- INTERMEZZO III (Parte 2) -
Frattanto, la sorellina Jaimie stava assistendo alla scena con occhi tremolanti e lucidi da dietro una parete, oltre una porta. «Ricina, Jennifer, sai cos'è la ricina!?». Sembrava volesse esplodere in una cascata di furenti parole. Improvvise e tumultuose scariche elettriche gli agitavano il corpo, come a scuoterlo con veemenza. Jennifer si sentiva frastornata, incapace di comprendere quelle parole che sembravano sconnesse tra di loro. «Ricina, Jennifer! È un veleno! Con quella ho ucciso tua madre!». In quell'istante, una porzione dell'anima di Jennifer se ne andò via. Per sempre. Come una nuvola che lascia posto a una nuova nube, cascando al suolo sotto forma di pioggia, la stessa che ora scrosciava imperterrita. L'aveva uccisa. Solo in parte, ma l'aveva uccisa. Ora fissava il patrigno, ma era come se stesse fissando il vuoto. Attonita, confusa, sbiadita, morente... per un attimo volle credere che le stesse mentendo o che avesse inteso male. L'aria attorno a sé e quello sguardo carico di odio le confermarono che un pezzo di lei non c'era più. Non era solo un orco. Era il re di tutti gli orchi. Jennifer si sentì svergognata, umiliata, cattiva... persa. Era stata insozzata non da un uomo malato che la minacciava, ma da un omicida. In qualche modo, si sentì sporca più che mai, come se un pezzo di lei avesse ucciso sua madre. Sono complice. Vado a letto con l'omicida di mia madre.
Desolazione e rabbia cieca furono iniettate nelle sue vene, come se provenissero da un posto esterno al suo corpo. «L'ho uccisa!» urlò ancora e le sferrò un calcio possente a una coscia che le strappò uno strillo. E, come una bestia affamata, stringeva le mascelle, come se avesse voluto spezzare un osso. «Credevo che sarei stato il beneficiario di parte della sua fortuna e invece!? Tutto a voi due! Tutto!!! A me non ha lasciato niente!!!». Alzò le mani al cielo e se le portò alla testa come se la stesse trattenendo da uno scoppio imminente dall'interno. Batté i piedi con violenza a terra e Jennifer ne approfittò per rialzarsi. Appena varcata la soglia della porta dell'anticamera che connetteva la cucina al soggiorno, incrociò lo sguardo attonito della sorellina. Non ci pensò due volte. L'afferrò per la mano e la trascinò con sé verso le scale.
«Presto Jaimie, andiamo!». Mentre salivano lungo le scale, un vaso sfiorò la testa di Jennifer e rovinò in mille pezzi contro la parete. «Jennifer, non provare a scappare! – le intimò il padre – Non voglio farti del male... è solo una punizione piccola per avermi disobbedito! Sei una puttanella, Jennifer, e devi essere corretta! Non sta bene che te ne vai in giro a scopare e a succhiare uccelli... e a fumare!!! Hai dodici anni, Jennifer! Dodici anni!». «Hugo, lasciaci andare!» strillò Jennifer. "Hugo"... Affronto imperdonabile. «Ti ho vista fumare!!! Come una puttanella!!!». Tuonò così forte che i muri sembrarono vibrare. Un paio di tuoni in sequenza sembrarono far eco a quella voce infernale. Questa volta, uno scarpone colpì Jennifer alla schiena, facendola ruzzolare a terra. Una fitta lancinante la stava facendo tremare dal dolore. Avvertiva un calore alle vertebre così forte che pensava che la suola le si fosse conficcata nella carne. Le sembrò che nevicasse, tanto aveva la vista annebbiata. Per un attimo, i rumori le parvero ovattati. Poi vide la faccia di Jaimie contorcersi dalla paura.
