- INTERMEZZO III (Parte 1) -
Byjon City, novembre 2005
Solitudine. Una condizione così appagante alle volte e così triste per la maggior parte. C'è chi cerca la solitudine per scrivere un romanzo, c'è chi cerca la solitudine dopo una tormentata storia d'amore, c'è chi cerca la solitudine per avere un po' di tempo per sé, qualcun altro la cerca per completare un lavoro, c'è chi nasce solo e chi muore solo. La verità è che non siamo noi a cercare la solitudine. È la solitudine a cercare noi. Lei non chiede il permesso, è come l'ira o la felicità. Sfonda la porta e ci investe, impetuosa, inaspettata, ci cosparge, ci immerge, ci fa affondare e nulla possiamo fare. Non importa quanto ti sforzi. Alla fine, la solitudine ti trova e ti fa compagnia. E la solitudine era la condizione naturale di Jennifer. Un caldo abbraccio che coccola un neonato nella sua culla: Jennifer amava la solitudine. Jennifer ama e amerà ancora la solitudine. Silenzio ristoratore, nulla è più chiassoso della solitudine, nulla amplifica le sensazioni e i sentimenti più di lei. Nulla.
All'epoca, Jennifer Pittsburgh frequentava la Christian Middle School di Byjon City, città famosa per le sue industrie siderurgiche, fiore all'occhiello di tutta l'economia dello Stato fino alla fine degli anni Sessanta. Dopo i burrascosi anni Settanta, nella seconda metà degli anni Ottanta le industrie locali conobbero una miracolosa ripresa, grazie alla scoperta delle strabilianti facoltà dei diamanti alieni, formatisi in seguito alle piogge mondiali durate per settimane nel novembre del 1974. Però, dopo che i diamanti alieni furono banditi dal commercio nel 2002 a causa dei rischi della salute pubblica, la città era entrata di nuovo in una crisi economica e il numero di case sfitte e di vagabondi per le strade cresceva vertiginosamente.
Jennifer era solo una dodicenne, ricca e un po' snob, e non gliene importava più di tanto. Passava le sue giornate tra la scuola, i compiti e la musica, fiera del lettore mp3 che le aveva donato suo padre. Un regalo perché era stata una brava ragazza. E le brave ragazze vanno sempre premiate. In cambio, lei si preoccupava di mantenere intatto il segreto tra lei e suo padre. Quale modo migliore, se non aver nessuno con cui confidarsi? Se non sai con chi parlare, cosa racconti? A chi lo racconti? Un diario può farti compagnia, ma non saprà mai consigliarti. Solitudine. Una condizione così cara a Jennifer. Non aveva necessità di parlare con nessuno, perché non poteva parlare con nessuno. Amici maschi? Avrebbe ricevuto un bel po' di cinghiate dal padre e perché no, anche qualche pugno in faccia, giusto per farle restare nella memoria meglio impresso che certe cose non vanno fatte. Una ragazza che parla con dei ragazzi? Sacrilegio.
Precisiamo, non era esattamente il padre, bensì il patrigno, un certo Hugo Wyatt. Il vero padre di Jennifer morì per un tumore al cervello quando lei aveva sette anni e sua sorella Jaimie uno. Un paio di anni dopo, la madre di Jennifer, Alessandra, si risposò. Ma, per cause mai del tutto chiarite, dopo solo un anno di matrimonio, la vita della giovane donna si spense sul letto della camera padronale della grande magione, lasciando le due bambine in lacrime e disperate. Non altrettanto fece il patrigno. Jennifer ebbe addirittura la sensazione che, durante il funerale della madre, lui avesse abbozzato un sorriso quando aveva posto un fiore sulla tomba e non aveva certo esitato prima di sollevare il cumulo di terra con la pala e gettarlo quasi con irruenza sulla bara che lenta e silenziosa veniva calata nella fossa, traghettata verso l'eterno riposo. Erano solo sensazioni? Possibile che nessun altro dei presenti se ne fosse accorto? Forse se lo era solo immaginato.
