20 ottobre 2006
Devo scriverlo. Devo a ogni costo scrivere quello che è successo lunedì scorso, altrimenti impazzirò. Se non lo dico a qualcuno, lo devo scrivere, per forza, non c'è altro modo. Jennifer non verrà più alle sedute, per fortuna! Non voglio più avere niente a che fare con questa storia! È tutto vero? Fanculo, non m'importa! Ho conosciuto anche quel Sam di cui tanto parlava. Se l'è portata via. Dopo essermi ripreso, ho chiamato Millie. Mi ha detto di non essere d'accordo, ma che solo Jennifer può decidere e che si fida di quell'uomo. Era iniziata come una normale giornata, è finita con il peggiore degli incubi. Mi ero svegliato una decina di minuti in ritardo (quella maledetta sveglia, non mi deciderò mai a cambiarla, ha un suono che per sentirlo ci devi spiaccicare l'orecchio vicino), mi sono preparato il solito cappuccino, un paio di fette biscottate con marmellata di ciliegie e un uovo sodo. Sono comunque riuscito ad arrivare in tempo allo studio. Un'altra giornata di pioggia a GNC. Sono cominciate in anticipo di qualche settimana e ce le porteremo dietro fino alla fine di marzo, con dicembre e gennaio che saranno bianchi come al solito. Quest'anno si prevede peggiore dello scorso. Ecco, già sto divagando... dicevo, il primo paziente era proprio Jennifer. Me la ritrovo di buon'ora sulla panca davanti alla porta d'ingresso del mio studio. Quel giorno avevo deciso di sottoporla a una seduta d'ipnosi regressiva e di farmi raccontare il suo sogno. Millie l'aveva portata lì presto perché oggi era più impegnata del solito. Un piccolo e candido uccellino, sembrava una bambina indifesa. Aveva nero sotto gli occhi e intorno al muso. Quel lucidalabbra non faceva altro che risaltare ancora di più quel colore malato, sintomo di una stanchezza fisica e soprattutto interiore ai limiti della sopportazione umana.
Appena l'ho vista, mi sono chiesto come fosse possibile che si reggesse ancora in piedi. Le ho chiesto: «Jennifer, quanto hai dormito da quando ci siamo visti l'ultima volta?». Lei alza la testa fiacca, come se avesse avuto una fune con un masso attaccato al collo, e mi fissa negli occhi. Mi ha fatto una tenerezza che volevo abbracciarla, ma sarebbe stato poco professionale, anche se con questo caso l'ortodossia è servita a ben poco. Mi fa: «credo tre ore in tutto, dottore...». Me lo dice con le lacrime agli occhi, piccoli e lucidi, quel verde dell'iride si stava ingrigendo seduta dopo seduta. Mi è preso un lampo. Mi ha fatto pensare a una vita che piano piano si spegne, che da un momento all'altro avrebbe chiuso gli occhi per non aprirli mai più. Mi stava chiedendo aiuto con gli occhi. La paziente è sempre stata timida, schiva, frastornata, tipico delle persone che hanno qualcosa di cui si vergognano, qualcosa da nascondere. Quel giorno, per la prima volta, ho visto la resa nei suoi occhi. Si è arresa a un estraneo. Per lei deve essere stata una sconfitta assoluta, una sconfitta disonorevole, ma era così vicina al burrone che ha preferito chiedere aiuto.
L'attaccamento alla vita degli uomini è davvero strabiliante, molto più di quello che si pensi. Vedevo sgretolarsi davanti ai miei occhi, in pochi momenti, lo scudo, la barriera che aveva innalzato fin dal primo giorno nei miei confronti. Mi ha rincuorato il fatto che l'avrebbe sollevato con chiunque, ma il fatto che si sgretolasse più per una sua resa che non per le mie capacità sapeva di sconfitta personale. Le ho chiesto se volesse qualcosa, ma lei mi ha risposto che aveva mal di stomaco e nausea. Aveva un vestito lungo color panna con sopra disegnate delle fragole. L'ho fatta sedere. Non ha voluto nemmeno un sorso d'acqua. Io all'inizio pensavo di girarci intorno. Volevo prepararla in qualche modo, ma ho visto che mancava di concentrazione. La sua voce era fioca, rispondeva in modo poco reattivo alle domande e agli stimoli visivi (le ho sventolato un fazzoletto rosso in faccia e se n'è accorta dopo quasi dieci secondi) e il suo sguardo era perso, fissava il quadro raffigurante Poseidone che ho nel mio studio. Così ho deciso di andare subito dritto al punto.
