- INTERMEZZO I -
Grand North City, luglio 2004
Chiamata "The Crazy City" dai suoi abitanti, per via della sua instancabile frenesia e per il fatto che non ci si annoia mai, perché succede sempre qualcosa di eccitante o pazzesco, Grand North City è una delle città più popolose del mondo. Circa dodici milioni di anime stipate come formiche in un formicaio, tra enormi grattacieli che svettano imponenti e scintillanti sull'isola al centro della baia cittadina e un fazzoletto di terra, che si estende per non più di venti chilometri, al confine del Wellington State, uno dei trenta stati in cui sono suddivise le WesternLands settentrionali. La città è divisa dal punto di vista amministrativo in sette distretti, tra cui quello finanziario al centro della città chiamato "Onehattan", o distretto uno, mentre il distretto sette, o "Hope Land", è l'area portuale e industriale, nella quale risiedono soprattutto immigrati. Grand North City è considerata uno stato a tutti gli effetti, con tanto di governatore che svolge anche la funzione di sindaco, prerogativa unica in tutta la federazione delle WesternLands. L'attuale sindaco e governatore è Mark Ribbleton, detto "The Just". Le WesternLands sono uno dei tre grandi sub-continenti in cui viene suddiviso il Grande Nord. Esse sono suddivise a loro volta in due aree, una a nord e una a sud, per un totale di cinquanta stati, trenta al nord e venti al sud, a formare un'immensa federazione. Mentre le WesternLands settentrionali sono legate dal punto di vista politico al governo centrale di Georgetown, la capitale, le WesternLands del sud pur facendo parte dello stesso governo, godono di un'autonomia maggiore e spesso e volentieri sono restie alle direttive provenienti dagli organi di governo della capitale.
Nel luglio del 2004, nel distretto tre di Grand North City, chiamato "Beauty Air", abitato da antiche e facoltose famiglie, la piccola Elizabeth Leslie, di anni otto, se ne stava tutta sola e raggomitolata nell'enorme letto a due piazze della sua camera da letto, tra librerie a parete strapiene di peluche. Se Leonard Star si fosse ritrovato in quella stanza, per certo avrebbe dato di matto o sarebbe morto di crepacuore oppure sarebbe fuggito via come una gazzella inseguita da un ghepardo.
Elizabeth si sentiva sola: sua madre era morta donandole la vita, mentre suo padre, un facoltoso uomo d'affari, era sempre all'estero per lavoro. «Tornerò presto, principessa» le diceva spesso e quelle parole le davano la speranza di vederlo tornare dai suoi interminabili viaggi. Lo avrebbe osservato varcare la soglia, con il suo immancabile completo nero e i suoi occhiali da sole, come quelli che indossava l'attore Tommy Lee Jones nel film Men in Black, che una sera la figlia aveva guardato insieme al padre, un ricordo che Elizabeth avrebbe sempre portato con sé. Al termine di ogni viaggio, il padre le portava l'ennesimo peluche gigante (ne aveva a decine certo, ma non se ne stancava mai e ogni volta urlava dalla felicità come in preda a un'estasi senza fine) o qualche piccolo oggetto, come quella volta che le portò dalla Toresia (uno stato del Grande Sud) un braccialetto adornato da perline bianche di vera madreperla e da un dente di leone. Elizabeth adorava l'oggettistica e i souvenir dei posti che visitava suo padre, perché le davano la sensazione che tramite quel regalo lei ricevesse non solo l'oggetto in sé, ma tutto ciò che il padre in quel viaggio aveva potuto ammirare e tutte le sensazioni che aveva provato. E a occhi aperti sognava il giorno in cui avrebbe lasciato quella gigantesca villa di marmo, cemento e arenaria e avrebbe terminato i suoi cicli di chemio per poter vedere il mondo che con tanto ardore aveva sognato e lasciarsi travolgere dalla sua bellezza intrinseca e dalla sua esagitazione. Quei pensieri tenevano vivi i suoi piccoli occhi, azzurri come quelli della madre, mentre il suo corpicino magro e la testolina rasata denotavano il suo stato di salute cagionevole e la malattia che l'affliggeva da più di due anni. Portava sempre una bandana rosa, perché aveva vergogna di aver perso i capelli e non voleva farsi vedere dagli inservienti. Gli unici a cui mostrava il capo erano suo padre ed Evaristo, il governante di casa Leslie. Un tubicino per respirare, come una piccola forchetta a due punte, gli solleticava le narici, costringendo la bambina a smuoverlo spesso. Alla sua sinistra c'era una sedia a rotelle imbottita di morbida pelle nera, con i raggi delle ruote e le parti metalliche placcate in oro (il padre aveva una certa mania per quel metallo, visto che tutte le maniglie della casa, le rifiniture e la rubinetteria erano placcate in oro). Alla sua destra invece, aveva un grosso box di ferro grigio, con tanto di quadranti e tubicini, il Signor Fastidio. Si trattava di un macchinario per l'emodialisi, a cui la bambina era quasi sempre attaccata. Non sopportava la vista del sangue che fluiva da quei due tubicini trasparenti che le entravano nel braccio, così aveva lo sguardo sempre distolto.