«Jennifer, sta arrivando!» trillò la bimba di appena cinque anni. Jennifer si voltò di scatto in direzione delle scale e vide suo padre, enorme, cupo, ergersi innanzi a lei e alla sorellina come una montagna aspra. Jennifer sentiva il fondoschiena gelido del pavimento. Le mutandine le si erano in parte sfilate, lasciando intravedere la linea delle natiche. Hugo la fissava bramoso, pericoloso, ardente di una viscida passione. Si sollevò le mutandine e scattò in piedi come una lepre pronta alla corsa. L'aria tra la sua testa e quella della sorellina fu sferzata da qualcosa. Era la mano del patrigno che, impetuoso e accecato, aveva mancato il colpo. Jaimie gridò. Jennifer gridò. La sorellina varcò indietreggiando la soglia della sua cameretta. Altrettanto fece Jennifer, attraversando la porta della sua dimora dei sogni. «Papà, ti prego, basta! Mi dispiace, ho fumato, ma te lo giuro, non ho fatto nulla a quel ragazzo, è solo un compagno di classe! Te lo giuro!».
Sembrava strozzarsi e le lacrime ora le fluivano a fiotti intensi. Avanzò di nuovo, ululando: «ho già capito come andrà a finire... ti dovrò piantare in un riformatorio femminile, altrimenti... altrimenti comincerai a sprecare tutti i soldi... a bere... a scopare ragazzi a caso... brucerai i soldi... i miei soldi!!!». Ora, i suoi occhi vibranti si posarono sulla camicetta del completo scolastico, e sulle linee appena abbozzate del seno. Sospirava concitato, come se avesse corso per chilometri. Scese con lo sguardo prima sui fianchi stretti e sull'inguine coperto da un velo di cotone rosa. Poi lo risollevò e le fissò di nuovo il petto. Con scatto fulmineo, la sua mano piombò sull'abito. Un paio di bottoni volarono in aria per poi roteare fino al pavimento freddo, mentre Jaimie strillava parole che arrivavano alle orecchie di Jennifer come brusii insignificanti. Quando si accorse che la linea del seno ora era disegnata sul suo petto, si coprì con le braccia. Adocchiò gli occhi di Hugo freddi, sbavanti.
«Basta, ti prego!» strillò lei serrando gli occhi e dando fiato a tutto l'ossigeno nei polmoni. Ora una fiammata ardente, pura collera, risalì il pozzo della sua mente, scivolosa come lava sulle pareti interne di un vulcano. Finalmente, la sua passiva accettazione era diventata un guizzo di disapprovazione, vivido nella sua mente. Voleva minacciarlo con il pensiero, attraverso parole che provavano a sgorgare con così tanta foga che formavano come un collo di bottiglia nel suo cervello. «Devi lasciarmi stare, maniaco! Non ti sopporto più!». Lui dilatò gli occhi sorpreso e digrignò i denti come un cane randagio messo alle strette da un accalappiacani. «Maledetta puttanella! Come osi parlarmi in questo modo!». Ma lei straripò incessante. «Sei un lurido, viscido, sporco maniaco! E assassino! Io ti denuncio! Io ti denuncio!!!».
A quell'ultima parola, una manata sembrò premere sul petto dell'uomo. Si ritrovò con la schiena a terra e i suoi occhi frastornati guardavano la figura mossa di Jennifer. Era come se fosse stato spinto, ma non aveva mosso un braccio. Era come se i pensieri della ragazzina fossero all'improvviso diventati tangibili. Teneva gli occhi fissi in quelli di lei, ma non vi leggeva più paura. Il fuoco della frustrazione e della ribellione divampava in lei. Ira nascosta e ora pronta a scoppiettare. Un brivido caldo lo scosse. Si sollevò in piedi il più in fretta che poté. Lui alzò di nuovo la mano, chiusa a pugno. Ma una spinta gli fece deviare la traiettoria, sibilando in aria e urtando con il petto contro lo stipite, così come con il naso, che si arrossò per l'impatto. Frastornato da quelle perdite improvvise di equilibrio e da quelle spinte invisibili, afferrò il pomello della porta e la richiuse alle sue spalle, girando la chiave. Sentì Jennifer agitare la maniglia e urlare: «lasciami uscire!».
Hugo fece due passi indietro e sbalordito intravide in quella maniglia sussultante la foga di un piccolo diavoletto rinchiuso. Con un'eco rotto da un sentore di flebile paura, urlò: «ora tocca alla tua sorellina Jennifer, mi hai sentito!? Alla tua sorellina!». La maniglia si arrestò per un attimo. Poi riprese a sobbalzare con forza. La porta incupiva e ovattava le grida di minaccia di Jennifer. Hugo sentì la porta alle sue spalle sbattere e la serratura girarsi. Ma ora la sua ira era resa ancora più sporca dalla ribellione di Jennifer. Un calcio si abbatté sulla porta della cameretta di Jaimie, aprendo l'anta come se fosse fatta di cartapesta. La bambina era impallidita, accanto alla finestra, come un fantasmino. «Ora tocca a te diventare la puttanella del papà» mormorò lui con occhi che sembravano voler roteare nelle cavità oculari.
