- INTERMEZZO II (Parte 1) -
Diario del dottor Martin Frings, 8 ottobre 2006
Ormai è trascorso un mese circa da quando la giornalista Millie Watson, mia carissima amica, mi ha portato allo studio una ragazza di tredici anni di nome Jennifer Pittsburgh. Ho fatto delle ricerche sulla mia gracile paziente. Questo caso mi sta ossessionando, è al limite dell'assurdo. Ho telefonato a un mio amico alla centrale giù al quattordicesimo distretto di polizia, il commissario Moore, per avere delle informazioni su di lei. Mi ha passato una foto di Jennifer e i miei dubbi si fanno più insistenti. È davvero figlia di Alessandra Pittsburgh, morta quando Jennifer aveva sette anni ed è erede delle omonime industrie, o meglio, ora lo è il padre. La ragazza è stata accusata e condannata per l'omicidio della sorella minore Jaimie e del tentato omicidio del padre. Se a tredici anni la tua mente è così travagliata, è innegabile che all'origine ci sia qualche disturbo psichico ancora non diagnosticato. Ma il punto più sconvolgente della questione è un altro. Tutta questa storia, quella che la ragazza mi racconta ogni giorno, dei suoi poteri, di Primestone, del demone dei sogni, è per forza di cose frutto della sua immaginazione, un modo del suo cervello di rielaborare e immagazzinare i ricordi, per meglio sopportare i traumi della vita. Mi ha detto anche che il padre ha abusato di lei più e più volte e di come in realtà sia stato lui a uccidere la sorellina. È difficile credere a una simile prospettiva della storia ufficiale, ma non è tutto.
In teoria la ragazzina dovrebbe essere alla clinica psichiatrica di Albury. Moore ha dato una controllata (sembrava indaffarato, ha sbuffato parecchie volte) e in effetti risulta che la ragazza si trovi ancora nella clinica, ma questo è impossibile! Se fosse così, chi è la ragazza pallida e con grosse occhiaie nere che tre volte alla settimana viene nel mio studio? Chi è la ragazza che ora sta dormendo (poco e niente, da come mi ha raccontato) a casa della mia amica Millie? Quando gliel'ho fatto notare, Moore mi ha detto che avrebbe controllato meglio. Il giorno dopo mi ha telefonato con mia grossa sorpresa dicendomi: «dottore, la smetta di ficcare il naso ovunque, sarà un caso di omonimia, forse è una sosia o roba simile». Me lo ha consigliato in maniera abbastanza stizzita. Quando gli ho chiesto se andasse tutto bene, è seguito un lungo silenzio, poi ha tagliato corto: «lasci perdere dottore, non ne vale davvero la pena». Non mi ha più risposto al telefono.
Bombardato da una tale quantità d'informazioni e di storie assurde su gente che rapisce bambini (per giunta mutanti, MUTANTI, Dio santo, ma devo davvero crederci?), li mette in una città fantasma, li fa vivere in uno stato di semilibertà, con un mostro che li ammazza tutti, «che si nutre delle tue paure» a detta di Jennifer, ho deciso di fare delle ricerche per conto mio su Primestone. Sono andato alla biblioteca, la Central Library, perché ho pensato che se c'è un posto al mondo dove trovare notizie è di sicuro quello. Hanno anche dei computer collegati a Internet, una gran cosa, però sono sincero, non sono molto esperto, mi sono fatto aiutare da un dodicenne che sembrava molto più ferrato di me, un ragazzino paffutello delle medie, di cui non ricordo il nome. Con una decina di dollari di schifezze varie di fast food, me la sono cavata. A parte questi dettagli, con mio enorme stupore e rammarico, mi sono reso conto che è davvero difficile trovare quello che cerco.