L'ipnosi regressiva consiste in un primo momento nel depotenziare nel soggetto la relazione che quest'ultimo ha con l'ambiente esterno. Non è consigliato utilizzare tale pratica sui minorenni, ma Jennifer nel corso delle varie sedute mi è sembrata molto predisposta a questo tipo di trattamento. Poi, se è davvero una telecinetica, figurarsi l'effetto amplificatore che può avere su di lei. Non nego che anche dal punto di vista medico sono stato molto stuzzicato dall'idea. Un po' me ne sono vergognato, ma è come chiedere a un pilota di non gioire nel provare un nuovo modello di ipercar capace di superare i cinquecento orari. Il termine "regressivo" sta a indicare l'intenzione di stimolare nel soggetto in trance la capacità di ricordare esperienze rimosse dal conscio facendo regredire il soggetto in uno stato ipnotico. Bisogna porre il paziente in uno stato di dormiveglia riposante, tramite una serie di suggestioni di stanchezza e di sopore. Dopo aver fatto ciò, si passa alla regressione vera e propria. Io volevo cercare di capire se quel suo sogno ricorrente fosse un modo della sua mente di seppellire altri ricordi, magari assai brutti e di avere ulteriori conferme circa la veridicità del racconto della ragazza. L'ho fatta distendere sulla poltrona a lettino del mio studio e le ho detto: «Jennifer, ora inizieremo una seduta d'ipnosi. Sta' tranquilla, non farà male e non devi avere paura. Ti chiederò di raccontarmi il tuo sogno, quello che mi dici di fare spesso, ma prima devi seguire delle semplici regole. Sei pronta?». Lei si limitava ad annuire.
Iniziavo a dubitare anche del fatto che capisse davvero ciò che le stavo dicendo. Avrei voluto non iniziarla proprio la seduta, ma la mia razionalità mi diceva che da lì in avanti la situazione non avrebbe fatto altro che peggiorare e che, se non avessi fatto nulla, quella ragazza sarebbe rimasta in qualche modo "esposta". «Bene Jennifer, ora chiudi gli occhi e ascolta solo la mia voce. Non pensare ai rumori della strada o alle lancette dell'orologio, concentrati solo sulla mia voce». Lei ha eseguito il comando senza opporre alcuna esitazione. Era stremata e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di liberarsi di quel mostro che la stava logorando dall'interno, come un topo che rosicchia dei cavi elettrici all'interno di un muro e lo si scopre solo quando l'impianto è andato in cortocircuito. «Jennifer, ora il tuo corpo è molto pesante. Prima le gambe, poi le braccia e infine la testa. Diventeranno molto pesanti e non potrai più muoverti, ma tranquilla, serve solo per riposare. Ascolta la mia voce Jennifer, ora sei pesante e hai tanto sonno, tantissimo sonno, ma non mi lasciare, perché ho delle domande da porti». Lei sembrava assopirsi, come se del gas le stesse con fiacchezza fluendo negli alveoli. «Ora conterò fino a cinque. Quando avrò finito, tu ti ritroverai catapultata nel tuo sogno ricorrente Jennifer, ma non ti sveglierai. Non perderai mai il contatto con la mia voce, io sarò al tuo fianco tutto il tempo. Resterai lì e mi dirai ciò che vedi, ok?». Lei mi rispose con un filo di voce: «d'accordo».
«Uno, due, tre, quattro e... cinque». Glielo dico sussurrandole all'orecchio. Sembra aver funzionato. Noto piccoli movimenti involontari del petto e la respirazione che accelera di poco. Lo stomaco le si gonfia un pochino. «Jennifer, ora parlerai tu. Sei nel sogno? Cosa vedi?». A quel punto lei inizia il suo racconto. Mi sono premunito di una videocamera, così da poter ascoltare e rivedere la seduta più e più volte, in maniera tale che nessun particolare o messaggio nascosto mi potesse sfuggire. L'avrò riascoltato e rivisto almeno sei volte quel filmato, ma non riesco a decifrarlo, perfino per essere un sogno ha poco senso. Questo è ciò che mi ha detto:
«è buio».
«Cosa vedi a parte il buio? Senti qualcosa?»
«No, non sento niente. Ma vedo il mio corpo. Mi sto muovendo, sto camminando, come se sapessi dove sto andando».