Evaristo e gli inservienti si trovavano oltre la porta chiusa della camera di Elizabeth. I loro sguardi erano pensierosi e preoccupati e si guardavano attoniti, come se stessero per scoperchiare il vaso di Pandora. «Signori, direi di procedere» disse il governante con aria non troppo convinta. Provava in tutti i modi a incoraggiare le infermiere e gli uomini della sicurezza a entrare e da ben dieci minuti stavano lì in piedi, mai veramente pronti a superare la porta. Erano le quattro del pomeriggio e la piccola Elizabeth doveva prendere la sua medicina, un farmaco sperimentale per il suo male. Quella scena si ripeteva da più di un mese ormai, ogni settimana, come un rituale sciamanico. La bambina odiava la medicina e tenerla ferma era un'impresa assai ardua. «Signori, sono due le possibilità... O le diamo la medicina, con tutti i rischi che già sapete, oppure dovremo vedercela con l'ira del signor Leslie... cosa scegliete?». Le infermiere erano sbiancate, pallide come le loro divise, come se Evaristo gli avesse proposto di morire per mano di un serial killer o schiacciati da un carrarmato. Qualcuno tra gli uomini della sicurezza sudava e cercava di allentarsi il colletto della camicia. Nessuna parola riusciva a cambiare quella situazione d'immobilità, per questo il governante decise di agire. Afferrò la maniglia lucente come un diamante e spalancò la porta con una violenza insolita per un uomo che, nel corso della sua lunghissima carriera, aveva servito persino nelle case dei regnanti, custodendone i segreti e allevandone i discendenti. Elizabeth ebbe un sussulto e l'aria le si strozzò in gola. Riconobbe Evaristo, l'unica figura piacevole in quella casa a suo modo di vedere (oltre al padre, ovviamente), che si sforzava di sorriderle.
«Evaristo, si bussa!» lo rimproverò la bambina. «Le chiedo perdono, signorina Elizabeth, ma... ma... è l'ora della sua medicina». La bambina gonfiò le labbra, mise il broncio e il suo sguardo divenne severo, fin troppo per una bimba, aveva pensato il governante. «Signorina, non faccia così. Lo sa che deve prenderla, è per la sua salute. E poi se non la prende, suo padre ci resterà male e si arrabbierà...». Elizabeth incrociò le braccia e sbuffò. «Non mi piace quella medicina, fa schifo, è amara! E non mi fa guarire, sono già tre volte che la prendo, ma sto sempre in questo letto!». Evaristo, senza indugiare ancora, fece cenno agli altri di entrare. Le prime furono le infermiere che come delle bamboline si disposero tutte in fila alla destra di Evaristo. Poi entrarono le guardie, disponendosi alla sinistra del governante. Con reverenza e timore si avvicinarono al capezzale. La bimba li guardava con aria di disprezzo e di sfida, sollevando le sopracciglia, paonazza ed emettendo piccoli suoni sommessi, come se volesse ruggire, senza davvero riuscirci. L'atmosfera era carica di tensione. «Oggi non la prendo la medicina... se provate a darmela... vi faccio male». «Signorina Elizabeth, non è degno del suo lignaggio avere un simile comportamento... suo padre sarebbe molto amareggiato se la sentisse parlare così». Le parole di Evaristo non fecero altro che irritare ancor di più la bambina. Per quasi venti secondi calò il silenzio, interrotto solo a tratti dal risucchio del naso della bambina, infastidita da quel tubicino che le entrava nelle narici.