Quell'uomo a Jennifer non era mai piaciuto e dopo la morte della madre era diventato un incubo. Qualche settimana dopo, si ritrovò nel letto del patrigno, nuda e abusata. E così sarebbe continuato per mesi, settimane. Passarono due anni e non passava notte, prima di addormentarsi, che il padre non le chiedesse di "coccolarlo". «Jennifer, tu sei la mia puttanella» le diceva sempre, con tale pacatezza e con voce così profonda da far trasalire un cadavere. Ipnotiche erano le sue parole, velate erano le sue minacce, come una persona che si nasconde dietro una tenda, ma concrete. Non vedi di chi si tratta nel cuore della notte, ma vedi una figura umana. «Non vuoi che qualcuno scopra qualcosa, vero? Sai che brutta figura faresti anche tu, vero Jennifer?». E lei, sola, nella grande magione della famiglia Pittsburgh da generazioni, la notte, prima di coricarsi, dopo l'ennesimo abuso del padre, piangeva. Alle volte si chiedeva perché a sua sorella non venisse torto un capello. E quando le capitava di fare quel pensiero, un conato di vomito l'assaliva e avrebbe voluto prendersi a calci da sola. Lei amava a dismisura la sua sorellina e mai avrebbe permesso che le succedesse qualcosa, ma alle volte la mente le giocava brutti scherzi, voleva che qualcun altro provasse il suo stesso dolore. Quando il suo flusso di coscienza cadeva sulla piccola Jaimie, lei avrebbe voluto sprofondare dalla vergogna e morire annegata, asfissiata come un pesce senz'acqua. Una volta provò perfino a tagliarsi i polsi con le lamette del padre, ma la vista di un rivoletto di sangue e l'idea di lasciare da sola Jaimie in balia di quell'orco le risvegliò l'istinto di sopravvivenza.
Così continuava a passare le sue giornate, noiose, guazzanti in una routine piatta e fetida, tra un libro di scuola, una canzone di Britney Spears e il pene del suo patrigno. Se non fosse stato per quell'orco, sarebbe stata la perfetta e noiosa vita di una ricca dodicenne, una sognatrice inguaribile, come tutti i ragazzini della sua età, pigra abbastanza da non fare il letto, ma energica abbastanza da combinare tutti i guai di questo mondo. Ma con Hugo in giro era impossibile. Per lei, lui era il Male. Il male, nella sua giovane e ingenua mente, era qualcosa di assolutamente tangibile, come un ladro che rapina un negozio o un uomo che picchia un altro uomo. Il suo patrigno era malvagio, perché abusava di lei. Pregava il cielo tutti i giorni affinché a Jaimie non toccasse la stessa sorte, e lo malediceva allo stesso tempo, sperando che gli angeli del Paradiso crollassero dai loro troni dorati e friggessero nell'Inferno buio e fiammeggiante. Perché nessuno mi aiuta? Perché?
Un giorno di metà novembre, la sua mente era presa da pensieri che la rendevano catatonica, sempre gli stessi, come il ticchettio del becco di un picchio che scortica il tronco della sua betulla. Immobile, se ne stava davanti alla fermata del bus, in piedi, aspettando che l'autobus arrivasse, con sguardo assente, come se le fosse stato appena fatto l'elettroshock. Si destò soltanto quando una voce, che prima sembrava lontana e ovattata, si fece insistente e sempre più limpida, come una barca che si avvicina alla costa. «Ciao Jennifer!». La ragazzina si voltò verso la sua destra e notò arrivare a passo svelto un ragazzino smilzo, con il completo blu della scuola che frequentava lei. Lo riconobbe ben presto: si trattava di Jack Jenner, un suo compagno di classe. Lei non era il tipo da legare con qualcuno e, per carità, neanche lo voleva. Ma la simpatia di quel ragazzino era difficile da evitare ed era impossibile frenare la sua lingua, parlava con tutti, anche troppo, così tanto che i bulli non disdegnavano di tanto in tanto a prenderlo di mira. Quei suoi occhietti blu brillarono alla luce solare, piccole gemme incastonate nel suo visino, ancora in bilico tra l'adolescenza e la preadolescenza. Un sussulto scosse Jennifer e un leggero calore avvertì alle guance. Era la prima volta che provava una simile sensazione e ne fu turbata non poco, come quando si ha il sentore di una malattia che ci sta per colpire e che ci costringerà a lunghi giorni di degenza.
