PROLOGO
C'era sicuramente qualcosa di sbagliato, di drammatico, di inconcepibile e intollerabile nel trovarsi su una scena del crimine alle otto del mattino. Il senso di disperazione, di morte, di ingiustizia. Tutte sensazioni che proprio stonavano con il sole candido che brillava nel cielo, l'aria tiepida di inizio estate, il canto degli uccellini e il profumo di fiori e smog che rendevano Idsten una splendida cartolina.
Eppure Abel non riusciva a concentrarsi su niente di tutto quello. Anche perché si trovava chiuso all'interno di un appartamento – un appartamento che non conosceva, in cui non aveva mai messo piede prima di quel giorno – e la "cartolina" poteva ammirarla solo da una stretta finestra che si apriva sulla parete di sinistra.
Ma non si era recato, di certo, lì per quello.
Fissava un punto imprecisato sulla parete dinanzi a sé, di un intenso color rosso amore passione, su cui era stata tracciata una stella capovolta bruciando diversi punti sull'intonaco, e maledicendo John Caro per averlo svegliato dopo appena due ore di sonno.
-Questa storia che sei entrato così in confidenza con me da sentirti autorizzato a rompermi le palle già all'alba deve finire- disse tutto d'un fiato, spostando lo sguardo sull'uomo al suo fianco.
Alto, magrolino e avvolto in un elegante completo di alta sartoria – che, con tutta probabilità, aveva acquistato in saldo in qualche outlet, pescandolo direttamente dal cestone delle super offerte – John Baker lo fissava con la sua solita espressione imperscrutabile. La stessa che ad Abel, da quando si conoscevano – dalla bellezza di ben sei mesi –, suscitava lo spasmodico desiderio di aprirgli il cranio e scoprire cosa diavolo ci nascondesse dentro.
-Sono le otto- sbottò John, massaggiandosi le palpebre con due dita, premendo i polpastrelli con forza sugli occhi chiusi.
-Appunto! Sono tornato a casa alle quattro dal lavoro. Il mio vero lavoro! Non questo macabro passatempo che hai inventato tu per cercare di passare più tempo in mia compagnia, nella speranza di sedurmi e abbandonarmi...-
-Come no-
-... non mi avrai mai! Ho già il cuore sold out tra un licantropo stronzo e bigotto, l'amore mio Reik e Florian, l'Antico Vampiro Gentile-
-Non mi piacciono gli uomini...-
-Io sono l'eccezione, l'uomo che piace a tutti! Sono Divina-
-E rompicoglioni-
-Ah! Io?! Mica tu che mi hai dato appena il tempo di farmi una doccia, bere un caffè, sfamarmi con un piatto misero di cibo. Mi ero appena messo a letto e...-
-Sì, sì- lo interruppe l'uomo. -Conosco già la tiritera-
-Ma la tua nuova partner no- sbottò Abel, girandosi dalla parte opposta, finendo per fronteggiare una donna che, senza tacchi, era vergognosamente più alta di lui di almeno un paio di centimetri.
-Non è la mia nuova partner...-
-L'Ispettore Klein. Quella che si è fregata il posto di Reik mio perché lui sta ancora malaticcio- lo interruppe e la donna aprì la bocca, forse intenzionata a dire qualcosa, ma Abel la prevenne. -Klein. È parente dello stilista? Meglio vivere di rendita che fare la poliziotta, no?-
-No- rispose secca lei.
Abel sospirò mesto. -Mai che queste fortune capitino a me!-
-Non sono parente dello stilista...-
La ignorò. -Non mi ci vedresti bene a non fare un cazzo dalla mattina alla sera e vivere di luce riflessa, eh, John Caro?-
-In effetti, rischieremmo di non averti più tra i piedi...-
-Hai ragione! Non sarebbe affatto possibile! Luce più luce uguale esplosione. Brillo già di mio di luce tutta mia. Tanta, tantissima luce mia-
-Una cometa...-
-No, io non cado mai-
John si batté una mano sul viso, e Abel notò che stava fuggendo dallo sguardo assassino della collega. Era quasi dispiaciuto al pensiero che l'ispettore potesse davvero credere di spaventare qualcuno simulando lo sguardo di un criceto in agonia. Abel era abituato a altre tipologie di sguardi assassini, più da film dell'orrore, più da licantropi dentro corpi di energumeni dal volto trasfigurato da inquietanti cicatrici. In poche parole, era abituato agli sguardi assassini di Saul Lorenz: non poteva di certo farsi venire la tremarella per qualcosa di decisamente meno delle occhiatacce che era solito rivolgergli suo padre.