Quando la porta si richiuse alle sue spalle, Jennifer ruppe la serratura e fissò l'anta di fronte a sé. Jennifer aveva deciso di usare i suoi poteri mentali per affrontare il patrigno. Per anni aveva celato il suo sbalorditivo potere. Senza che lei ne sapesse nulla, la madre l'aveva vista all'età di cinque anni far volteggiare nella vasca da bagno una paperella di gomma. Ma mai nulla le disse. Jennifer era conscia del fatto che la sua psicocinesi non fosse sufficiente ad abbattere un uomo adulto, per giunta grande e grosso come Hugo. Ma un'idea le brillò in testa e di corsa scese le scale.
«Jaimie, sta' ferma! Anche Jennifer si lascia toccare, ma l'hai mai sentita frignare!? Mai! Diventa anche tu la mia puttanella!». Hugo continuava a urlare come un indemoniato, mentre Jaimie strillava dalla paura, paonazza e agitando le braccia. Era sul letto, mentre il patrigno saliva in ginocchio, provando ad afferrarla per i pantaloni. Si sbilanciò troppo in avanti e un calcio della bambina lo colpì a un occhio. Strillò dal dolore, lanciando un guaito lancinante: «puttanella! Te la farò pagare!». Sollevò un pugno minaccioso in aria, come un cobra che carica la testa all'indietro, pronto a mordere l'intruso. Jaimie chiuse gli occhi, immaginando già il violento urto che l'avrebbe fatta urtare contro la capezziera, facendola contorcere dal dolore. Fu proprio in quell'eterno istante in cui i muscoli e i nervi di Hugo stavano per rilasciare la loro forza brutale, che l'urto della porta strappò via quella scena, come un calendario vecchio di un solo giorno, ma che deve lasciare il posto a quello nuovo, perché un altro anno è passato e quello successivo è arrivato.
«Allontanati... stronzo». La voce di Jennifer era cupa, adulta. Hugo la fissò attonito, incapace di comprendere la scena che aveva di fronte a sé. Due cose lo colpirono, inducendolo a sgranare la vista. La prima era che aveva la canna di una pistola puntata contro la testa, una calibro 36. Era evidente che Jennifer sapesse che era nascosta nell'ultimo cassetto della scrivania del suo ufficio al piano terra, in un doppio fondo. Ma il secondo aspetto lo inquietò ancora di più. Era come osservare una stella cadente che invece di tracciare una linea dal cielo al terreno, viaggiava al contrario, rompendo quello schema mentale che viene definito "logica". In un primo momento credette che fosse colpa dell'alcol, nettare divino che inebriava il suo sistema mentale e fluiva in circolo come un rilassante. Aprì la bocca, scosse la testa come a voler scacciare via delle mosche che gli ronzavano attorno. Eppure, quell'immagine restava davanti ai suoi occhi, prima furenti, ora avvolti in una pallida luce. La pistola non era in mano a Jennifer, ma sospesa in aria, poco oltre la spalla destra della ragazza, come mantenuta da un filo invisibile. Ancora frastornato, provò a biascicare qualcosa, ma tutto quello che gli uscì fu un lamento sfiatato e un flebile: «m-mi arrendo».
Mentre Jaimie ancora tremava, l'aria si caricò di una corrente percettibile sulla pelle, una ruvida carezza, come quelle che Hugo lasciava sul corpo della figliastra. Jennifer aveva gli occhi lucidi, tremava come se un formicolio amplificato la stesse indisponendo, così come la pistola sospesa sembrava essere retta da un polso debole, incapace di tenere ferma la presa. Odiava il patrigno con tutte le sue forze e la mente le supplicava di premere il grilletto. Ma un fermo morale la teneva ancorata, come colla moschicida che non lascia scampo al povero insetto. Ora innanzi a sé aveva le immagini di quel mostro diventato piccino come uno gnomo, con le braccia alzate e impallidito come una canottiera bianca appena lavata. Le sembrò che nella sua testa stessero scoppiando centinaia di bombe, troppi erano i pensieri che le frullavano in testa. Le immagini erano tutte simili tra loro: lui che entrava in lei. Ancora, ancora e ancora.