Quasi come se fosse spaventata, fece un paio di passi indietro, ondeggiando la gonnellina della sua uniforme a righe blu e arancio. «Ciao Jennifer!». Quando le fu a una manciata di palmi dal volto, il ragazzo sorrise, obbligandola a ricambiare. «Ciao Jack!» rispose lei trillante, ma subito un gelido fermento le bloccò il fiato in gola. Qualcosa non andava. Era perché aveva salutato un ragazzo? No, non era solo per quello. Era come se si sentisse osservata, come quando il padre in piena notte le apriva la porta e restava per qualche minuto a masturbarsi, per poi richiuderla e andare in bagno. E lei faceva sempre finta di niente, voltandosi dall'altra parte non appena sentiva la maniglia girare. Quando il sonno era troppo profondo per destarsi, il mattino seguente si controllava il viso e poi le lenzuola. Fortuna voleva, che mai fino ad allora aveva varcato la soglia in piena notte. Forse, quello che le faceva prima di andare a dormire era sufficiente a placarlo. E come una mano posta sulla sua testa che voleva costringerla a voltarsi, stava per girare lo sguardo, ma la voce di Jack la distrasse di nuovo, ostacolando la sua morbosa ricerca.
«Jennifer, ho una sigaretta, ti va di fumarla?». «Io non fumo» disse chiudendo virtualmente la conversazione Jennifer e si voltò di nuovo verso la strada. Jack osservò i lineamenti così delicati del volto della ragazzina. Non ci volle molto affinché le sue guance diventassero vermiglie. Lui era innamorato di lei dall'inizio dell'anno accademico. Aveva sempre avuto una certa curiosità per quella ragazza. Così solitaria, così silenziosa, con quegli occhioni verdi, sempre a pensare chissà cosa, osservando le fumose nuvole fuori dalla finestra. Misteriosa. Bellissima. Era la più bella delle ragazzine della sua età, non solo della classe, ma forse anche di tutto l'istituto. Per via della sua bellezza e anche della sua ricchezza, non poche volte aveva attirato l'invidia delle altre compagne. Un giorno, le rubarono lo zaino e glielo imbrattarono di smalto. Jack ricordava alla perfezione di come il suo sguardo fosse in apparenza impassibile. Tutti credevano che fosse solo una gran stronza snob, che nonostante il torto ricevuto fosse troppo altezzosa per affrontare la feccia. In realtà non era così.
Jack aveva capito che dietro il pallore sfocato delle sue iridi, si nascondeva il mistero di una cupa tristezza, un segreto tenuto ben saldo nel suo animo e di cui con nessuno avrebbe voluto parlare. Fu nelle settimane e nei mesi successivi che le sue attenzioni divennero sempre più insistenti, fino a quando, verso la fine dell'estate, il primo giorno di scuola, Jack ebbe il fiato corto e le fiamme in volto, alla vista di Jennifer che saliva i gradini della scuola lenta, solitaria e triste. Un angelo caduto che non aspettava altro che le venissero restituite le ali. A quello pensava Jack, ammirando la bellezza di Jennifer. Ora si trovava a pochi centimetri da lei e aveva trovato il coraggio di raggiungerla e di parlarle. Lo aveva fatto altre volte, di sfuggita, ma mai da solo. Solo con lei. Cominciò a sognare a occhi aperti, imbambolato dalle sue stesse utopie come una droga zuccherata che passa prima per le vene e poi affievolisce i circuiti del cervello come spine che si scollegano, fino a renderlo impassibile, ubriacato da un incessante sentimento di leggerezza e passionale ossessione. Amore. La sua prima cotta.
