre. L'uomo con cui aveva scoperto l'amore stava ancora rischiando la propria vita per salvare il culo alla loro famiglia e, anche se fosse riuscito nel proprio intento, il suo premio sarebbe stato l'essere bandito dal Clan. Gli sembrava assurdo, ingiusto che Hauke rischiasse di morire ad ogni scontro solo nella speranza di riuscire a lasciare Gesche alla guida del Clan, in attesa di un calcio in culo da parte sua.
Capiva le dinamiche del Clan - non riusciva ad accettarle, ma quello era un altro discorso.
Sospirò e si passò una mano sulla fronte, riportando la propria attenzione su Gesche. -Chi è morto?- domandò a bruciapelo e vide sua madre irrigidirsi.
Non era stupido: aveva abbandonato il Clan, verissimo, ma ricordava molto bene come funzionavano quel genere di cose arcaiche e prive di umanità. Se Hauke si trovava in un letto d'ospedale, probabilmente era perché si era dovuto scontrare con qualcuno che gli aveva dato parecchio filo da torcere, ma quel qualcuno, adesso, era sicuramente passato all'altro mondo.
Gesche deglutì sonoramente e Abel seguì i movimenti sotto la pelle del suo collo, mentre la donna contraeva le labbra. -Cosa sanno i tuoi amici poliziotti?-
-Solo che Hauke sta in ospedale. Staranno indagando. Io sono solo un loro consulente, non posso conoscere tutti i dettagli di un'indagine in corso-
Decise di tenere per sé il fatto che Hauke non era soltanto un licantropo ferito, né soltanto il braccio destro di Saul, né soltanto il vice di Gesche. Aveva guadagnato l'ennesimo titolo altisonante diventando pure consulente per la polizia, ma lo tenne per sé.
Era certo che Baker sarebbe stato fiero di lui.
Gesche annuì. -Ha lottato contro Linda-
Abel rimase in silenzio per un po', cercando di dare un senso alle parole appena udite.
Hauke aveva lottato contro Linda.
Contro una donna.
Una donna di nome Linda, che gli aveva fatto il culo.
Una donna che aveva perso la vita lottando contro di lui.
Una Linda.
Linda.
Aggrottò la fronte.
Linda.
Quante Linda conosceva?
Una.
Impossibile.
-Quale Linda?-
Gesche si lasciò sfuggire un sorriso amaro.
-Esattamente quella a cui stai pensando- rispose Veleno e Abel si stupì per non essere stato apostrofato da lui con il solito "idiota".
Si morse un labbro. -La figlia di Cassius?- domandò con un filo di voce e nella stanza calò un silenzio denso, profondo, agghiacciante. -Stai dicendo che...- ma si interruppe.
Nessuno stava dicendo niente.
Non ce n'era bisogno.
Linda, sua cugina Linda, figlia di suo zio Cassius, fratello di Saul, aveva sfidato Gesche per ottenere la carica di capoclan, e Hauke, che si era preso in carico di difendere Gesche, aveva combattuto contro di lei.
Contro Linda.
Sua cugina Linda.
E quello poteva significare soltanto una cosa: Saul si trovava contro persino la propria famiglia, il proprio sangue, il proprio branco.
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