«Ora!» urlò Evaristo come un generale che comanda di attaccare al suo reggimento. Due uomini afferrarono il braccio destro della bimba, mentre tre infermiere il braccio sinistro. Altre due infermiere preparavano la medicina da iniettarle endovena, mentre le altre due guardie le tenevano ferme le gambe. «Lasciatemi, lasciatemi! Non la voglio la medicina, non la voglio!» urlò Elizabeth. «Devi prenderla Elizabeth, basta fare la bimba capricciosa, è per la tua salute!» la sgridò il governante, cambiando il suo tono da reverenziale a severo tutore. Si agitava in maniera frenetica e provava in tutti i modi a liberarsi, ma non poteva reggere il confronto fisico con cinque persone adulte, mentre lei si ritrovava in quel piccolo corpo malandato, che tanto odiava, perché le impediva di esplorare il mondo con il padre. Cacciò un urlo e poi con uno scatto morse il braccio di una delle infermiere, che diede involontariamente una gomitata alla collega accanto, che a sua volta urtò con la testa sul naso di un'altra infermiera. Elizabeth era riuscita a liberare il braccio sinistro. «Ora ti cancello i numeri che hai sul cuore!» gridò la bambina, colma d'ira e ruggente come un leone, all'indirizzo di un'infermiera che stava preparando il medicinale, estraendo da un paio di boccettine del liquido marrone con una siringa e agitando il tutto in un terzo boccettino. «O mio Dio, tenetele il braccio!».
Il grido disperato di Evaristo fu inutile. Elizabeth sollevò l'indice della mano libera in direzione della donna e cominciò ad agitarlo, in segno di diniego. Sembrava che avesse un cancellino in mano e stesse provando a rimuovere uno strato di gesso da una lavagna. L'infermiera si bloccò come se qualcuno le avesse puntato una pistola contro e lasciò cadere il boccettino di vetro, che si frantumò sul pavimento, provocando un suono come di campanelle. Evaristo si gettò sul letto e con violenza abbassò il braccio di Elizabeth, piantandolo con forza sul materasso e urtando con un piede lo stomaco di una delle guardie che si ritrasse dal dolore. «Ahia, Evaristo! Mi hai fatto male!». Seduto carponi sul letto, tenendo fermo con entrambe le mani il braccio sinistro della bambina, si voltò impaurito verso l'infermiera. La donna sembrava immobile, poi sollevò lo sguardo e comincio ad agitarsi e a singhiozzare, come se non riuscisse più a espirare. «Ho sbagliato e le ho cancellato i numeri che ha sui polmoni» sussurrò la bambina, con un risolino che faceva trasparire una crudeltà inquietante per la sua età. A quelle parole, Evaristo sgranò ancora di più gli occhi, che sembravano pulsare in quel momento. L'infermiera gettò la testa all'indietro, al punto che le si riusciva a vedere il pomo, come un piccolo triangolo alla gola e si protrasse in avanti di scatto, come se volesse sputare qualcosa che le ostruiva la faringe; ma non uscì niente, se non un sibilo soffocato. Sollevò gli occhi persi e limacciosi verso il soffitto e portò entrambe le mani al collo. Una delle infermiere gridò: «Oddio sta soffocando, oddio sta soffocando!».
Le altre infermiere cominciarono a gridare dal terrore, mentre gli uomini della sicurezza la guardavano sbigottiti. Evaristo si voltò verso Elizabeth e le intimò con tono di rimprovero: «Elizabeth, non fare la stupida! Qualsiasi cosa tu abbia fatto all'infermiera, rimetti le cose al loro posto! Muoversi, signorina, è un ordine! Se non lo farai, ti farò punire dal signor Leslie!». Intanto l'infermiera era caduta per terra e si agitava sul pavimento in preda alle convulsioni, Evaristo guardava con aria di sfida, ma anche con delusione la bambina. Elizabeth non ascoltava nessuno, tranne suo padre ed Evaristo. Era per lei un secondo padre, visto che l'aveva cresciuta lui da quando aveva due anni. Vedendo quella severità riflettersi sul suo volto, la sua rabbia svanì come una nuvola spazzata via da un forte vento. «D'accordo, – disse sbuffando – però spostati, non riesco a vederla». Evaristo notò che s'era calmata e decise di togliersi dal letto, invitando gli uomini della sicurezza a fare lo stesso.