La maggior parte delle informazioni riguardano fatti già noti che raccontano la storia della città fino all'esplosione della centrale nucleare nel 1986, ma oltre quella data tutto diventa confuso, frammentato, non so... qualcuno potrebbe obiettare che sia normale, si tratta di una città abbandonata, con la contea che all'ultimo censimento contava meno di mille abitanti. Chi diamine andrebbe a vivere in una casa vicino a una delle zone più radioattive del pianeta? Eppure, ho la sensazione, il sentore, che una serie di dati siano stati eliminati da qualcuno che vuol tenerli nascosti. Non so come spiegare questa cosa. Magari mi sta prendendo un po' la paranoia, cioè, la storia che mi ha raccontato Jennifer è così assurda che la ragazzina deve essere svitata per raccontarla. Eppure, quando parla, mi sembra così naturale, sincera... Dio mio, questa paziente mi farà uscire pazzo. Forse recita? Ma perché inventarsi la storia? Poi è evidente che sta male, perché non riesce a dormire. Ho chiesto a Millie di controllare se prendesse i sonniferi che le ho prescritto, sostiene di sì. Allora ho pensato che Jennifer li vomitasse, per come è magra credo che abbia un principio di anoressia. Le ho consigliato della roba in polvere da farle bere, così che lei non se ne accorga. Millie mi ha detto che l'ha tenuta d'occhio e non soffre di questi problemi. La notte non dorme, neanche con i sonniferi. Se Millie è stata davvero attenta... cosa diamine ha questa paziente che non va? Inizio a sospettare che il trauma subito dal padre sia reale e che, per superare l'accaduto, si sia sviluppata in lei una seconda personalità, una specie di "Mr. Hyde". Questa seconda figura è quella che nel suo inconscio sta elaborando tutta questa storia, fatta di morte, violenza, torture, prigionia e cose impossibili. Sto valutando la possibilità di utilizzare l'ipnosi regressiva. Devo stare attento a non innestare in lei falsi ricordi. Molti colleghi non sarebbero d'accordo, ma non so più cosa fare, ho chiesto anche consiglio a Hernandez, una mia collega, e secondo lei bisognerebbe approfondire il sogno ricorrente di cui la ragazza mi parla sempre. Volevo lasciarla come ultima opzione, ma in effetti, vista l'eccezionalità del caso, mi è rimasta solo quella strada da percorrere, prima dell'ipnosi.
(più tardi)
Sto girando e rigirando sempre gli stessi articoli di giornale, le stesse notizie, le stesse scartoffie. Sembra che non riesca a fare niente di costruttivo, mi sono impantanato. È sabato, magari dovrei uscire a fare una passeggiata per schiarirmi le idee. Mi sto caricando fin troppo di tensione a essere onesti. Mi è caduta la penna a terra e sono scattato con un sussulto abbastanza violento. Mi duole il collo. Il sedere mi si sta addormentando sulla sedia e la schiena inizia a protestare. Eppure, da questa sedia proprio non riesco a scrollarmi. Poco fa ho fatto delle telefonate alla contea di Kintor, confinante con quella di Primestone. Ho trovato alcune interviste di gente che asserisce che, dopo il 1986, sono ritornate a Primestone delle persone «mosse da impulsi animaleschi e omicidi». C'è chi parla di mura... mura... gente rinchiusa dietro le mura... allora è vera la storia di Jennifer, quella notte di ferragosto, quando dice di essere fuggita dalla città con gli altri ragazzini, inseguiti dai quattro Cavalieri dell'Apocalisse... no dai, è impossibile. Le ho chiesto di mostrarmi i poteri, ma lei dice che li ha persi. Sarebbe tutto più facile se facesse volteggiare un bicchiere in aria, a quel punto non avrei più il benché minimo dubbio. Quasi di sicuro impazzirei, però almeno saprei che la storia è vera, così come mi sembra sempre più vera la parte della storia più realistica, per così dire, quella in cui il padre abusa di Jennifer, uccide la figlia minore e accusa la maggiore dell'omicidio e la fa imprigionare.
Sta di fatto che quando ho chiamato lo sceriffo della contea di Kintor, sembrava così... spaesato. Sembrava quasi non sapesse dell'esistenza di Primestone. Diamine, sta nella contea accanto,come fa a non conoscerla? All'inizio pensavo di avere sbagliato numero, o che mi volesse prendere in giro, o che si stesse rimpinzando di ciambelle e non aveva voglia di parlare con una strizzacervelli di Grand North City. Mi ha dato l'impressione che avesse una pistola puntata alla tempia, che lo stessero costringendo a non dire niente, o a essere quantomeno vago, però poi ha detto qualcosa che mi ha colpito: «le chiedo scusa, dottor Frings, sono certo che la città di cui parla esiste davvero, anzi sono sicuro che esiste, in questo momento la sto fissando sulla cartina geografica, però... non lo so dottore, la mia mente mi dice che non esiste, cioè... se ci dovessi arrivare, anche con la cartina, non saprei come fare, cioè dovrei seguire la strada, ma... dottore davvero per me questa città non esiste, anche se la vedo segnata sulla cartina».
Credo di esser rimasto in silenzio per quasi un minuto, poi lo sceriffo mi fa: «senta, forse è meglio che non vada oltre, va bene?». Non andare oltre... incredibile... le stesse parole che la mia coscienza mi sussurra nel sonno da giorni ormai. Non andare oltre la soglia. Eppure, ho questa curiosità morbosa che mi sta assalendo. È tutto così surreale che penso ci sia un'ancora di verità che aspetta di essere disincagliata. Inizio a vacillare. Il mio desiderio di conoscenza, mi sta facendo trovare delle giustificazioni a tutto ciò che mi sento dire. Sta di fatto che quando ho riappeso la cornetta, mi sono sentito poco bene. Mi è parso addirittura di sentire una voce che mi diceva: «ballerai, alla fine, ballerai anche tu. E sarà un'orgia senza fine». Le parole che il demone diceva sempre. Jennifer deve avermele impiantate, inchiodate come un quadro appeso alla parete, un quadro maledetto mi verrebbe da dire.