«Perfetto Jennifer, vai tranquilla, quando vedi qualcosa dimmelo. Asseconda il sogno, non spaventarti, io sarò sempre al tuo fianco».
La vedo sospirare per qualche secondo e poi mi fa, un po' spaventata: «c'è una porta di legno».
«Una porta di legno?».
«Sì, ma come quelle che si vedono nei film western. Sto entrando, sento... c'è gente!».
«Gente? Riconosci qualcuno Jennifer?».
«No, i loro volti sono sfocati, ma sono vestiti da cowboy, ne sono sicura».
«Bene Jennifer, stai andando benissimo. Ricorda, sarò sempre al tuo fianco. Procedi piano, non avere fretta».
Sembra calmarsi nella voce, prima era più tremolante: «mi dirigo verso il bancone. C'è gente seduta e... c'è uno sgabello vuoto, sento che devo sedermi lì».
«Bene Jennifer, ora che fai?»
«Sto andando a sedermi, ma... ho paura».
«Perché hai paura, Jennifer?».
Vedo che trema e si asciuga le labbra con la lingua. Respira in modo più affannoso. «Alla sinistra dello sgabello vuoto, c'è seduto qualcuno. Ma è strano... non mi sembra cattivo, anzi mi sembra buono, però...». Si ferma per qualche secondo. Sembra che non sappia come continuare.
«Però cosa, Jennifer? Ricordati, è solo la tua mente, nessuno può farti del male davvero» la tranquillizzo io.
«Dottore?».
«Sì, dimmi Jennifer».
«Quello che sta seduto allo sgabello... è forte».
«In che senso è forte, Jennifer? Come fai a capire che è forte? È muscoloso?».
La vedo ondeggiare la testa prima a destra e poi a sinistra, come a cercare di capire ciò che stava osservando, a scrutare meglio quell'immagine nella sua mente.
«Sta seduto su uno sgabello da bar di legno, ma è così grosso che dovrebbe rompersi... ha un'armatura d'oro!».
Resto basito. «Ha un'armatura d'oro?».
«Sì» mi risponde convinta lei. Sorride. «È enorme, sarà più di quattro metri e ha un'armatura d'oro addosso, con delle lunghe punte alla schiena. Sembra medievale, ma è più moderna. Ha dei simboli che non riesco a riconoscere e ha delle striature che s'illuminano di rosso».
«Ok, Jennifer, cosa fai ora?».
«Ho un po' timore, ma mi siedo accanto a lui. Non proprio paura, è solo che la sua forza mi mette in soggezione. Non so spiegare in che senso sia forte, ma mi sembra uno contro cui è meglio non combattere. Sento autorevolezza nella sua presenza. Il volto...».
A quel punto mi lascio un po' prendere dalla curiosità. «Com'è in volto, Jennifer?». La vedo un po' scossa, fa un paio di piccoli sussulti, al che le faccio: «stai tranquilla, dimmi le cose con i tuoi tempi. Ricorda, ascolta solo la mia voce. Io starò sempre al tuo fianco. È solo il ricordo di un sogno, Jennifer».
Lei annuisce e sembra calmarsi. «Non... non riesco a vederlo in volto. È oscurato».
«In che senso è oscurato?»
«È come in un manga. Ha presente quando appare un nuovo personaggio e si colora di nero il volto per non far vedere l'aspetto? Ecco in quel modo».
Dopo quella seduta ho fatto delle ricerche e ho capito cosa intendeva Jennifer. Non sono ferrato su manga e fumetti, lo ammetto. «Bene Jennifer, continua, cosa vedi? Cosa fai?».
Resta in silenzio per un po'. «Mi sono seduta accanto a lui. Mi sono accorta che anche io sono vestita da cowboy. Dietro al bancone c'è uno specchio...». Trattiene il respiro.
«Cosa c'è Jennifer, tranquilla, sono con te!» esclamo io.
«Sono... sono bella. Ho un cappello da cowboy in testa, beige. E una giacca di jeans blu. Sono bella, dottore».
«Mi fa piacere, Jennifer».
Lei fa un risolino. «Oddio!» prorompe.
«Cosa succede, Jennifer?»
«Il tizio che serve da bere dietro al bancone... è un polpo».
«Un polpo?».
«Sì, un polpo! Ha una camicia bianca, la cravatta rossa e un gilet nero. È grosso e viola... mi fa ridere».