«J-Jennifer... metti giù la pistola, da brava» mormorò lui. «Sta' zitto!» strillò lei stizzita. Ancora inconscia, un sibilo nell'aria fece aggrovigliare le budella di Hugo come carne pressata. Una luce scintillante e uno scoppio invasero la stanza. Un tonfo. L'uomo aveva gli occhi così chiusi che le palpebre erano diventate chiare. Ma quando si rese conto che il respiro vitale era ancora in lui, aprì gli occhi. Si voltò. Vide Jaimie tenersi la parte sinistra del collo. Tra le sue dita, fiotti di sangue sgorgavano come piccoli fiumi visti da un'immagine satellitare. La vide accasciarsi sul letto. Quella sequenza di scene gli sembrò così fredda, così surreale. Ma l'odore di polvere da sparo gli rammentò che tutto era reale. Un formicolio all'orecchio, come un suggerimento, lo fecero scivolare giù dal letto, facendolo cigolare in un tetro lamento. Passò accanto a Jennifer, il cui volto sembrava essere stato coperto da una maschera di cera. Attonito.
Mentre lui usciva dalla stanza, precipitandosi al piano inferiore a chiamare la polizia, Jennifer stringeva tra le braccia sua sorella, cui rimaneva ormai un soffio di vita. In eterno avrebbe compianto quella scena. Il patrigno era ancora indaffarato con voce contorta a spiegare al centralinista della stazione di polizia cosa fosse successo (o meglio, la sua versione della vicenda), che per la seconda volta nel giro di pochi minuti si ritrovò minacciato dalla sua figliastra. Incapace di reggere lo sguardo da leonessa di Jennifer, serrò gli occhi come a volerli chiudere con un chiavistello. Mai ricordava di esser andato così vicino alla morte e di avere avuto così tanta paura. E mai Jennifer avrebbe creduto di avere una simile forza. Hugo in una frazione di secondo si ritrovò con la schiena schiacciata contro la parete, sollevato da terra e con una presa invisibile a stritolargli il collo in una morsa furibonda e omicida. Sentiva la pelle accartocciarsi e formare delle nodose pieghe, come se fossero le mani di un mostro a stringerlo e non la sua figliastra. Era a un metro da lui, con il palmo aperto rivolto verso la sua testa e mimava il gesto di stringere qualcosa. Solo che non stringeva nulla. Non fisicamente. L'uomo non capiva. Aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite, la schiena ululante e scorticata che bruciava di dolore, il fiato bloccato tra i polmoni e le narici. Se non fosse stato per un ennesimo rimorso, un istinto morale che supplicò la ragazzina di non ucciderlo, sarebbe morto. Piombò a terra, sibilante, con gli occhi vibranti che tornavano nella loro sede e un fiotto di saliva che colava da un lato della bocca andando a formare una piccola pozza. Vedeva confusamente Jennifer che usciva di casa nel cuore della tempesta che continuava a imperversare in quel pomeriggio, prima sereno e ora burrascoso. Quando la polizia la ritrovò, Jennifer giaceva stremata e avvilita sulla tomba di sua madre sotto la pioggia, come se il cielo stesse piangendo con lei.
Agli inquirenti sembrò che la versione del padre avesse senso: la ragazzina aveva perso il senno per via della morte della madre; in un impeto di follia, aveva preso la pistola dal cassetto del patrigno e aveva dapprima minacciato lui, poi ucciso la sorellina. Talmente schiacciante sembrava la dinamica, che perfino Jennifer si rese conto che ogni velleità di ribaltare l'evidenza sarebbe risultata nulla. Ora era sola, assassina e violentata, in una stazione di polizia, sedata e pronta per essere trasferita in una clinica psichiatrica. Ma ricordate: se qualcosa può andare ancora peggio, lo farà di sicuro.