Inizio perfino a dubitare delle mie capacità di medico, come se non fossi in grado di aiutare una ragazzina con problemi mentali. Magari dovrei dire a Millie di mandarla in un istituto d'igiene mentale e lavarmene le mani ma... cosa cazzo mi viene da pensare! Diamine, questo caso mi sta facendo perdere pure la professionalità e la mia etica del lavoro. Come mi è potuta anche solo venire in mente una cosa del genere? È come se il mio subconscio stesse facendo di tutto per farmi desistere, ma la mia parte razionale mi dice di risolvere il caso. È come una lotta di wrestling e la mia testa è il ring. A essere onesti non voglio scoprire chi sarà il vincitore, perché ho la sensazione che comunque vada a finire, io ne risulterò cambiato... mio Dio... il mio cazzo di equilibrio mentale inizia a vacillare, o forse no... sono così vicino alla follia che a questo punto un solo passo può portarmi alla verità o all'oblio.
Sento come se due gigantesche ruote si stessero avvicinando a me ai lati e che mi stiano per schiacciare, incanalandomi nei loro meccanismi, come se l'universo mi volesse trascinare nei suoi meandri, nel suo infinito labirinto. Forse è quello che è successo a Jennifer e a tutti gli Sfigati... forse... forse... chi cazzo voglio prendere in giro... io ci credo, cazzo se ci credo... IO CI CREDO! Ora bisogna solo agire! Devo aiutare Jennifer, devo essere il suo eroe. Mi farò dire il sogno che la perseguita in quell'ora e mezza di sonno a notte, quando il mostro non esce dalla sua testa e inizia a gridare come un pazzo furioso sul comodino per tenerla sveglia. Io non credo alla magia, al fantastico o a queste diavolerie, ma... a questa magia io ci credo, sì ci credo! Non è più una questione di verità o menzogna. È vero, resta da stabilire come agire. E se non fossi in grado di riuscirci? Ho un'idea... userò l'ipnosi per farmi raccontare il sogno, scandaglierò la sua mente come il sonar di un sottomarino. Io sarò il sottomarino e la mente di Jennifer l'oceano. Troverò la nave nemica che infesta le sue acque e l'abbatterò. Vincerò, credo... forse... di tanto in tanto sento dei brividi di freddo, ma non importa. Alla fine, Jennifer sentirà di nuovo la voce della Signora Gentile e quando accadrà... avrà vinto.
10 Ottobre 2006
Ieri è stata una giornata abbastanza movimentata e inquietante. Ma, cosa più importante, ora conosco la verità, almeno ho conferma di buona parte della storia che la mia paziente mi ha raccontato. Jennifer non è venuta oggi all'appuntamento. Ho chiamato Millie e mi ha detto che la ragazza si è sentita poco bene. Le ho chiesto se avesse dormito, se avesse avuto gli incubi. «Sì, Martin, ne ha avuto uno brutto. L'ho portata in ospedale per le convulsioni. Ora sta ancora lì, fra un paio di giorni la dimetteranno. Mi hanno chiesto se fa uso di droghe e io ho detto di no. Le hanno fatto lo stesso i test, ma tanto so che non troveranno niente». Io non ho potuto far altro che confermare. Oggi non avevo altri clienti, così ho potuto riportare quello che ho scoperto ieri. Sono passati giorni ormai da quando ho avviato le mie ricerche per approfondire la questione Primestone. È incredibile il ventaglio di strade che si possono percorrere e l'infinita matassa che è la vita. Si può scegliere di andare in qualunque posto, ma alla fine percorriamo un solo sentiero. Scegliamo ogni giorno, ogni singolo istante della nostra esistenza. È inquietante pensare che la vita possa andare in infiniti modi possibili, ma alla fine tu saprai solo il risultato dell'unica scelta che hai fatto. Ma allo stesso tempo è emozionante, ti dà l'idea dell'universo, di quanto sia complicato questo mondo e il meccanismo che lo regola. È come un orologio che ha un numero d'ingranaggi illimitato, perfetto, non tarda mai e non anticipa mai, segna il tempo sempre come deve essere segnato.
