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Traccia 3, commento a fatti di attualità: un anno di guerra in Israele e Palestina

Estratti dall'incontro del card. patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa al Meeting per l'amicizia fra i popoli, 20 agosto 2024:

Partendo da una domanda sull'attualità, lei vive ormai da quasi 35 anni a Gerusalemme. Forse come pochi altri conosce i conflitti, le contrapposizioni, anche nelle loro profondità. Però dopo la guerra del 7 ottobre, lei ha detto che si tratta di una tragedia senza precedenti e non si riferiva solo al conflitto armato. Che cosa intendeva quando parlava di "senza precedenti"?

Pizzaballa. Anche il conflitto armato è senza precedenti, è una guerra cosi lunga, però adesso non entro nella cronaca militare perché penso che lo possiate vedere continuamente. Anche se siamo in un momento decisivo, direi di rimanere concentrati sui dialoghi in corso. Devo dire che l'impatto che questa querra ha avuto su entrambe le popolazioni, israeliana e palestinese, è unico, senza precedenti. Per Israele, quello che è accaduto, le interpretazioni sono diverse, non entro adesso nel merito, ma per Israele quello che è successo il 7 ottobre è stato uno shock incredibile, Israele è nato come il paese dove gli ebrei sono a casa e si sentono sicuri, e il 7 ottobre ha mostrato che non lo sono più. Naturalmente, per i palestinesi, quello che accade, non solo a Gaza ma in tutto il mondo, è qualcosa di mai visto prima, quindi ha un impatto enorme che ha esasperato sentimenti già esistenti, che ora sono diventati, diciamo cosi, linguaggio comune: odio, rancore, vendetta, giustizia intesa come vendetta, profonda sfiducia, l'incapacità di riconoscere l'uno l'esistenza dell'altro. C'è un passaggio nel libro di Isaia, capitolo 47. versetti 8 e 10, sul quale sono ritornato spesso in questi mesi. Isaia parla contro Babilonia, la Babilonia di quel tempo, che diceva, ed era il motivo per cui veniva accusata: "lo e nessun altro", lo e nessun altro è anche il nome di Dio, "Non avrai altro Dio all'infuori di me". "lo e nessun altro", diceva Babilonia. Ho l'impressione che quello. che si sta dicendo ora sia "lo e nessun altro", rifiutarsi l'uno l'esistenza dell'altro e con un linguaggio di rifiuto dell'altro che è diventato materia quotidiana, che si respira nei social media e cosi via, ed è qualcosa di veramente drammatico. La guerra finirà. lo spero che con i negoziati in corso si arrivi a qualcosa, ma ho un po' di dubbi. Comunque, è l'ultimo treno. Se non si riesce a raggiungere un cessate il fuoco ora, sarà veramente drammatico. E siamo in un momento cruciale. Si può andare verso un cessate il fuoco, ma si può anche andare verso una degenerazione. Tutto dipende dai prossimi giorni, per questo ho chiesto ed è importante pregare, perché è l'unica cosa che ci rimane da fare. Ecco, comunque in un modo o nell'altro la guerra finirà. Però ricostruire questi atteggiamenti di sfiducia, di odio e di disprezzo profondo, sarà una fatica immane che ci dovrà impegnare tutti.

Lei ha parlato in diverse occasioni del fatto che non c'è riconciliazione senza perdono, ma al contempo ha sempre sottolineato che il perdono non si può imporre. Ma è possibile in qualche modo invitare al perdono, soprattutto in situazioni di ingiustizia oggettive e molto pressanti?

Pizzaballa. Come devo rispondere? Non è facile rispondere a queste domande, perché non sono astrazioni. Per noi in Terrasanta, perdono e giustizia sono parole importanti, difficili, che toccano concretamente la carne della vita delle persone. Per cui bisogna fare attenzione quando se ne parla, perché sono parole importanti. La fede cristiana non può essere separata dall'idea di perdono. La fede cristiana è l'incontro con Cristo, e quell'incontro è un incontro che ti salva e ti perdona. Incontrando Cristo, incontrando Dio, la prima esperienza che fai è di essere peccatore. Però questa coscienza, questa consapevolezza di essere peccatore, non è una condanna, ma è un annuncio di salvezza. Questo peccato è stato salvato, redento, non ha più valore di fronte a Dio. Ora, a livello personale, perdono e giustizia sono quasi sinonimi. Gesù sulla croce non ha aspettato che si facesse giustizia per perdonare. Ha perdonato. E ci sono stati nella storia persone che, anche di fronte al plotone di esecuzione, pur essendo innocenti, perdonavano. Sono esperienze fortissime, bellissime. Quindi, a livello personale, giustizia e perdono non si possono totalmente separare, sono quasi sinonimi, se illuminati dalla fede. A livello comunitario, le dinamiche sono diverse. A livello pubblico e comunitario, la comunità si regge anche su altre parole: dignità, uguaglianza, che sono costitutive della vita di una comunità. Per cui perdonare senza che ci sia dignità e uguaglianza non è un gesto che porta dignità e uguaglianza, ma significa giustificare un male che si sta compiendo. Quindi il perdono deve essere presente, ma le dinamiche sono completamente diverse, richiedono tempo, un processo di guarigione, di anzitutto di accoglienza e di riconoscimento del male, dell'ingiustizia commessa, e che poi ha bisogno anche di una parola di verità su quello che sta accadendo. Perché se non fai verità, se non dici le cose con chiarezza, cosa perdoni? Però questo deve essere fatto a livello comunitario, con dinamiche molto diverse. In Sudafrica, dopo l'Apartheid, c'è stata una commissione che ha dovuto lavorare anni per recuperare, riconoscere, capire, valutare, guarire e cosi via. Per cui non è semplice. E come pastore, mi trovo sempre in questa difficile situazione. Perdonare oggi, per un palestinese, perdonare oggi significa giustificare quello che sta accadendo, non può farlo, deve attendere. Però, come pastore, non posso dire: "Guarda, è vero che devi fare giustizia, però ricordati che la giustizia senza perdono diventa semplicemente recriminazione, mettere la persona nell'angolo". Può diventare vendetta la giustizia. Lo scopo non è quello di chiudersi, fare una verità e incastrare l'altro, ma superare questa situazione. E questo lo può fare solo il perdono. E la comunità cristiana, la fede cristiana deve portare questo contributo, deve portare dentro il dibattito pubblico questa possibilità. Forse in questo momento non si può fare. Dovremo attendere, dovremo lavorare a livello personale, in piccoli gruppi, e cosi via, ma dovremo tendere a un momento in cui lo potremo fare, perché è l'unica via per superare questa impasse.