Ovattato era il suo udito. Molle era la sua mente. Impossibile le sembrava quella giornata, eppure le pareti bianche della centrale, ogni singolo secondo, le ricordavano di quanto la realtà fosse crudele. Era ammanettata, seduta su una piccola sedia blu, di fronte all'ufficio del detective. Accanto a lei, in piedi, un poliziotto grassoccio stava mangiando una ciambella, salivando con morbosa golosità. Jennifer fissava il pavimento, come se quella liscia superficie la potesse calmare. I sedativi sembravano ancora fare effetto sul suo corpo. Quale destino le sarebbe toccato? Davvero il suo patrigno aveva vinto? Era forse solo una miserabile e sporca fallita, indegna di qualsiasi cosa buona nella vita? Era forse giusto che andasse a quel modo? Mentre ragionava rassegnata, come un maschio di mantide religiosa che sa che la sua fine ultima è quella di essere divorata dalla femmina, il poliziotto che era vicino a lei cominciò a tossire. La sua gola si era fatta secca e i polmoni erano bloccati. Cominciò ad ansimare. La tosse si faceva sempre più forte e gli sembrava che le sue narici andassero a fuoco. Jennifer, sebbene non avesse voglia di dare retta a quel poliziotto, non poté fare a meno di sollevare lo sguardo. L'uomo era violaceo in volto e un attimo dopo era già corso verso il bagno.
Ora era sola, eppure non le sembrò una coincidenza. Quando qualcosa nella sua testa le suggerì di voltarsi, la scena che vide e che rimase impressa nella sua memoria era macabra, come l'ombra nera che l'accolse il primo giorno a Primestone, come le mille facce di quello là che per mesi avrebbero perseguitato lei e gli altri Sfigati, come quando quello là li fece fuggire dalla città fantasma quella notte di ferragosto dell'anno seguente, costringendola poi a tornare mesi dopo per completare l'opera. Un uomo con un soprabito grigio e un cappello trilby verde se ne stava fermo in mezzo alla sala principale della stazione di polizia. Qualcosa di anomalo sembrava accadere attorno a lui e Jennifer in un attimo ne prese atto. I poliziotti e le persone che si avvicinavano a lui lo scansavano. Sarebbe stato anche normale evitare un uomo fermo, in modo tale da non urtarlo. Il problema era come lo evitavano.
Si spostavano in modo scoordinato, come quando qualcuno si accorge di un ostacolo all'ultimo istante e lo evita in modo goffo. Era come se non lo vedessero, ma una fioca striscia ombrosa si palesasse nelle loro menti, dandogli il sentore necessario a evitarlo. La verità era che non lo vedevano per davvero. Jennifer restò sbalordita. Sollevò la testa irrigidendo i muscoli del collo, aguzzando la vista, per essere sicura di ciò che stesse vedendo. Subito dopo spalancò gli occhi, come esterrefatta nel vedere quell'uomo procedere in linea retta, farsi evitare da tutte le persone e sedersi proprio accanto a lei. Avrebbero voluto morire per un attimo, piuttosto che continuare ancora a fissarlo in volto. Bianco. Ma non bianco come un abitante del profondo nord o bianco come se stesse per svenire, era pallido come un albino. L'uomo dalla faccia di squalo e i denti da vampiro, era Gus. Gus Von Blumen.
«Ciao Jennifer, come stai?» le sussurrò l'uomo, con due iridi rosse nel pallore mortale della sua sclera, biancastra e priva di anche un solo capillare. Le sembrò di notare una sfumatura di fucsia fluorescente intorno alla cornea. Occhi rossi. Singolari, a dir poco. «C-chi sei? Come fai a conoscermi?». L'uomo sollevò le labbra accennando un sorriso e mostrò ancor di più i suoi canini. «Io vi conosco tutti, Jennifer. So del tuo piccolo segreto». Jennifer sussultò, credendo che si riferisse agli abusi del patrigno. In realtà era qualcosa di peggio. «Ti ho vista far volteggiare le pietre nel giardino sul retro di casa tua... bel potere, raro e interessante». Jennifer aveva il cuore in gola e la saliva era del tutto scomparsa dalla sua lingua. «C-cosa vuoi?». A quella domanda, non seguì una risposta. Era stata ignorata dall'uomo, come se alle sue orecchie non fosse mai arrivata. «Jennifer, mia cara, ho una domanda da porti...». Lei deglutì, come se quella fosse l'ultima domanda rivolta a un condannato a morte.