In genere, ogni storia parte dalla porta di casa. La casa è come il guscio di una tartaruga, ti tiene riparato dal mondo esterno. Nella casa, gli ingranaggi del tempo hanno meno effetto, perché sono meno le scelte che puoi fare. In casa puoi guardare la tv, puoi dormire, mangiare e bere, puoi fare i tuoi bisogni, puoi scrivere diari come sto facendo io ora (erano quasi tre anni che non lo facevo) e tutt'al più qualcuno si suicida in casa propria. Ma il numero di scelte che si possono fare rinchiusi tra quattro mura non sarà mai pari a quelle che si possono fare oltre una soglia. Soglia. Questa parola continua a saltare fuori. Credo che sia una condizione che ha sperimentato anche la povera Jennifer. La sua voce profonda e lenta, bassa, ma così adulta, è terrificante. Ha tredici anni, ma sembra averne ottanta, non per il fisico, ma per l'esperienza che sembra aver accumulato. A volte ho la sensazione che sia più saggia di me. Molto di più.
Ora sono le undici e fuori tira un forte vento. Questo tempaccio rende questa città ancora più pazza di quello che è. Grand North City, un mondo dentro al mondo. E alla fine si torna sempre a parlare di quanto infinite siano le vie, molto più numerose delle strade di questa città. Ma sto divagando... sarà per via dell'incubo che ho avuto ieri, dev'essere così. Allora andrò per gradi, strada per strada, alla fine raggiungerò la mia destinazione. A volte ho la sensazione che, qualsiasi strada prenda, certe cose debbano andare per forza in un modo. Come quando per la prima volta quella gracile ragazzina con quelle perle verdi al posto degli occhi è venuta nel mio studio, accompagnata da Millie. Dio, sembrava uno zombie, pallida come un foglio di carta, con quel volto cadente che alla sola vista sembrava supplicare il sonno di lasciarla andare... fuori gli aghi di ghiaccio della pioggia continuano a battere violenti sulle finestre, sembrano incitarmi a finire il diario per questa sera. E così proverò a fare. Anche se mi chiedo se lì fuori ci siano degli occhi fucsia fosforescenti che mi chiedono se abbia voglia di ballare... ahhhh, comunque...
Ieri mattina, verso le otto, mi ha chiamato una persona che davvero non mi aspettavo, una vera sorpresa! Io ero ancora in pigiama e stavo prendendo il caffè. Avevo un tale abbiocco che ci ho messo dieci secondi buoni per capire che quel rumore fastidioso che mi trillava nei timpani era il telefono di casa. Mi sono detto a voce alta: «chi cazzo è che chiama alle otto del mattino di domenica?». Così sono corso di fretta verso il telefono, con le ciabatte che slittavano sul pavimento. Sembrava una pista di pattinaggio. Ho sollevato la cornetta e ho domandato chi fosse. Dall'altra parte, indovinate un po'? Lo sceriffo della contea di Kintor! Credo che mi stesse venendo un colpo. Un po' in cuor mio sentivo che stava per succedere qualcosa di particolare, di diverso dal solito. In ogni caso lui mi fa: «buongiorno dottor Frings, sono lo sceriffo Marlock, la chiamo dalla contea di Kintor, ci siamo sentiti tempo fa. La disturbo per caso?». Io avrei voluto dire che ero ancora in pigiama come un cadavere vivente in mezzo alla casa e che il caffè stava strabordando dalla tazza e mi stava ustionando le dita, ma già sapevo che quelle scuse non avrebbero retto a confronto di ciò che mi stava per dire. Allora gli faccio: «buongiorno sceriffo, mi dica, nessun disturbo».
Lui è rimasto per qualche secondo in silenzio. Riuscivo a immaginarmi lui che si strofina il capo e aggrotta la fronte. «Dottore, sono settimane ormai che non faccio che pensarci, così mi sono dato da fare. La contea di Primestone ormai è deserta e, per diamine, lì non ci va più nessuno, insomma, chi ci andrebbe in un posto che non esiste!?». E si mette a ridere a crepapelle. Io da parte mia sorrido, eppure avevo una sensazione di malessere che non riuscivo a spiegarmi. La voglia di bere il caffè mi era già passata. «Dottore, mi sono ricordato di avere un amico che era proprio di quelle parti, ne sono quasi sicuro, credo almeno... ora vive proprio a Grand North City, le dico l'indirizzo, così se ha voglia può farsi raccontare. Lui le dirà di sicuro delle cose che io non so o che non... non riesco a dirle...». «La ringrazio, sceriffo». Mi sono fatto dare l'indirizzo e quella stessa mattina mi sono recato da questo tizio. Non ci ho pensato due volte. Certo, avrebbe potuto cacciarmi via. Chi aprirebbe la porta a uno psicologo di domenica mattina che ti chiede di raccontare la storia della tua vita e di come sei fuggito da una città in cui era esplosa una centrale nucleare? Ma avevo una tale eccitazione dentro... credevo di averla persa da almeno una trentina d'anni. L'ultima volta fu al ballo di fine anno, all'ultimo anno di liceo. Credo che quello fu il capolinea della mia adolescenza e divenni adulto.
