TREDICI

-Buona colazione- ed Abel fece tintinnare la propria tazza contro quella di Reik. -E speriamo che oggi sia una giornata meno di merda di ieri-

L'agente sorrise e diede uno sguardo all'orologio del proprio cellulare. -Sono quasi le cinque. Il tempo è volato-

-E noi non abbiamo dormito-

-Passato un certo orario, anche volendolo, non riesco più a prendere sonno- nonostante quello che aveva appena detto, Reik sbadigliò sonoramente.

Abel sorseggiò il proprio caffè sentendosi preso dai propri pensieri. O forse era colpa del sonno, della stanchezza. Il suo corpo si era rilassato appena aveva preso posto sul divano di dubbio gusto di Reik. Era un divano scomodo, con una fantasia a righe larghe che con tutta probabilità aveva smesso di essere di moda da almeno settant'anni. I braccioli e lo schienale erano duri, di legno, eppure lui si sentiva rilassato e comodo.

Era sicuramente diventato pazzo. Ma proprio senza dubbio alcuno.

Saul lo aveva chiamato una sola volta. Abel aveva rifiutato la telefonata e l'uomo non aveva più provato a mettersi in contatto con lui. Anche questo lo aveva deluso, ma a questo era abituato. Saul era una miniera inesauribile di gesti – piccoli e grandi – e di parole in grado di deluderlo.
Da sempre.

Bevve un altro sorso di caffè. Era buono come ricordava. In meno di dieci ore si trovava di nuovo nell'appartamento di Reik. Del nemico. E continuava a ripetersi che il poliziotto era suo nemico perché sentiva già, dentro di sé, di non percepirlo più come tale.
Dopotutto, durante le ore in cui era stato "rapito" da lui, l'agente non gli aveva torto un capello.
Neppure Mama Gesche avrebbe potuto affermare altrettanto.

-La mia madre adottiva, una volta, per sbaglio, mi ha quasi staccato un braccio, sai?- disse sovrappensiero.

Reik reclinò il capo da un lato, fissandolo in tralice. Pareva diffidente. O forse Abel si era già pentito di avere dato fiato ai propri pensieri. -Per sbaglio?-

Annuì. -Sai... Beh, lo sai. È un licantropo. Al momento è latitante, non la vedo da un anno, non la sento da un anno e non ho idea di dove si nasconda-

-Non te lo avrei chiesto comunque-

-Davvero?-

-Non sono coinvolto in nessuna indagine su di lei- disse l'altro e si strinse nelle spalle. -So che Gesche Lorenz è un licantropo, certo. È stata segnalata all'Associazione. È la moglie di Saul Lorenz. So che hanno due figli naturali e un terzo adottivo-

-Io sono l'adottato- disse Abel e sollevò una mano come se stesse rispondendo a un appello.

Reik annuì. Abel riportò lo sguardo sulla tazza che stringeva tra le mani. Si tolse le scarpe e si rannicchiò sul divano. L'agente lo fissò in silenzio, senza ammonirlo, quindi decise di mettersi ancora più comodo e pose entrambi i piedi sulla seduta, stringendosi le ginocchia al petto con un braccio. Bevve un altro sorso di caffè. -Stavamo giocando, io e i miei fratelli adottivi. A un tratto loro si sono trasformati e hanno iniziato a correre verso il bosco per nascondersi. Anche mamma ha fatto lo stesso. Non capivo, non avevo idea di cosa avessero sentito, se stessero giocando ancora con me oppure no. Percepivo però che l'atmosfera si era fatta diversa, ma restavo fermo, confuso. Così lei mi prese per un braccio con l'intenzione di trascinarmi tra gli alberi e le sue zanne mi hanno lasciato questo- disse scoprendosi il braccio sinistro, fino al gomito, dove si trovava una cicatrice frastagliata.

Gli sfuggì un sorriso triste all'idea di condividere con Saul pure quello: una cicatrice sullo stesso braccio. Ma continuava a non avere il suo stesso sangue e questo, più passava il tempo, più persino lui cominciava a vederlo come un ostacolo insormontabile. -Credo... Beh, ad oggi penso che sia solo uno dei tanti segni, chiamiamoli così, che dimostrano che non sono proprio figlio loro- rise amaro e tornò a bere.

Reik non si pronunciò. Abel temette di aver detto troppo, ma il danno ormai era fatto. Non si sentiva neppure propriamente pentito per quello che gli aveva raccontato: lui per primo percepiva quell'episodio della propria infanzia come una cosa normale e la Polizia sapeva già chi era Gesche. Era quasi certo che possedessero persino dei fascicoli con i nomi di Rudi e Ada, seppur l'agente non li avesse menzionati in maniera esplicita. Però si era scoperto, gli aveva rivelato un ricordo della propria infanzia e ciò lo fece sentire vulnerabile. Era così stanco che temeva avrebbe finito per dire anche cose che non voleva.
E quello si sarebbe potuto rivelare un guaio enorme.