«Guarda che l'altro giorno ti ho visto fumare nei giardinetti di fronte a scuola e ho visto anche che ti rimpinzavi di caramelle per pulirti l'alito» incalzò il ragazzo raggiante, come divertito dal goffo tentativo della ragazza di nascondere la verità. Jennifer arrossì, sia d'imbarazzo che di rabbia. Imbarazzo perché a lei non piaceva mentire, anche se lo faceva tutti i giorni, e rabbia perché odiava essere spiata. C'era già il padre a farle compagnia in tal senso e sebbene lui le dicesse che le brave ragazze non mentono, la costringeva comunque a mentire circa il fatto che abusasse di lei. Quindi, era una cattiva ragazza? O valeva solo a certe condizioni? Sta di fatto che la ragazzina, stizzita, corrugò il volto e lanciò scariche minacciose dagli occhi verso Jack. Il ragazzino ne fu colto quasi alla sprovvista, ignaro che potesse avere una simile reazione. E notevole fu la botta.
«Chi cazzo ti dà il permesso di spiarmi, sentiamo? Che sei, un cazzo di guardone? Non sono affari tuoi quello che faccio, capito!?». Stupefatto, Jack vide gli occhi di Jennifer patinarsi di uno strato di lacrime. Dapprincipio credette che sarebbe esplosa a piangere. Che idea geniale, il tuo primo approccio con lei è farla piangere, fantastico, sei uno stupido, pensò il ragazzino. Ma nessuna goccia fu versata. Con il dorso della mano, Jennifer si stropicciò gli occhi e si rimise a osservare la strada. Ora voleva davvero salire sull'autobus e andarsene. «Scusa» riuscì a biascicare Jack con un filo di voce, come se stesse annegando nel suo stesso impedimento. Chinò lo sguardo, incapace di osservare quelle perle verdi inumidirsi e il suo faccino carico di una recondita tristezza. Sapeva che non era del tutto colpa sua, ma sapeva anche che non poteva far molto. Fare breccia nel cuore della ragazza più misteriosa (e bella soprattutto) dell'istituto era una gran bella impresa. Il solo fatto di essere riuscito a trovare il coraggio di parlarle per più di cinque secondi fuori dalla classe era già un risultato storico, da annali del football, ma forse il suo tentativo amoroso stava già miseramente affondando come il Titanic. Partito con il migliore degli intenti, la sua goffaggine lo stava facendo precipitare senza ausilio di paracadute.
Calò il silenzio, interrotto di tanto in tanto dal rombo di scarico di qualche auto di passaggio, un disturbo desiderato, ma troppo momentaneo. Passò più di un minuto, prima che Jennifer sciogliesse le sue braccia conserte e si rivolgesse a Jack, perplesso e intento a fissare il grigio asfalto. «Passami una sigaretta». Jack, come se fosse stato buttato giù dal letto alle prime luci dell'alba, come un pagliaccio che tenta di tirare fuori dei palloncini dalle sue tasche, infilò un paio di dita sul retro dei calzoni e tirò fuori un pacchetto schiacciato di sigarette, così sgualcito che sembrava fosse passato sotto un treno. A Jennifer venne quasi da ridere, ma si trattenne. Cazzo, speriamo che siano ancora buone, pensò Jack. Con precisione chirurgica, riuscì a estrapolare un tubicino di tabacco dal pacchetto e a porgerlo a Jennifer. La ragazza non allungò le mani, ma poggiò direttamente la bocca sul filtro. Un formicolio allo stomaco strapazzò il ragazzo. «Accendi?».