«Non la vedo, potreste sollevarla, per favore?» chiese con gentilezza. Evaristo ordinò di sollevare la donna, che continuava ad agitarsi scalciando, come se volesse far del male a qualcuno. La presero per le braccia e la sollevarono di peso, avvicinandola alla bambina. L'infermiera aveva ancora le mani al collo e ormai il suo volto era diventato di un viola intenso. Le vene intorno al collo e sulle tempie pulsavano come piccoli fiumi solcati da violente acque torrenziali. Sul collo, nei punti in cui le dita stringevano, si erano formate piccole strisce, come rughe. «Aspetta che numeri c'erano? Ah, ora mi ricordo» bisbigliò Elizabeth tra sé e sé. Puntò il dito in direzione del petto della donna, come se stesse scrivendo qualcosa su un foglio, utilizzando una penna invisibile. All'improvviso, l'infermiera lasciò la presa sul collo e prese un respiro prolungato e intenso. In pochi attimi aveva già ripreso colore. Gli uomini la lasciarono e si allontanarono di qualche passo. La donna continuava a respirare con fatica. Quando il respiro si fu assestato, cominciò a singhiozzare e scoppiò in lacrime. Portò le mani al volto, si girò e corse via dalla stanza. Nel farlo, urtò un uomo che stava entrando nella stanza proprio in quel momento. Ma la donna, in preda al panico, non se ne accorse e corse via. «Papà!» gioì la bambina, con una fulgida luce negli occhi. «Sir Alastair Leslie!» esclamò sorpreso Evaristo.
L'uomo, con un elegante abito nero, stava fissando il boccettino di vetro frantumato a terra e il liquido sul pavimento che si stava incanalando nelle fughe delle mattonelle, come liquami in un canale di scolo. Poi fissò la figlia, mantenendo il suo sguardo severo e impassibile. «Principessa... stavi facendo i capricci, vero?» chiese l'uomo con voce piatta e profonda. Elizabeth abbassò lo sguardo imbarazzata. Non le piaceva quando il padre la rimproverava, soprattutto davanti ad altre persone. «Non... non mi piace la medicina, papà» rispose singhiozzando. «Lo sai che devi prenderla, è per il tuo bene» ribatté l'uomo con tono più rilassato e amorevole, accennando un sorriso. Elizabeth di riflesso sollevò lo sguardo e voleva mettersi a piangere dalla gioia. Il suo papà era tornato, era davanti a lei e le stava sorridendo. Papà sorride solo a me e non lo fa con nessun altro. Solo a me sorride! Io voglio tanto bene a papà! «Lasciate la stanza» ordinò Alastair. «Voglio restare solo con mia figlia... le darete dopo la medicina». Gli uomini e le infermiere non se lo fecero ripetere una seconda volta. Come soldati diligenti, scattarono verso la porta, lasciando la stanza in men che non si dica. Evaristo si affiancò al signor Leslie e accennò a un inchino. «È un vero piacere riaverla tra noi, Sir Leslie» disse in modo solenne il governante. L'uomo fece un cenno con il capo. Evaristo si diresse verso l'uscita, chiudendo con delicatezza la porta dietro di sé. Appena fu chiusa, la bambina urlò di gioia.