Quello stesso anno mio padre morì per un tumore al fegato. Che disgrazia, che nostalgia! A oggi, dopo tutti questi decenni, ci penso ancora. A volte mi chiedo se con la morte si possa superare il dolore per la perdita di un parente, che sia un padre, una madre o una sorella. Certe volte mi sveglio nel sonno pensando a lui. Ancor prima invece, avevo tredici o forse quattordici anni, persi la mia fanciullezza. Assurdo come nel giro di sette, otto anni si passi dall'essere bambini ad adulti. Credo che nessuno sia pronto. Per gli animali è più facile, alla fine sono governati quasi del tutto dall'istinto, ma per l'uomo è diverso. Per l'uomo è più complesso, e lo dico da psicologo. Resta il fatto che il tizio con cui sono andato a parlare si chiama Victor Ramon. Ha vissuto a Primestone fino all'esplosione del terzo reattore, nel 1986. Ora vive in una piccola casetta in periferia. Quando ho bussato alla porta, dopo poco ho avuto il mio primo sussulto. Ho avuto la conferma che stavo andando nella giusta direzione e mi sono sentito frastornato, ma allo stesso tempo eccitato come un adolescente al suo primo appuntamento. Sento aprire la serratura della porta e vedo questo signore con i capelli bianchi e arruffati, tutto accigliato, che mi fa: «lei mi deve chiedere di Primestone, giusto?». A quelle parole, sono rimasto come paralizzato. «Scusi, come fa a saperlo? Immagino glielo abbia detto lo sceriffo». «Chi, quello di Kintor? Be' certo, ma... parliamoci chiaro, chi vuole che venga a farmi visita? Solo il mio passato lo farebbe! Sono un uomo solo da molto tempo ormai, chi ha lasciato quella città è maledetto ormai! Muoiono tutti, i primi sono quelli con i tumori, poi quelli con gli incubi. Io vivo solo perché sono un ex marine, ho la pellaccia dura. Entri, comunque, entri, prima che dimentichi di nuovo tutto!».
Io sono rimasto a fissarlo, mentre si voltava di spalle e mi indicava la strada. Era come se mi stesse aspettando. E quando ha pronunciato la parola "incubi", il sangue mi si è gelato. Mi ha fatto accomodare in cucina, una stanza vecchia e trasandata. C'era un'anta appesa e un paio che cigolavano per ogni singolo spiffero. «Io vivo solo della mia pensione» mi fa lui, come a volersi giustificare. Sarà che con il mio completo elegante l'ho messo in suggestione e in imbarazzo. «Si figuri» gli faccio io, più imbarazzato di lui per averlo messo in quella condizione scomoda. Lui si siede con lentezza e prende un sospiro. «Allora lei è un dottore?». Io annuisco. «Immagino voglia sapere di Primestone». «Esatto, ma prima devo chiederle una cosa». «Mi dica». Al che schiarisco la voce, come per prendere un acuto, e con un filo di aria gli chiedo: «per prima cosa mi dia del tu. Il mio nome è Martin. Seconda cosa: lei si ricorda di Primestone? Cioè, lo so che sembra una domanda strana, è solo che...». «È come se non esistesse!» esclama lui. Io resto basito. «Non fare quella faccia, Martin! Ci sono cose a questo mondo che non ci è dato comprendere. Esistono, ma non ci è dato sapere. Tutti quelli che sono fuggiti da Primestone tendono a dimenticare quella città... o chi ancora ci vive... io stesso ho dei vuoti, dei flash... quando lo sceriffo me ne ha parlato, per me è stato come ritornare al passato in uno schiocco! E chi invece tenta di avvicinarsi, è come se perdesse la memoria, è come... è come se qualcuno, o qualcosa, impedisse di raggiungerla, ti fa... ballare...».
A quell'ultima parola io credo di essere trasecolato. «In che senso ballare?», gli chiedo col terrore addosso. "Ballare". Le stesse parole usate da Jennifer. Vedo il suo volto confuso. Abbassa le sopracciglia e inizia a guardare per terra e poi nel vuoto, come se cercasse di ricordare. «Non saprei... è l'unica parola che mi è venuta in mente... comunque sia, è meglio così... perché chi sa alla fine muore. Io avevo decine di parenti e conoscenti e sa che fine hanno fatto? Morti! Stecchiti! In tutti i modi possibili e immaginabili. Suicidio, auto che ti investono, tumori, infarti, assassinati... chi è di Primestone ha la vita contro, anzi, la Morte!». «Scusa, prima hai detto "o chi ancora ci vive"... cosa intendevi?».