Sorrido anche io. «Jennifer, stai andando benissimo. Non fermarti, continua a descrivermi ciò che succede, ciò che vedi, ciò che senti».
Lei prende un grosso respiro e sembra adagiarsi ancora di più sul lettino. Mi sembra un gattino stanco che sta trovando riposo.
«Ci serve da bere. Roba verde non so cosa sia. Lui la beve in un sorso, io invece no. Non mi piace. Oh... mi sta parlando?».
«Chi ti sta parlando?».
Conoscevo già la risposta. «Il tizio con l'armatura d'oro. Ora ho capito. È un alieno».
«Perché pensi che sia un alieno?».
Lei corruga la fronte, incurvando le labbra. «Parla una lingua che non ho mai sentito. È tutta gutturale, piena di consonanti, però... però lo capisco».
«Conosci la lingua?»
«No, però quando mi arrivano all'orecchio, quelle parole mi sembrano familiari, è come se si trasformassero in vocaboli che conosco...».
«Ti ha detto per caso il suo nome? Cosa ti dice?».
«No, non mi ha detto il suo nome. Mi sta dicendo che è preoccupato perché la Stanza Abissale potrebbe aprirsi. Se l'Oggetto dell'Esistenza dovesse essere usato in modo errato, la volta celeste sarà distrutta dalle Nere Minacce e Lui divorerà il tutto in una...». Si blocca. Inizia a tremare. Sbianca.
«Jennifer. in cosa? Cosa ti ha detto?».
Deglutisce. «Divorerà tutto in una danza... balleranno tutti e sarà...».
«Un'orgia senza fine» concludo io in modo inavvertito. Lei si blocca. Devo averle trasmesso la mia paura. In quello stato, è facile che lo psicologo influenzi con falsi ricordi o false sensazioni le sue memorie. Dovevo essere più attento. Cercai di tranquillizzarla di nuovo. «Stai tranquilla Jennifer, va tutto bene. È solo un sogno, un ricordo, nessuno ti farà del male. La tua mente viaggia, ma tu sei qui con me e io sarò sempre accanto a te, non ti succederà nulla. Continuiamo per favore». Lei annuisce e le rughe che si erano formate sul suo pallido volto, si distendono. La tensione cala per fortuna.
«Ci stiamo alzando, io e lui e stiamo uscendo dal locale... siamo usciti... vedo...». Non continua più.
Decido di spronarla. «Cosa vedi, Jennifer?».
Lei si riprende. «Vedo... nero... tutto buio, però non ho paura. Lui è forte, mi trasmette timore, ma anche sicurezza. Sento il ferro della sua armatura sfregare tra le giunzioni delle sue articolazioni. I suoi passi sono pesanti. Sembra stia camminando un elefante. Sto seguendo lui...».
«Dove ti sta portando Jennifer?».
«Non lo so, ma mi sta parlando di nuovo, mi sta dicendo che... dobbiamo trovare la Signora Gentile... solo lei può aiutarci a sconfiggere Lui».
«Jennifer... "lui" sarebbe quello là?».
Scuote la testa. «No, è più... è qualcosa che sta sopra, è più importante...».
«D'accordo, continua».
Altro sospiro. Muove il naso come se volesse starnutire, ma non lo fa. «Sento bagnato sotto i piedi. Gli stivali stanno diventando umidi. Lui è pesante e fa schizzare le goccioline sui miei pantaloni. Qualcuna mi arriva anche sulla giacca e sulla fronte». Le si blocca il respiro ancora.
«Jennifer, cosa succede? Cosa vedi?».
«C'è una porta. Lui mi dice di non aprirla. È enorme, sarà alta come un palazzo di dieci piani. È rossa e sopra c'è disegnata una specie di croce, ma in alto ha una linea curva che si chiude». Dalla descrizione m'è sembrata una croce egizia. «C'è scritto qualcosa in alto...».
«Cosa c'è scritto, Jennifer?»
«C'è scritto... "quello là"».