Dapprima, le parole morsicate di Jennifer gli sembrarono una lingua straniera, poi tornò alla realtà, quando capì che stava chiedendo l'accendino. Lo estrasse con altrettanta concitazione e azionò la rotellina. Un paio di tiri e la sigaretta fu accesa. L'ultima sigaretta fu del ragazzo. L'accese e insieme si misero a fumare, in quella deserta fermata di quella deserta strada. «Scusa per prima, ho reagito male. È solo che se il mio patrigno mi scoprisse a fumare, sarebbe un guaio, capisci?». L'enfasi con cui Jennifer aveva caricatola parola "guaio" non piacque molto a Jack. Però, preferì non insistere in alcun modo visto lo scatto d'ira precedente e si limitò ad annuire. «Be', hai ragione. Anche il mio vecchio me le suonerebbe se sapesse che fumo. E mia madre sverrebbe probabilmente». L'immagine di sua madre che lo scopriva per poco non lo fece scoppiare a ridere. Poi si ricordò che Jennifer aveva perso la madre, così almeno si diceva in giro. Si girò di scatto verso di lei. I loro sguardi s'incrociarono. Lei lo stava fissando. Enigmatici erano i suoi pensieri, in quel lago limpido e pallido, privo di turbamento, così manchevole che dava il giramento di testa. Troppo misterioso. Solo un improvviso risolino placò il ragazzo, che ricambiò a sua volta sorridendo. «Qualche volta ti devo invitare al cinema. Ti piacciono gli horror?» proruppe il ragazzo, preso come da un'enfasi fulminante. Solo la frazione di secondo successiva si rese conto di quanto potesse essere imbarazzante e forse troppo diretta quella richiesta. D'altronde si conoscevano appena. Jennifer lo guardò stranita e le guance, prima esangui, si colorarono di un vivido rosa, tendente al rosso. Jack sgranò gli occhi e agitò le mani in direzione della ragazza come a volersi scusare.
«Cioè, intendevo non noi due soli, ma con tutti gli altri della classe, cioè... non proprio tutti, solo i miei amici e solo se ti piacciono!». Il tentativo di correzione di Jack fu così dolce e goffo che a Jennifer venne una voglia inspiegabile di abbracciarlo. Era sincero. Era un bravo ragazzo. Mentre lei era una cattiva ragazza, la puttanella del suo patrigno. L'avrebbe di sicuro rovinato. Il suo sorriso si oscurò quasi subito, come una luce troppo fioca per farsi strada tra le tenebre. «Vediamo che si può fare. Sarebbe divertente». La ragazzina provò a rilassare il volto e Jack sembrò calmarsi. Era contento, perché non gli sembrava una netta chiusura, né aveva accampato scuse. Proprio in quel momento, l'autobus arrivò. Jennifer non aveva ancora finito di fumare, ma decise di gettare il resto della sigaretta a terra, schiacciandola appena con la suola. Proprio come una cattiva ragazza. Solo salendo sull'autobus si rese conto di quanto fosse rude quel gesto e che avrebbe potuto fare brutta figura con Jack. Ma a lei alla fine cosa importava? Lungo la strada, si sarebbe resa conto che le importava eccome. E quel sentimento la fece stare parecchio preoccupata.
«Tu non sali, Jack?». «No, io prendo il prossimo». Jennifer gli sorrise e si mise l'indice sul naso. «Bugiardo, tu non prendi l'autobus». A quelle parole, Jack divenne paonazzo e raddrizzò la schiena come se avesse appena ricevuto uno schiaffo. Al contrario, Jennifer si mise a ridere, portandosi la mano sulla bocca. La sua risatina fece fiammeggiare ancor di più il ragazzo. «A domani, Jack» lo salutò lei, facendo un gesto con la mano. Il ragazzino ricambiò. «A domani, Jennifer. Buona giornata». La gentilezza con cui concluse la frase il ragazzino fece sciogliere Jennifer come un cubetto di ghiaccio lasciato sul davanzale in una giornata estiva. Era ignara del fatto che il giorno dopo non lo avrebbe rivisto. Nemmeno nei giorni e nei mesi successivi. I loro sguardi sembravano essersi catturati a vicenda come due magneti. Un qualcosa di etereo aleggiava nell'aria, come un presentimento di un avvenimento che avrebbe cambiato i piani dei due ragazzini. Così vivida fu quella sensazione che, quando le porte dell'autobus si chiusero, i loro volti sprofondarono nella tristezza, come consapevoli che quella promessa non sarebbe mai stata mantenuta. Ormai era troppo tardi. Il destino aveva posizionato i binari in una certa direzione e la retromarcia era stata disinserita, ora e per sempre. Quando l'autobus sparì all'orizzonte, un profondo senso d'angoscia prese per il collo Jack, quasi a soffocarlo. Stai attenta Jennifer, stai attenta.