E fu a quel punto che mi raccontò la sua storia, non prima di avermi offerto del tè al limone e dei biscotti. «Ti ricordi del 1974, quando in tutto il mondo cadde la pioggia fucsia fosforescente e quei detriti di navi aliene?». Ricordo di aver annuito senza neanche pensarci e di avergli detto: «mi ero da poco diplomato, era al primo anno di college». «Bene, bene... devi sapere che a Primestone c'era una setta». «Una setta? Una setta satanica?». «Qualcosa del genere, una setta religiosa. Si facevano chiamare i Giustizieri di Cristo». A quelle parole mi sono asciugato la fronte con un fazzoletto. Durante i miei studi per il dottorato, avevo letto parecchio a proposito di certe sette e dei loro comportamenti, roba da far venire la pelle d'oca. «Verso i primi anni Settanta, quella setta contava quasi mille adepti. I loro capi erano dei gran bastardi. Abbindolavano le persone e li convincevano a donare alla congrega tutti i loro averi. Si ricorda Martin Luter King? Per loro era la reincarnazione del male assoluto. Odiavano i gay, i neri, gli storpi e tutti quelli che secondo loro non facevano parte del disegno divino. Vedi, Primestone è stata sempre una piccola cittadina e si sa che a nessuno fotte niente delle piccole cittadine di contea. Anche le notizie più gravi non fanno rumore. Se muore una bambina a GNC allora tutti i notiziari nazionali ne parlano. Se muore una bambina di contea, è come se fosse morto un criceto qualsiasi. Comunque, alla fine, parliamoci chiaro: alle persone di Primestone non dava fastidio la setta. Cioè, in pubblico tutti la odiavano, ma nel privato la elogiavano. I cittadini delle piccole città sono restii ai cambiamenti. Sono tutti buonisti, ma nel profondo sono omofobi e razzisti. Sta di fatto che se qualche casa di un nero veniva incendiata a nessuno fotteva niente. Il problema sorse dopo la metà degli anni Settanta, mesi dopo il Giorno degli Dèi*...».
Prima che continuasse ho bevuto l'ultimo sorso di tè rimasto in fondo alla tazza. «La polizia federale scoprì che la pioggia aveva inquinato una falda acquifera, un pozzo dove la setta si abbeverava. Vivevano in una grande magione costruita con i soldi degli adepti, su una collina a tre chilometri dal Derrick, un ruscello che passa di lì, poco oltre il distretto malfamato di Bilford. Insomma, quella merda piovuta dal cielo, li fece come ammalare. Divennero con il tempo aggressivi come lupi affamati e cominciarono a subire cambiamenti fisici. Pensa che conoscevo una ragazza che all'epoca aveva, credo, diciotto anni. Si chiamava Dorothy». Quando ha detto quel nome ho creduto di svenire. Me lo aveva già detto Jennifer. Quel racconto non stava facendo altro che confermare sempre di più la storia della ragazzina. Il puzzle stava cominciando a prendere forma, un macabro disegno, impossibile da immaginare, ma che purtroppo era reale.
«Era figlia di un mio caro amico. Era una ragazza bionda, molto alta. Era così alta che a scuola la massacravano, la chiamavano "giraffa". Questa povera anima, entrò in un brutto giro, cadde in depressione e alla fine entrò nella setta. Il padre fece di tutto per farla tornare a casa, ma non ci fu verso. Lo sceriffo non poteva fare niente, perché ormai lei era maggiorenne ed era una sua scelta vivere nella setta. Non c'erano problemi dal punto di vista legale. Dorothy, come tutti gli altri membri, finì col bere l'acqua avvelenata. E giuro su Dio, che mi fulminasse in questo momento, se non l'avessi vista con i miei occhi, non ci avrei mai creduto. Penso che fosse alta poco più di un metro e ottanta. Qualche mese dopo, era più alta di una porta. Lo giuro! Cioè, dovrebbe essere impossibile, un essere umano assai di rado arriva a quelle altezze, a maggior ragione una donna, e a maggior ragione quando ha già completato lo sviluppo». «Scusami, – gli ho fatto io tutto stordito, come se mi avesse detto che gli asini volano – mi stai dicendo che, bevendo dell'acqua, una ragazza è cresciuta in pochi mesi di mezzo metro?». «Lo giuro ancora! – ha esclamato lui – Ma non era acqua comune, era acqua aliena! Tutti quelli che la bevvero subirono profondi cambiamenti mentali e fisici, ma quelli di Dorothy erano i più evidenti. Perse anche molti capelli, divennero bianchi e neri! Cioè cambiarono proprio colore, perse tutta la sua doratura, quella bellissima chioma. E la cosa assurda è che nessuno andò in ospedale. I membri della setta non credevano ai medici, agli ospedali e alla scienza in generale. Dopo quell'anno, si verificarono una serie di omicidi e sparizioni a Primestone. La polizia cominciò a indagare e si scoprì che era colpa dei Giustizieri. Facevano sacrifici umani!».