-Come mai hai cambiato cognome?-

Abel tornò a fissare Reik, stupito dalla sua domanda. Di tante che avrebbe potuto fargli, quella gli sembrava la meno invadente e poliziesca tra quelle che, invece, erano venute in mente a lui stesso. -Perché non sono mai andato tanto d'accordo con il mio padre adottivo. È stato più un atto di ribellione. Una provocazione-

-L'ha colta?-

Abel sorrise ancora. -Per niente. Anzi, credo di avergli fatto, involontariamente, un favore-

Reik si strinse nelle spalle e ripose la propria tazza sul tavolino di fianco al divano. -È difficile essere genitori-

-Parli per esperienza personale?- domandò con tono canzonatorio, certo che l'agente non avesse figli, altrimenti glielo avrebbe già detto la sera prima.

-No- disse l'uomo e fece una smorfia. -Parlo dei miei genitori-

Abel rimase in silenzio, in attesa, per un tempo lunghissimo.
Circa dieci secondi.
Dopo dieci secondi incominciò a domandarsi se Reik si aspettasse di ricevere domande riguardo ciò che aveva detto, oppure se avesse evitato di proposito di fornirgli ulteriori dettagli sull'argomento.

Trascorsero un'altra manciata di secondi. -E quindi?- sbottò.

Reik rise. -Sono stato un ragazzino problematico...-

-No!- lo interruppe. -Tu? Non ci credo proprio-

-Perché?- chiese l'altro e parve mettersi sulla difensiva: si spostò un po' sul divano e incrociò le braccia sul petto, mentre la sua espressione si faceva vacua.

-Alto, bello, intelligente, biondo, hai proprio l'aria del sapientone. Una gran parlantina e sei pure un poliziotto!-

Reik sgranò gli occhi e scoppiò a ridere. -Certo che sei strano-

-Ah. Io?-

-Sì, tu. Prima mi prendi in giro e poi mi riempi di complimenti-

-Io prendo in giro a tutti. Me per primo. E la vita. E tutte le situazioni di merda che mi presenta. L'ironia è il mio scudo-

-È efficace?-

Abel si morse un labbro e abbassò gli occhi sulle proprie mani. Si liberò della tazza, poggiandola sul pavimento, e si strinse le ginocchia al petto con entrambe le braccia. -Ogni tanto scricchiola- ammise in un sussurro.

Percepì un movimento alla propria sinistra e rivolse uno sguardo in tralice in direzione di Reik. Scoprì che aveva dimezzato la distanza tra di loro. Gli era così vicino da percepire il calore del suo corpo su un fianco.

Avrebbe potuto azionare di nuovo il martello pneumatico dei pensieri. Domandarsi che ne avrebbero pensato Saul e Hauke, ma decise di non farsi coinvolgere più da quel vortice vizioso.
L'agente gli sfiorò una spalla con la punta delle dita di una mano e Abel trasalì.

-Ho frainteso?- chiese il poliziotto e Abel si morse ancora un labbro.

Reclinò il capo da un lato e strisciò piano verso di lui, finendo per aderire con la propria gamba sinistra alla destra dell'altro. Scosse piano la testa e puntò lo sguardo sulle sue labbra. Avevano un disegno delicato, con il contorno appena più chiaro, come un tocco di luce, circondate da un velo sottile di barba, di un punto di biondo leggermente più scuro rispetto quello dei capelli.

Gli accarezzò il mento con un dito, salì appena verso l'alto e ridisegnò con cura il contorno del suo labbro inferiore. Si sporse verso di lui. Lo baciò.

Labbra contro labbra. Una tensione palpabile gli irrigidì le spalle. Percepì Reik sorridere contro la sua bocca e subito rilassò i muscoli della schiena, chiuse gli occhi. Sorrise pure lui e l'altro gli passò un braccio intorno ai fianchi. Schiuse le labbra e lo accolse dentro la propria bocca. Petto contro petto. Prese il suo volto tra le mani, mentre quelle di Reik esploravano il suo corpo in una blanda carezza, sensuale. Forse un po' titubante.

Il bacio si fece più profondo. Abel ebbe un attimo di smarrimento, forse a causa dell'improvvisa assenza di fiato. Si rese conto di essersi recato in casa del poliziotto proprio con il sospetto – il desiderio – che sarebbe potuta finire a quel modo, tra di loro. Persino Reik, con tutta probabilità, lo aveva invitato da lui proprio con lo stesso scopo.

Era una cosa che la sua famiglia non avrebbe potuto capire, che, anzi, avrebbe potuto benissimo rimproverargli. Non che gli importasse granché: aveva smesso da tempo di essere il ragazzino ribelle. Era diventato un uomo con proprie idee e convinzioni, impulsi e desideri – che poi non fossero condivisi da Saul e gli altri, non era più un suo problema.
Sarebbe continuato ad apparire ai loro occhi come diverso, immaturo, strano?
Non ebbe neppure il tempo di mandarli mentalmente a quel paese: una mano di Reik scivolò sull'interno di una sua coscia, risalendo a pieno palmo verso l'inguine, e i pensieri di Abel si spensero.

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