Quel pomeriggio, il suo patrigno non era al solito club di golf con gli amici. Aveva deciso di andare a prendere la figliastra, ma l'aveva vista davanti la fermata a centocinquanta metri dalla scuola, a fumare e a parlare con un ragazzo. A fare la gatta morta con un ragazzo. Gli aveva sorriso. Era forse il suo fidanzato? Questi e altri pensieri centrifugavano come panni logori nella mente di Hugo, che aspettava la figlia seduto sulla poltrona del soggiorno, in penombra, con occhi accessi e brillanti come lingotti d'argento. Quando rincasò, Jennifer notò il luccichio di una bottiglia di Jack Daniel's sul tavolino davanti alla poltrona, su cui il patrigno poggiava i suoi piedi con le scarpe slacciate. La sua figura era grottesca e distorta dal buio e i suoi occhi tristi e mortali sferzavano fino ai suoi, come a volerla fustigare con il solo sguardo. Un orrido stupore le fece contrarre il petto. Qualcosa di davvero brutto stava per accadere.
Frattanto, un lampo illuminò la stanza, facendo trasalire Jennifer alla vista della mostruosa figura del patrigno fatalmente adagiato su quella poltrona, come un orco che nella sua tana aspetta l'ora della mattanza. Un grido di paura le fu strappato dal petto, sferzando nella stanza e rintoccando come se l'intera casa fosse spaventata insieme a lei, in un'eco di strilli che si rincorrevano tra di loro, come segugi che inseguono le loro prede. «L'ho sempre detto, Jennifer, che tu sei una puttanella» le disse. «Ma ti ho anche detto che tu sei la mia puttanella. È vero o non è vero, Jennifer?». «Papà... non capisco di cosa stai parlando». Lui si alzò e andò lentamente verso di lei, con un'espressione aggrottata, pensierosa... tetra. Il suo alito alcolico già infestava l'aria, come se andasse a braccetto con i suoi stessi fetidi pensieri. Nei suoi occhi appena lucidi, venuzze dilatate sembravano ristagnare come un riverbero nell'acqua opaca di un lavabo pieno di sporcizia. Con la lingua s'inumidiva le labbra, come se la rabbia gliele avesse fatte inaridire. Abbassò gli occhi verso la figliastra. Ora avvertiva il leggero tanfo di tabacco bruciato provenire dai suoi vestiti e a niente erano valse le sei mentine che aveva mangiato. Il suo piano era quello di cambiarsi e di fare subito il bucato, così che il padre non se ne sarebbe accorto.
Ogni mattina e fino a ora di pranzo, un paio di domestiche pulivano la casa, mentre per il resto della giornata era Jennifer a occuparsi di tutto, della cena così come del bucato. Hugo non voleva nessun altro in casa. Jennifer era la sua donna. Fin da bambina, lei aveva indugiato pensierosa e perplessa nello sguardo del padre, così strano, morboso nei suoi confronti, come un bambino che osserva la vetrina di un negozio di dolciumi. Quel pensiero le risalì alla mente come una fucilata, un fulminante orgasmo, come quelli che provava di tanto in tanto quando suo padre faceva sesso con lei. Dio mio! Papà sta sentendo la puzza di fumo e...
SBAM!
La sua mano compì un'ampia e scattante parabola che la colpì in pieno volto. Crollò a terra, battendo la testa, come abbattuta da un'autentica mazzata. Lui s'infilò le mani nella tasca e la osservò con un'espressione di mortale curiosità, angosciante e spasmodica. Lei si sentì un violento tremolio sulla guancia e un forte calore alla testa. «Ti ho visto fumare... e ti ho visto fare la puttanella con un maschietto». Jennifer lo fissò negli occhi (omicidi), aspettando che aggiungesse qualcosa. Ma sembrò limitarsi a quelle sole parole per il momento. Lei con un filo di voce tremula disse: «papà, che cosa vuoi dire?». «Jennifer... ti ho visto fumare e su questo non puoi mentirmi. Ora però vedi di raccontare al tuo papà cosa fai con quel ragazzino... se mi menti, Jennifer, passerai un brutto guaio, puttanella mia prediletta» la minacciò lui e lei si accorse con orrore che i suoi occhi pesanti non la stavano fissando. Erano attoniti e privi di scintilla vitale, fissi sulla cristalliera del soggiorno, in uno spirito di contemplazione persa.