«Papà, sei tornato! Evviva!». Alastair si avvicinò alla figlia e si sedette accanto a lei. Ora le sorrideva per davvero, un sorriso pieno e luminoso, che riempì di felicità il cuore della bimba. «Papà, mi hai portato qualcosa!?» chiese entusiasta. «Certo». L'uomo mise la mano nella tasca della giacca ed estrasse una collanina artigianale, fatta con lo spago e adornata con piccoli pesciolini di pietra blu. «Questi sono piccoli zaffiri. Ho preso questa collana a Rio de la Plata. Gli abitanti del posto dicono che questi pesci angelo imperatore portino fortuna e prosperità. Inoltre, aiutano a scacciare i sogni cattivi». Nel dire quelle parole, Alastair mise al collo la collana alla figlia. Gli occhi della bambina sembravano luccicare. «Principessa, sei davvero bellissima» sentenziò all'improvviso. La bambina divenne rossa e portò le manine sulle guance. «Papà, dai!». L'uomo allungò le mani verso la testa della figlia per toglierle la bandana che indossava, ma Elizabeth si ritrasse di scatto. L'uomo ne fu sorpreso. «Cosa c'è, principessa?» chiese l'uomo dispiaciuto. «Papà, lo sai che non mi devi togliere la bandana quando ci sono altre persone, ho vergogna!». Il signor Leslie ebbe un sussulto. «Lo... lo vedi?». «Certo che lo vedo papà, che domande fai? Da quando sei entrato, se ne sta con la schiena appoggiata alla porta. Mi fa paura!». Elizabeth abbassò lo sguardo. Alastair si voltò e fissò l'uomo. Era vestito con un soprabito grigio e pantaloni dello stesso colore. Indossava un cappello nero a cilindro, adornato con una larga fascia blu. Aveva lo sguardo rivolto al pavimento e non gli si vedeva il volto. Il padre si rivolse alla figlia con un sorriso. «Principessa, non devi avere paura... quel signore lavora con me, si chiama Gus, Gus Von Blumen. Salutalo». Elizabeth sollevò titubante lo sguardo. Notò che l'uomo aveva sollevato di poco il capo e riusciva a intravederne il muso. Era di un rosa chiarissimo e le labbra erano molto sottili, quasi assenti, mentre la pelle intorno era liscia e bianchissima. Non pallida, ma proprio bianca, come le strisce di una zebra. Elizabeth abbassò lo sguardo di colpo per lo spavento e alzò la mano in segno di saluto, sussurrando un «ciao» poco convinto. L'uomo si toccò la visiera del cappello in segno di riverenza.
«Principessa, posso chiederti come hai fatto a notarlo?». La figlia guardò il padre perplessa, come se gli stesse chiedendo qualcosa di assurdo. Come può pensare che non riesca a vedere un uomo in piedi? E poi... «Perché c'è un buco in mezzo ai numeri... è come con te papà, non riesco a vedere i numeri nel suo corpo». Alastair restò sbigottito, Gus invece sussurrò un semplice: «pazzesco». Poi la bimba continuò: «lo sai papà, io vedo i numeri scritti di nero dappertutto, nel cibo, negli oggetti, in aria e nelle persone! Riesco a vedere le radici quadrate, le quattro operazioni, i limiti, le derivate e pure gli integrali! Però i tuoi non riesco a vederli, papà. E nemmeno quelli del signor Gus». «Capisco... Aspetta, hai imparato anche gli integrali?» chiese sorpreso l'uomo. «Certo papà, guarda, sto studiando quel libro ora». Elizabeth indicò un libro di matematica che era poggiato su una grossa scrivania in legno di ciliegio intarsiata a formare delle sontuose decorazioni floreali. «Quello è un libro dell'ultimo anno di liceo» notò con sorpresa Alastair. «Sì, papà. Se l'anno prossimo starò bene, mi iscriverai all'università? Per favore!». L'uomo guardò sbalordito la figlia, sentendosi quasi una nullità a confronto, ma era una sensazione piacevole a suo modo di vedere, d'altronde era la sua Elizabeth, la sua principessa. Cominciò a ridere in modo fragoroso, come se avesse perso i freni inibitori e la solita compostezza. Elizabeth guardò stupita suo padre. Papà con me sorride, ma non ride quasi mai con gli altri. Forse non si sente bene? Forse ho detto qualcosa di stupido? «Ora credo di averle viste proprio tutte» sussurrò Gus. Alastair smise di ridere e si asciugò le lacrime con un fazzoletto, senza mai togliersi gli occhiali, ma limitandosi a sollevarli quel tanto che bastava.