«Secondo te, siamo uomini liberi in un mondo prigioniero o siamo schiavi in un mondo libero?». Per Jennifer, quella domanda non aveva alcun senso. Era come se le avesse chiesto se per lei fosse più buona da mangiare una moneta da cinquanta centesimi o da venti. «N-non credo di aver capito la domanda» borbottò Jennifer, ancora infreddolita, con una coperta marroncino chiaro addosso e i capelli spettinati, arruffati in un ciuffo indecoroso sulla fronte. L'uomo sorrise di nuovo. «Non importa. Pochi conoscono la risposta a questa domanda. Ora dormi, Jennifer». All'improvviso, la ragazzina si sentì come asfissiata. Qualcosa stava entrando nelle sue narici, come aria (un veleno) rarefatta in alta quota che riempie troppo poco d'ossigeno i polmoni. L'ultima immagine che ricordò prima di svegliarsi nel retro di un cellulare della polizia fu quell'uomo pallidissimo che le alitava in faccia, a bocca così aperta da riuscirgli a vedere le tonsille vermiglie, mentre le voci nella sala si facevano prima cupe, poi confuse e infine si spegnevano come fari d'auto inghiottiti dall'ombra.
Dapprima il buio tetro e l'assenza di suoni divennero una ferma immagine nella testa. Poi uno spiraglio, una sottile fessura di luce fioca, intorpidì l'immagine, prima sfocandola, poi delineandola come in una messa a fuoco. I raggi luminosi che filtravano provenivano dal sole che era ostruito da un mantello di nubi di passaggio che si addensavano numerose sul cielo cittadino. Il silenzio frattanto divenne lieve rumore di clacson e ruote che rotolano, mentre un acre odore di fogna si faceva largo nel naso della ragazzina. Intorpidita nei muscoli, sentiva la spalla e il fianco sinistro freddi e come poggiati su qualcosa di liscio e metallico. Ci mise parecchi secondi per rendersi conto di essere all'interno di un mezzo. Una delle ante del portello posteriore era aperta e dava visione del parcheggio sul retro della stazione. In piedi, un uomo con il capo chino stava digitando dei numeri sul tastierino di un telefono cellulare. Era Gus, che nonostante il fare concitato, si era accorto che la ragazzina era sveglia, non senza sorpresa.
«Ero convinto che la dose durasse almeno il doppio. Ma sono costretto ad ammettere che sei notevole. Stavo per venirti ad alitare di nuovo in faccia, ma mi hai preceduto». Mentre l'uomo s'infilava il telefono nella tasca, Jennifer, barcollante, scese dal mezzo, poggiando i piedi sull'asfalto. Sentiva le gambe pesanti, come se avesse corso molto ed era diventata fotosensibile. Portò una mano all'altezza degli occhi, per ripararsi da un flebile raggio riflesso su uno specchio di una volante parcheggiata poco distante. «Sei un folle! Come ti viene in mente di rapire una persona in una stazione di polizia!? Non lo sai che ci sono le telecamere!?» sbottò Jennifer, mostrando orgoglio e fierezza negli occhi. Ma quella luce si spense quando la ragazzina vide l'uomo grattarsi il capo con fare indifferente, come se ciò non lo toccasse per nulla. Poi capì il motivo.
«Jennifer, credi davvero che io sia così stupido? Le telecamere sono spente! Chi, secondo te, ha mandato un sms dal tuo istituto scolastico, facendo uscire prima il tuo patrigno dal golf club? Chi, secondo te, ha sussurrato all'orecchio del tuo compagno di raggiungerti alla fermata dal bus? Chi, secondo te, ha sussurrato, seduto accanto a tuo padre, sul sedile del passeggero parole disgustose? Chi!? Pensaci un po'... Tutto per mettere in moto la macchina della giustizia! E ora ritorna nel furgone! Se farai la brava, non sarò neanche costretto ad addormentarti, questa volta per un tempo più lungo. Molto più lungo».