Un brivido di freddo mi ha percorso tutto il corpo. Avevo la pelle accapponata. L'istinto mi diceva di smettere in quel preciso momento la seduta e di non farmi dire il resto del sogno. Avrei dovuto dar retta a quella voce, ma non l'ho fatto. Ero così vicino a scoprire cosa significasse quel sogno... sogno... sono sincero, non mi è mai parso un sogno... ho avuto sempre la sensazione, per tutta la seduta, che mi stesse facendo una... premonizione... quella è la parola giusta, "premonizione". Mi sembrava che stesse raccontando qualcosa che sarebbe successo. Non ho mai provato una simile sensazione prima. È difficile da descrivere a parole. Era come se qualcuno ti stesse dicendo di che morte morirai. Conoscere il futuro. Quasi nessuno ci pensa: conoscere un evento di là da venire dà un senso di completezza, ma allo stesso tempo lascia un vuoto. Mi sentivo vuoto, come se fossi stato privato di qualcosa, qualcosa che sarebbe dovuto ancora succedere. È come sapere che un giorno comprerai una casa, ma scopri che quella stessa casa è stata incendiata. Una casa che ancora che non è tua, ma sai che, prima che ne diventerai il proprietario, sarà distrutta. Lo so, non ha senso, ma credetemi, ce l'ha eccome. È così che ci si sente. Non basterebbero mille parole, mille esempi. Inadeguatezza. Vuoto e inadeguatezza, come se non fossi mai abbastanza per comprendere, non fossi mai abbastanza per capire. Come in una foto dove vedi solo gli spigoli e qualche dettaglio, ma l'immagine completa poi ti sfugge. Non riesci a vederla. Te la descrivono, ma tu non la vedi e non puoi fare niente per ovviare a quella condizione di parziale cecità... sono passati quasi venti minuti e non riesco a concludere il diario.
Quando mi ha detto cosa c'era scritto su quella porta, mi è sembrato che il mondo si fermasse. Stavo andando incontro a qualcosa che era al di fuori della mia portata. Io lo sapevo, ma le ho posto comunque la domanda: «cosa fai ora, Jennifer?».
«Sto aprendo la porta. Ho paura. Lui mi dice di non farlo, ma io lo sto facendo. "Quella è una Nera Minaccia" mi dice. "Non aprire quella porta" mi implora. Ma io la apro lo stesso e...».
Comincia a piangere. Cerco di consolarla. «Jennifer, stai tranquilla, io sono con te, nessuno ti farà del male. Ascolta la mia voce».
Smette di piangere e poi mi fa: «dottore, mi dispiace».
«Per cosa, Jennifer?» le chiedo con timore.
«Mi ha presa...».
Spalanco gli occhi. «Jennifer, chi ti ha preso? Chi ti ha preso?». Capisco che c'è qualcosa che non va. Sembra andare in preda alle convulsioni e inclina la testa all'indietro, inarcando le spalle e la schiena, sollevando il busto. Mi rendo conto di dover terminare la seduta. Solo qualche secondo dopo mi sarei accorto che era troppo tardi.
«Ok Jennifer, ora ci svegliamo. Ora il tuo corpo diventa più leggero. Prima la testa, poi le braccia e infine le gambe. Farò il conto alla rovescia e quando batterò le mani, tu ti sveglierai e tornerai a me. E iniziamo... cinque, quattro, tre, due, uno...». Batto le mani. Le convulsioni si bloccano e torna a riposare. Sembra dormire, russa anche. Poco in realtà. Le poggio una mano sulla spalla e le dico: «Jennifer, ora puoi svegliarti». Si volta verso di me e spalanca gli occhi. Aveva la sclera tutta nera, l'iride era diventata invisibile e si confondeva con la pupilla. Nero opaco, di morte, di putrefazione. Faccio un balzo all'indietro, inciampo e cado a terra.
Le chiedo: «chi sei?». Sapevo che non era Jennifer. Pensavo di aver risvegliato la seconda personalità di Jennifer, ma così non era. Non era un'altra Jennifer, era proprio un'altra persona, anzi, un'altra cosa... era... quello là ... sono passati altri venti minuti. Sono andato in bagno a piangere a dirotto, come un bambino che ha perso la mamma. Quegli occhi verdi come l'oceano erano diventati neri come il manico di un pugnale.
Mi fissano e sembra che vogliano entrarmi in testa. Con il fondoschiena a terra, mi trascino facendo forza con i piedi verso la scrivania. Ci giro intorno e mi riparo dietro una sedia. Quando sollevo lo sguardo, vedo Jennifer con un ghigno sadico e sospesa in aria, come mantenuta da un filo invisibile. E poi mi inizia a parlare, con una voce che non avevo mai sentito in vita mia. Un mostro, di quelli che infestano i nostri peggiori incubi. Qualcosa di soprannaturale, che se me lo avessero raccontato un mese fa mi sarei messo a ridere a crepapelle e avrei dato del visionario a chi avesse inventato quella storia. Ora credo che, se raccontassi questa storia a qualcuno, mi prenderebbero per pazzo. Per una volta, non sarebbe uno dei miei pazienti a finire al manicomio.