«Papà ridi in modo proprio buffo!». Elizabeth cominciò a ridacchiare, portandosi le mani alla bocca. «Sei ancora un po' piccola per l'università, non credo che ti accetteranno, ma... vedrò cosa si può fare». Il padre le sorrise e si avvicinò a lei, baciandola sulla fronte. La bambina arrossì ancora di più e portò in basso lo sguardo. «Papà, non davanti gli altri» gli sussurrò. Il padre le strofinò la bandana e si alzò dal letto. «Papà, ora te ne vai di nuovo?» chiese preoccupata la figlia. «No, principessa, questa volta resterò molto di più». A quella risposta Elizabeth si sentì sollevata. Il padre stava per uscire dalla stanza, quando una scossa le percorse la spina dorsale. Un brivido la fece raggelare e un'idea malsana le piombò in testa, spaventandola. Si ricordò dell'incubo che aveva avuto la notte precedente. «Papà, aspetta!» gridò. L'uomo si voltò, intuendo già dal tono che la figlia gli stava per dire qualcosa di poco rassicurante. «Cosa c'è, principessa?» le chiese, senza in realtà volerlo sapere davvero. «Questa notte ho fatto un sogno... è venuto quello là, da Primestone mi sembra... mi ha detto che a lui non piaci tu e nemmeno gli altri... e ha detto che ti metterà i bastoni tra le ruote... aveva gli occhi dello stesso colore del contorno delle tue iridi papà». Alastair cominciò a sudare e s'immobilizzò, come una statua di cera. Quelle parole ebbero lo stesso effetto su Gus. «Principessa, non ti preoccupare, è stato solo un brutto sogno» disse, nel tentativo di rassicurare la figlia. «No, papà, non era un sogno! Cioè lo era, ma... era anche reale!». Un silenzio tombale piombò nella stanza. Il signor Leslie non sapeva cosa dire in quel momento. Fu assalito dalla paura, ma allo stesso tempo fu pervaso da un istinto omicida. «Principessa ascoltami, qui sei al sicuro, ok? Nessuno ti farà del male, non permetterò a nessuno che lo faccia. Andrò da quello là e gli darò una bella lezione, ok?». Questa volta Alastair era convinto delle sue parole e la sua determinazione viaggiò nell'aria come una sinfonia fino alla mente di Elizabeth, che si tranquillizzò quasi subito. «Ok papà» disse con tono più sereno. «Ora riposati. Più tardi prenderai la medicina... e niente capricci, siamo intesi?». Elizabeth mise il broncio, ma era troppo contenta per dare un dispiacere a suo padre. Si convinse che valesse la pena prenderla, come se farlo potesse trattenere suo padre al suo fianco. Lei sorrise e lui ricambiò a sua volta. Oggi papà sta sorridendo tante volte. E ha pure riso forte! Alastair lasciò la camera, facendosi precedere da Gus. Prima di chiudere la porta, si volse ancora una verso la figlia. Il suo viso era stanco ma sereno, e i suoi occhi brillavano, pieni di una vita che cercava in modo disperato di non sprofondare negli abissi oceanici. Ha gli occhi della madre. Farò di tutto affinché possa vivere. L'anta si chiuse. Elizabeth fissò per qualche secondo la porta e quando non udì più i tacchi delle scarpe da duemila dollari del padre sul pavimento lucido del corridoio, disse a voce bassa: «Mi ha detto anche di ucciderti, ma io non lo farò mai, perché io amo tantissimo il mio papà».
Qualche minuto dopo, in una sala dell'immensa magione, Gus e Sir Alastair Leslie stavano sorseggiando del costoso vino rosato d'annata in due lucidissimi bicchieri di cristallo. Alastair sembrava perplesso e se ne stava a rimuginare sprofondando nella sua poltrona. «Qualcosa ti inquieta, papino?». Rimasero in silenzio per qualche secondo, poi Alastair sollevò lo sguardo, con tanta lentezza che sembrava avesse un macigno in testa. «Gus, credo di aver fatto un errore di valutazione». Gus corrugò la fronte e fece un sorrisetto. «Quindi, mi stai dicendo che anche Mister K commette degli errori?». A quella domanda ironica, Alastair si passò una mano tra i capelli brizzolati che, malgrado la brillantina, restavano piuttosto ribelli. Sorrise, ma fu un sorriso amaro, e quell'accoramento fu solo in parte mitigato dalle lenti scure che dimezzavano le espressioni del viso e che non toglieva mai, se non davanti alla figlia o per andare a dormire.
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