-Ho capito che sei un po' triste...- iniziò col dire John e la poliziotta trasalì, manifestando aperto stupore.
-Triste? Le sembra triste, commissario?- lo interruppe.
Abel roteò gli occhi e tornò a concentrarsi su quello che lo circondava, ignorando gli altri due.
Detestava la facilità con cui il suo amico commissario aveva iniziato a interpretare le emozioni che cercava di celare dietro la propria ironia pungente. Avevano condiviso tanto, forse addirittura troppo, in troppo poco tempo, dilatando il tempo, le emozioni, arrivando a un grado di confidenza e di empatia che avrebbero potuto fare invidia persino a una coppia di amici tali da decenni. Era quello che poteva succedere, evidentemente, se si iniziava a condividere con uno sconosciuto la paura di morire, di vedere il proprio mondo andare in pezzi, inghiottito dall'odio.
John ignorò la collega, o comunque non le rispose, e si fece avanti, seguendolo mentre Abel si aggirava per la stanza, stando attento a non pestare nulla di compromettente.
Era ormai abituato a trovarsi all'interno di una scena del crimine, eppure non si era ancora abituato a confrontarsi con le emozioni che, luoghi come quello, gli suscitavano.
Orrore, innanzitutto.
Di quello vero, puro, sconfinato, senza filtri.
Rabbia, nausea, isteria, desiderio di dare fuoco a tutto e correre via da lì il prima possibile.
Ma poi rammentava di essere stato eletto all'altisonante carica di Consulente per la polizia per i crimini connessi con il soprannaturale e quindi si obbligava a resistere, a dare il meglio di sé per rendersi utile.
Dopotutto, si era fatto confezionare un giubbetto di pelle con l'intera frase stampata a caratteri gialli, fluo, sulle spalle: non aveva alcuna intenzione di non indossare più un capo d'abbigliamento di tale pregio, perciò si sarebbe impegnato sul serio per mantenere la sua carica.
-Reik come sta?- si sentì chiedere e sussultò, spostando la propria attenzione dagli elementi della scena che erano stati messi in risalto con segni di gesso e numeri, riportandola sul commissario.
-Bene. Mangia da solo! Usa entrambe le mani, grandioso, e parla, grandioso al quadrato-
John aggrottò la fronte. -Sai a cosa mi riferivo-
-Alla sua salute- rispose Abel, facendosi di colpo vago, e si guardò attorno, notando che la poliziotta era sparita, forse liquidata proprio dal suo superiore.
Erano soli nella stanza.
Dannazione.
-Alle sue gambe-
Abel deglutì a vuoto un paio di volte e gli diede le spalle. Tirò il guanto di lattice che indossava sulla mano destra verso il polso, cercando di calzarlo meglio – dato che gliene avevano forniti un paio della misura adeguata a uno yeti e a lui stavano, quindi, grandi – e prese tra le mani una fotografia incorniciata, sul cui vetro crepato era stata segnalata una goccia di presumibile sangue.
-Ne ha sempre due- disse con tono incolore e ripose la foto al suo posto.
-La fisioterapia come va?-
-Non l'ha ancora iniziata-
-Perché?-
Abel sbuffò e si batté le mani sui fianchi, voltandosi nella sua direzione. John lo sovrastava in altezza, ma Abel senza tacchi non brillava di altezza propria, quindi la cosa non lo stupì più di tanto. Ciò che lo stupì davvero, invece, fu leggere sul volto del poliziotto una dolcezza che mai prima vi aveva scorto.
-Siamo amici, io e te. Ci sono per te, Abel-
Annuì e distolse gli occhi dai suoi, finendo per mordersi un labbro.
-Non voglio pensarci adesso, abbiamo un sacco di cose da fare-
-Lavoro, eh?-
-Mi sto ammazzando di lavoro, nelle ultime settimane-
John gli poggiò una mano su una spalla e strinse con gentilezza. -Mi servi vivo. Altrimenti non avrei più nessuno da tormentare alle otto del mattino, dopo due ore di sonno e tutta la tiritera...-
-Vaffanculo-
Il commissario rise e Abel scosse la testa, tornando a dargli le spalle.
Lavoro al MoonClan, lavoro per la polizia, lavoro, lavoro, lavoro. Basta che non mi sia dato tempo di pensare.
-E allora ricominciamo, Schimdt- disse John e Abel annuì.
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