Mi dice balbettando a volte e poi prolungando le vocali: «buongiorno Dottoreee... co-me sta? Le va di bal-lare? Le piac-cio-no le orge?». E poi comincia a sghignazzare. Stavo per avere un infarto.
Mi punta la mano contro e mi sento sollevare. Urto la schiena contro la grossa libreria alle spalle della mia scrivania. Mi sembrava che cento uomini mi stessero premendo sul petto con le mani. Mi mancava il respiro.
All'improvviso, cado a terra e dei libri mi crollano addosso. Qualche angolo di copertina mi colpisce in testa, sento ancora i bernoccoli.
Me la ritrovo davanti, o meglio, il corpo di Jennifer era davanti a me, ma la sua mente no... era rinchiusa in qualche gabbia della sua mente, in un angolo remoto del suo inconscio, mentre quello là faceva ciò che voleva con me. Mi sembra di essere stato sbalzato almeno cinque o sei volte da una parete all'altra dello studio. Ora sono pieno di lividi, per fortuna non mi ha rotto alcun osso. Mi è sembrato che volesse in qualche modo divertirsi, non voleva davvero uccidermi. O forse non l'ha fatto perché è intervenuto Sam, quell'amico di Millie di cui mi ha parlato anche Jennifer. E così ho avuto la conferma definitiva dell'esistenza dei mutanti, come se vedere una ragazzina che mi fa trotterellare e volteggiare per la stanza del mio ufficio non fosse già abbastanza. Ero stordito, a pancia in giù e dolorante. Ma ricordo alla perfezione i suoi occhi fucsia fosforescenti e lui che le intima di smetterla. Jennifer (o meglio il demone) lo schernisce, ma lui reagisce con uno scatto fulmineo. Sembrava di vedere un'immagine a velocità aumentata. La colpisce al collo e lei sviene. Cade a terra pesante.
21 ottobre 2006
Sto ancora tremando. La notte tra lunedì e martedì, quello là mi ha fatto visita nel sonno, ne sono certo. Sam mi disse qualche giorno fa che avrebbe riportato Jennifer a Primestone e che insieme avrebbero sconfitto il mostro. Che il fato li guidi e che la buona sorte vegli sulle loro anime. Non ho idea di come possano riuscirci, ma io prego ogni sera per loro. Spero che ci riescano. Non voglio passare il resto della mia vita a farmi importunare da una simile mostruosità. Non riesco a capacitarmi di come Jennifer sia riuscita a sopportare tutto questo. Già essere violentata è un bel trauma, aggravato dall'aver scoperto la propria natura di mutante. Figuriamoci essere posseduti da un demone! Dio mio! Possessione. Pensavo fossero fandonie fino alla settimana scorsa, ma dopo lunedì... Dio mio!
L'altro giorno ho scritto un bel mucchietto di pagine, come in preda a una frenesia, volevo riportare ciò che era successo, volevo sfogarmi, liberarmi di quella storia. Jennifer mi ha fatto dono di una serie di nozioni che, a dirla tutta, un uomo non dovrebbe avere, non dovrebbe sopportare. Io mi sono sempre professato un uomo di scienza, ma questa non può essere scienza. Queste verità sono diverse, sono cose che non dovrebbero esistere. Male. Questo è vero Male, è diverso da quello a cui siamo abituati a pensare. Questo non agisce con un fine. Non è come un ladro che ti entra in casa e ti ruba i soldi e i gioielli. Questo non vede. Colpisce tutto e tutti, senza cattiveria, senza rancore, colpisce e basta, con tutta la sua forza, senza distinzioni, senza voler raggiungere alcuno scopo, obiettivo. È puro. Nella sua nefandezza, è puro, purissimo. Non è condizionato, non c'è una causa scatenante. Esiste e basta, è mosso solo dal fatto che è e può agire. È così sincero e giusto in maniera tremenda nel suo modo di scegliere e di danneggiarti. Lo fa semplicemente perché deve farlo. Questa cosa mi spaventa, non voglio affrontarla. Forse per un mutante è più semplice, la forza gli dà forse una consapevolezza superiore, ma a me no, io non ho nulla di tutto ciò, sono solo uno psicologo di Grand North City e nient'altro.