A quel punto ho scosso la testa e ho deglutito, come se avessi avuto un tappo alla gola. Victor se n'è accorto ed è rimasto in silenzio per qualche secondo, forse per farmi riprendere. «Sta bene, dottor Frings? Cioè, volevo dire Martin». «Sì, sto benissimo, continua pure». Non era vero. Avevo la nausea e avevo la sensazione che il finale della storia non mi sarebbe piaciuto. «Vedi Martin, molti membri della setta furono arrestati, ma non riuscirono mai a smantellarla, era come una idra. Tagliavi un tentacolo e ne ricresceva un altro. Erano schivi, difficili da avvicinare e anche molto furbi. Andò avanti fino al 1986. L'anno prima ricordo ancora che cominciarono a verificarsi dei blackout in tutta la città. All'inizio erano sporadici, poi sempre più frequenti. La società elettrica sosteneva che fosse per via degli aggiornamenti ai quadri elettrici fatti alla centrale nucleare. Da quando cominciarono a verificarsi quegli episodi, sempre più persone lamentavano di avere incubi e di non riuscire a dormire la notte... la maggior parte diceva di sentire una voce nel sonno che gli sussurrava... "ti va di ballare con me!?"», l'ho fermato io.
Lui mi ha guardato con sorpresa, ma allo stesso tempo tristezza. Ha abbassato la sguardo, scrutando il fondo della sua tazza, con occhi grigi. «Ecco perché mi ricordavo della danza... come lo sai, Martin?». «Un paziente... non posso dirti altro». Non volevo che in qualche modo le mie informazioni inquinassero il suo racconto. Lui ha annuito. «La gente a Primestone stava impazzendo. Me compreso. Molti non riuscivano più a dormire e la produttività era ai minimi storici. Molti se ne andarono, e fecero bene. Ad aprile scoppiò la centrale nucleare. Ricordo ancora le sirene che risuonavano in città. Le avevo sentite solo durante le esercitazioni obbligatorie che la giunta comunale aveva organizzato proprio in occasione dell'apertura della centrale negli anni Sessanta, quando ero ancora un giovane di belle speranze. C'era il panico e il caos ovunque. Ti ricordi del padre della ragazza, Dorothy? Quel giorno, mentre io e mia moglie stavamo facendo le valigie, bussò a casa mia e disse: "ti prego Victor, aiutami a portare via mia figlia, non voglio che resti qui! La setta non vuole farla andare via, ma io so che lei vuole fuggire". Io lo guardai perplesso. Cioè, una nube radioattiva si stava diffondendo sulla città, che cazzo me ne fregava di sua figlia? Ma quando vidi quegli occhi, gli occhi di un padre disperato, sull'orlo del precipizio, be'... andai con lui.
Ci dirigemmo verso nord, tagliando sulla Main. Non fu necessario arrivare in collina. Dio santo... ho ancora quelle immagini stampate negli occhi... i Giustizieri stavano massacrando la gente, chi a mani nude, chi a colpi di ascia... capisci!? La gente che cercava di fuggire veniva massacrata! Era... era come se fossero in preda al delirio o a un'allucinazione collettiva. Sembravano dei diavoli! Ti giuro su Dio, Martin, non sto mentendo!». A quel punto ha messo la mano destra sul cuore e ha alzato la mano sinistra. Aveva gli occhi lucidi e la bava alla bocca. Pensavo che stesse per avere un infarto, aveva gli occhi fuori a momenti. Era sincero. «Ho visto quelli della setta, alcuni... si arrampicavano sui palazzi lungo la Main, agili come gatti... come fottuti gatti! Saltavano, uccidevano e urlavano: "Dovete ballare anche voi, voi siete empi, Cristo vi odia, non siete degni della sua misericordia, per Dio, ballerete tutti! Ballerete tutti!". Io fermai la macchina e implorai il mio amico... cazzo, non mi ricordo il nome!». Ha dato un calcio al tavolo che mi ha fatto sobbalzare. «Ti senti male, Victor?». «No, sto bene, ti chiedo scusa Martin... implorai il mio amico di non scendere, ma non ci fu verso. C'era sua figlia Dorothy, che stava scuoiando un uomo... aveva un'enorme falce con mola, la cui lama brillava di fucsia fluorescente... gli stava tirando fuori le viscere dal corpo... ancora oggi mi viene da vomitare...». In realtà, stavo per vomitare io in quel momento.