In quell'attimo, la sua mente sbandò e si ricordò della notte precedente, di come l'avesse afferrata mentre si faceva la doccia. E della sera precedente, nella lavanderia, con lei distesa sulla lavatrice in funzione. E delle sere prima, e di nuovo si ricordò dei suoi occhi vitalizzati da una spaventosa curiosità, mentre da bambina la fissava giocare con le sue bambole, quando la madre era ancora in vita. Avvertiva ancora il freddo che calava su di lei, eterno e orrido, quando solo l'infinito amore materno la calmava a la rincuorava. Mamma, perché non ci sei più? Perché non sei qui come me? «Papà, ti prego... io non voglio mentirti, non ti mentirò» disse lei balbettando, con un filo di voce e un principio di lacrime che fecero scomparire la sagoma del patrigno. Pretendeva di essere chiamato "papà", e mai per nome, pena un ceffone. «Ti sei fidanzata, Jennifer? Hai fatto sesso con quel ragazzino? Da quanto tempo lo conosci?». Il cuore le salì in gola. Provò a biascicare qualche parola, ma un farfuglio incomprensibile prese il sopravvento, pensieri aggrovigliati che uscivano come parole ancora più contorte, come quando si sbagliano troppe strade e alla fine si è fuori direzione.
SBAM!
La mano pesante, ruvida e callosa calò di nuovo sul suo volto, nemmeno pochi secondi dopo che s'era rimessa in piedi. Jennifer lanciò un grido di dolore e paura. Ciò che era peggio era che continuava a non guardarla, come se la sua mente cercasse di trattenere un pensiero (omicida) furioso, un leone in gabbia che si dimena alla vista della carne fresca. Quell'espressione la stava spaventando a morte. «Cosa gli hai fatto, Jennifer? Vi siete fermati ai preliminari? Gli hai fatto solo un pompino o siete andati oltre?». «Papà basta, è solo un compagno di scuola, non c'è nulla tra me e lui. Abbiamo solo parlato». «E FUMATO!» strillò lui con tanta foga che Jennifer ne fu scossa fino alle spalle, gridando in modo sommesso. «Abbassati la gonna, Jennifer! Devi capire chi è il tuo padrone qui! Ti sei fatta inquinare, vero!?». La mano si alzò di nuovo e Jennifer si ritrasse sempre più spaventata. «Io ti do tutto Jennifer, tutto quello che vuoi. E tu come ricambi!? Succhiando il cazzo a un moccioso!?».
Ora un fotogramma pazzesco e lucido assalì il suo campo visivo: era suo padre che le sfilava la gonnellina, lasciandole solo le mutandine. Jennifer dapprima inciampò, poi cominciò a correre. Frattanto, suo padre con passo pesante cominciò a rincorrerla, urlando parole feroci: «Sei una puttanella, Jennifer! Sei una puttanella! Lo sapevo che alla fine ti saresti fatta scopare da altri! Puttanella!!!». La sua mano questa volta cercò sull'orlo delle sue mutandine e la sballottolò all'indietro, la rigirò e la sollevò in braccio, stringendola con le sue braccia muscolose e pelose e avvicinandola al suo grosso e duro ventre. Jennifer sentiva l'erezione del patrigno premerle contro il pancino. La stringeva come una furia e lei gridò. Ciò che ora vedeva nei suoi occhi la terrorizzò a morte. Gli occhi del patrigno sembravano assenti. Vuoti. Sembravano essersi diluiti in un vasto mare di nullità, come aria che si disperde in altra aria. La sua ragione aveva smesso di funzionare. Puro istinto ora muoveva il corpo del patrigno. In uno scatto d'ira, la spinse contro la parete, facendola urtare e cadere con un gemito di dolore. Rovesciandosi sulla schiena, strisciò disperata sul sedere, aiutandosi con i talloni, mentre il patrigno si avvicinava minaccioso verso di lei.
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