La notte tra lunedì e martedì, ho dormito con la testa poggiata sulla scrivania di casa mia, il blocco e la penna sul tavolo davanti a me. Avevo le braccia a farmi da cuscino. Sentivo il collo dolorante per via della posizione scomoda. Mi ero addormentato e avevo sognato di vedere due pallini fucsia fosforescenti galleggiare su uno sfondo nerissimo e un sorriso malefico rivolto verso di me. Puzza di zolfo. Riuscivo a sentire nel sonno puzza di zolfo. Mi hanno ricordato le solfatare dove mia madre e mia zia mi portavano sempre la domenica mattina, a fare i bagni in quell'acqua freddissima. Fortuna che poi andavamo tutti in piscina e mangiavo gelati con i miei cugini. Credo avessi dodici anni, non di più. Mio padre era ancora vivo. Quando mi sono svegliato, ero scosso. Mi sentivo come purgato, forse per aver messo su carta la relazione della seduta e le mie sensazioni. Ma con mio rammarico, ho notato di avere i pantaloni bagnati. Mi ero fatto la pipì sotto. Un uomo adulto che si urina addosso. Roba che se l'avesse sentita mia madre avrebbe riso per tutto il pomeriggio. Ho voglia di andarla a trovare. Sta di fatto che mi sono accorto di non aver avuto un solo incubo quella notte, ma di aver avuto compagnia.
Dalla porta d'entrata della mia stanza e fino alla mia scrivania, c'erano a terra macchie come d'inchiostro, ancora umide, come se colate da poco. Le tracce partivano proprio dalla soglia della mia camera; nel corridoio e nel resto della casa, non c'era nulla. Era come se fossero apparse proprio in quel punto, a pochi metri da me. Dalla porta alla scrivania, stop. Chiazze come olio di motore, emettevano ancora un odore pungente. Sembrava vomito, molto acido. Qualunque cosa sia quello là, spero che non torni mai più. Spero che Jennifer e Sam lo sconfiggano. Mi ha lasciato un ricordino, un talismano, forse più un monito, anzi una premonizione. Dal bordo della mia scrivania al mio diario, c'era una striscia di sangue (fortuna che è andata via). Purtroppo, ha macchiato alcuni fogli. Non so ancora come riesca a trovare il coraggio di tenere in mano il blocco. Il diario era aperto sull'ultimo foglio, illuminato da un raggio di sole mattutino che entrava obliquo dal vetro della finestra della mia camera, e c'era disegnato sopra il pianeta Terra e accanto la mia faccia, senza occhi, con delle "x" al loro posto. Il sangue fluiva da quelle rozze orbite e un grido deformava la bocca sulla superficie sottile e convessa. La Terra sembrava in fiamme e mi è sembrato di vedere degli omini affogare in un mare di lava e urlare il nome di Dio, chiedendo aiuto. Non ho potuto fare a meno di lanciare un urlo di terrore.
La sedia si è ribaltata e io, con le mani alla bocca, ho fatto alcuni balzi indietro. Ho avvertito una folata di vento (ma la finestra era chiusa e la ventilazione era troppo intensa per provenire dalle altre parti della casa), come se si fosse generata nella mia stessa camera. Ho visto il rosso sangue del disegno seccare e indurirsi come uno smalto lasciato aperto. Il soffio malevolo lo ha portato via, facendolo scomparire nel nulla, come grumi di polvere. Il foglio era tornato pulito. Prima di riavvicinarmi alla scrivania, ho sentito la voce del demone ancora una volta: «ricorda dottore, il tempo si sta avvicinando e non importa quanto ci si opponga. Alla fine, la Stanza si aprirà e balleremo tutti, ballerete tutti... il giusto e il vero verranno fuori e sarà... un'orgia senza fine». Ho sentito uno scoppio, come di pistola.
Spazio autore
Nel prossimo capitolo, il numero sette, la storia riprenderà al tempo "corrente", ossia a Jennifer e Sam che stanno procedendo di ritorno verso Primestone. Questo capitolo serve a dividere le prime due parti del racconto dalle due parti successive dove, dall'ottavo capitolo in poi, riprenderà la storia narrata da Jennifer. Attenzione a questo intermezzo, ci sono dei "dettagli" che ricompariranno nel corso del racconto ;)
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