«Era sudicia del sangue di quel poveretto. Suo padre corse verso di lei... e l'abbracciò...». Victor aveva le mani allargate a mimare il gesto. Sembrava che fosse stato colto da un senso di delusione profonda. «Anche se fosse stata mia figlia... non avrei mai avuto il coraggio di correre incontro a un simile mostro, ma lui lo fece... e ricordo ancora quando lui si voltò verso di me... era distante ed ero in macchina, in mezzo alle urla, come in un concerto rock. Lui mosse le labbra... non so come abbia fatto, ma riuscii a sentire ciò che mi disse: "va' via, resterò con mia figlia". Non ci pensai su due volte. Feci inversione e guardai nello specchietto retrovisore. A ripensarci, non avrei mai dovuto... hai presente quando si fissa una nuvola e sembra di scorgere una sagoma di un animale oppure di una persona? Ecco, io vidi un volto nel cielo. Una densa nuvola nera, con due sfere fucsia, come a formare degli occhi... occhi dello stesso colore di quelli della setta... non aveva una bocca, ma sono sicurissimo che mi sorrise... cazzo, se mi sorrise... era così inquietante, così delirante, così... malato. Lo sogno ogni singola notte quel sorriso... ogni fottuta notte...». A quel punto Victor è scoppiato a piangere. Ho capito che non sarebbe andato oltre nel discorso, ma a me non serviva. L'uomo diceva la verità e aveva confermato molti aspetti della storia di Jennifer. Sono ancora convinto che la ragazza soffra di personalità multiple per via degli abusi subiti dal padre e che, finita a Primestone, sia poi successo qualcosa di 'inspiegabile'. C'è qualcosa in quel posto, qualcosa d'impossibile, ma è vero... è vero come il fatto che il cielo sia azzurro o che gli uccelli volano e i pesci nuotano... a questo punto inizio a pensare che quando mi dice di avere dei poteri e che lì mettevano dei ragazzini mutanti, forse anche quello è vero e questa cosa mi lascia... non so... come in cortocircuito. Inoltre, il fatto che ci siano delle persone, dei pazzi oserei dire, ancora a Primestone, liberi... credo che questa notte non riuscirò a chiudere occhio.
*Con Giorno degli Dèi si fa riferimento al 26 novembre del 1974. In quel giorno, una pioggia di colore fucsia fosforescente, di probabile origine aliena, cadde in tutto il mondo. Oltre a piovere anche nelle settimane seguenti in tutto il pianeta, quello stesso giorno caddero dal cielo anche un elevato numero di navi spaziali aliene e detriti delle stesse. Per questo si ritiene la pioggia di origine extraterrestre: non si è formata all'interno di una o più perturbazioni temporalesche sulla Terra, ma ha cominciato a cadere dagli strati più alti dell'atmosfera, apparentemente generatasi dal nulla, così come dal nulla hanno cominciato a cadere le navicelle, le più piccole lunghe centinaia di metri. Ufficialmente non sono state ritrovate forme di vita aliene. E' ignoto il collegamento che ci sia tra navi spaziali e pioggia, sebbene ci sia senza ombra di dubbio. Secondo alcune ipotesi, si sono creati dei "buchi bianchi" temporanei che hanno permesso il passaggio di queste navi aliene da una parte indefinita dell'Universo alla Terra. Tali ipotesi si basano sul fatto che nei giorni precedenti al 26 novembre, i radiotelescopi di tutto il mondo abbiano rilevato strani e incomprensibili picchi di frequenze radio di origine ignota. Tali picchi lasciano presupporre a molti scienziati l'idea che tali emissioni energetiche siano in qualche modo collegate alla formazione del buco bianco. Tom Ehman e Jaydor Fodor, i due scienziati presentati nel prologo, furono i primi a scoprire tali emissioni radio.
Il buco bianco è un oggetto teorico previsto dalla relatività generale di Albert Einstein. Come intuibile, è l'inverso di un buco nero, ossia espelle/allontana da sé ogni cosa, luce compresa. Sempre secondo la teoria, si genererebbero in maniera temporanea come parte terminale di un "buco nero". Tale oggetto, di fatto, non sarebbe un "pozzo", ma avrebbe una parte terminale, il buco bianco, che collega appunto due punti distanti dell'Universo tramite un "wormhole", detto anche Ponte di Einstein-Rosen.
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