Ora il tono dell'uomo, che prima aveva una punta di malsana allegria, era diventato serio. Troppo serio. Nonostante Jennifer in un primo momento fosse rimasta scossa, come se avesse preso un pugno in pieno stomaco, non vacillò. Aveva intuito che l'uomo nascondeva un qualche potere. Era un mutante. Ma aveva già vissuto fin troppe disavventure quella giornata ed era ancora più irascibile. Senza indugiare e senza alcun preavviso, allungò il braccio verso l'uomo, a palmo aperto. Un turbinio imperversò in linea retta, colpendo quell'uomo in pieno. Sollevò le braccia all'altezza della testa incrociandole, mentre fece lo stesso con le punte per far leva con il peso sul terreno. L'onda d'aria lo fece indietreggiare di poco più di un metro, strisciando sul terreno sdrucciolevole, reso umido dalla pioggia che sembrava ora essersi arresa. Quando l'uomo sollevò lo sguardo, sembrò essere imbronciato e stufato, come a dire: «sul serio? Davvero vuoi combattere contro di me?».
Avanzò con fare deciso verso la ragazzina che ora sembrava colta di sorpresa e si agitava cercando di escogitare un buon piano per trarsi in salvo da quella situazione. D'istinto, quando l'uomo a suo modo di vedere si era avvicinato troppo, agitò il braccio come a volerlo schiaffeggiare. Il vento che ne derivò, però, lo arrestò ma non lo smosse per nulla. Jennifer ebbe la sensazione che l'uomo fosse diventato più pesante. Ma quello era davvero impossibile per la sua testa. Incapace di comprendere il trucco, comunque non si abbatté. Sferrò un secondo attacco, agitando l'altro braccio con un grido di furore. Paonazze erano diventate le sue guance e il fiato corto e concitato. Ma questa volta l'uomo si mosse. Molto. A tal punto da scomparire. Non c'era più. Per un attimo, a Jennifer sembrò che lo avesse fatto svolazzare via tramutandolo in una nube di sabbia. Ma anche questo le sembrava impossibile.
«Allora, ti arrendi o continuiamo così per tutta la giornata?». Quella voce familiare, che la fece trasalire, proveniva dalle sue spalle. Quando si voltò, vide lui seduto con il fondoschiena sul bordo del retro del mezzo, con una gamba sollevata e incrociata sull'altra. Come diamine ha fatto a finire dietro di me? Ma che razza di potere ha? «Chi sei!?» gridò lei, ora affranta e sempre più stanca, con il sudore che le grondava dalla fronte. «Chi sono?» sorrise l'uomo. «Nessuno in particolare. Sono solo un umile servitore che ha visto la luce. Ma se proprio vuoi darmi un nome, allora, chiamami "L'Albino"». In una frazione di secondo fu buio.
Un'immagine nera si palesò innanzi ai suoi occhi. Prima una spinta, seguita da una mancanza d'equilibrio. Ora la testa era fredda e dolorante, immersa in parte in una sporca pozzanghera. Una mano forte e asfissiante le oscurava il volto, impedendole di respirare. Provava a scalciare, con la schiena intorpidita sul ruvido cemento, e con le mani provava a sciogliere la morsa dell'uomo. Ma la sua presa era assai vigorosa. Sentiva il suo palmo premerle contro il naso. La sua pelle odorava di muschio selvatico. Quell'odore sembrò all'improvviso amplificarsi. Divenne troppo forte, opprimente, nauseante. Frastornata e incapace di reagire, cadde in un sonno disperato e inevitabile. Ogni emozione, ogni sensazione cessò di essere. Solo il buio rimase, poi scene confuse, ombre di uomini che si muovevano e luci gialle e bianche. La prima immagine vivida che avrebbe rivisto, dopo un sonno che le parve eterno, sarebbe stata quella di un bianco soffitto. Il soffitto del dormitorio femminile di Primestone, dove aveva incontrato per la prima volta Taylor e Sophia e avrebbe cominciato la sua lunga epopea verso un micidiale terrore che sarebbe arrivato a toglierle il sonno.
Spazio autore
Abbiamo finalmente conosciuto la storia di Jennifer e di come sia arrivata a Primestone. In particolare, abbiamo scoperto che l'Albino, ossia colui che porta i giovani mutanti a Primestone, è Gus, tirapiedi di Mr. K. Detto ciò, vi aspetto con l'undicesimo capitolo. Tenetevi forte, perché il delirio sta per cominciare!
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