Intervista di Francesca Caferri a Padre Gabriel Romanelli, sacerdote nell'unica parrocchia cattolica di Gaza - 6 ottobre 2024, «la Repubblica»

TEL AVIV – Padre Gabriel Romanelli ha appena finito di celebrare la messa della domenica nella chiesa della Sacra Famiglia di Gaza quando ci risponde al telefono: ha la voce serena nonostante la bomba che, 24 ore prima, è arrivata appena all'esterno del compound della parrocchia, spaccando il muro di cinta, mandando in frantumi le finestre, scardinando porte. "Grazie a Dio, nessuno è stato ferito: una cosa prodigiosa", ci dice.

Padre, com'è la situazione intorno a lei?
"Oggi non buona, i bombardamenti sono più intensi del solito. Ma la cosa peggiore è il senso di incertezza. Nessuno sa fino a quando durerà la guerra e nessuno parla di cosa potrà essere Gaza dopo la guerra. Qui in parrocchia vivono ormai da un anno 500 persone: fra cui 58 disabili e bambini abbandonati assistiti dalle suore del Rosario di Gerusalemme. Da un anno, la maggior parte di loro non è mai uscita da queste mura per paura. Qualcuno va a casa per un po', qualcuno va alla Chiesa ortodossa che è 400 metri: ma sono pochi. Molti, nonostante i nostri sforzi, tanti stanno entrando in depressione. E li capisco: sono sfiniti".

Da maggio, grazie a una missione congiunta del Patriarcato latino e del Sovrano Ordine di Malta, alla parrocchia arrivano aiuti una volta al mese: sono sufficienti?
"No. Il carico arriva ogni mese dopo un lungo processo di controlli, ma non basta mai. Ora il Patriarcato sta lavorando con le autorità per far passare gli aiuti ogni due settimane: speriamo che riescano. Nell'ultimo trasporto c'erano frutta e verdure: per la prima volta qui sono arrivate le mele ed è stata una grande festa. Non si vedevano da un anno. Con quello che è arrivato, abbiamo sfamato le persone che sono qui e quelle che sono a San Porfirio, la chiesa ortodossa. E altre 4500 nel quartiere intorno a noi: la guerra non fa differenza di religioni. Tutti hanno bisogno".

A parte quelli alimentari, quali sono gli altri bisogni a cui rispondere?
"Quelli psicologi come dicevo. Ma molto di più: penso alle scuole. Grazie alla mediazione del Patriarcato latino con il ministero dell'Educazione di Ramallah siamo riusciti a far si che i nostri studenti possano fare gli esami a distanza a novembre in modo da non perdere l'anno scolastico 2023-24. Ce la stanno mettendo tutta: abbiamo fatto quattro capanne di legno nel cortile della chiesa e le usiamo come classi, altri studiano nella cappella delle suore. Se Dio vuole almeno una parte dei ragazzi che frequentava le nostre scuole non perderà l'anno: 400 allievi su 2250 che ne avevamo prima. Sembra niente ma per noi è tanto".

Padre, lei è tornato a Gaza a maggio insieme al cardinal Pizzaballa dopo essere rimasto bloccato fuori a ottobre. Cosa l'ha colpita di più al suo ritorno?
"Molte cose: la distruzione che ho visto. E dal punto di vista umano, l'assenza di alcune persone: chi è fuggito, chi è morto. Ma mi ha fatto moltissima impressione, come anche al Patriarca, il fatto che nessuno si lamenta: non c'è posto per il rancore qui, né verso Dio né verso gli altri. Chiedono solo che questo male finisca, Nella messa che abbiamo finito abbiamo chiesto pace e libertà: per gli ostaggi, per i prigionieri, per la gente di Gaza".

Quando ci siamo incontrati a Gerusalemme, qualche mese fa, lei mi ha raccontato delle telefonate del Papa. Chiama ancora? (Prima di rispondere padre Romanelli scoppia a ridere)
"Ogni giorno. Alle otto in punto. Anche quando era in Asia, anche quando era in Belgio: prega con noi, chiede come stanno i bambini e ci dà la sua benedizione. Per tutti noi questo è un grandissimo conforto".

Consegna:
A un anno esatto dall'inizio delle ostilità tra Israele e Palestina il conflitto non accenna a chiudersi, anzi sembra spaventosamente allargarsi. Le parole di Pierbattista Pizzaballa e di Gabriel Romanelli raccontano, da vicino, una situazione complessa, nella quale ad oggi non si intravede una facile risoluzione.

Sfruttando le fonti che ti sono offerte come pure altre di tua conoscenza, proponi una tua riflessione a un anno dall'inizio del conflitto.

Dai un titolo al tuo tema.

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