EPILOGO (Parte 1)
Settimane dopo...
Hugo Wyatt se ne stava comodamente sprofondato nella sua poltrona di pelle color cuoio a guardare una partita di baseball. Nulla poteva turbare la sua quiete, neanche la pioggia che, imperterrita e accompagnata da lampi bluastri, sferzava e si abbatteva sulle vetrate della dimora dei Pittsburgh. Tintinnii che sembravano sordi sottofondi ungevano i suoi timpani rilassati. Si trovava in uno stato di estasi in quel momento. Il giorno prima il suo avvocato gli aveva comunicato che tutto il patrimonio dei Pittsburgh toccava a lui in quanto marito della defunta Alessandra e considerato anche che la figliastra minore Jaimie era morta, mentre l'altra, Jennifer, a quanto ne sapeva, era in un manicomio per minori a chilometri e chilometri di distanza. Un formicolio trionfale gli solleticava la mente, facendolo sussultare in isteriche risatine sommesse. E ancor di più sogghignava all'idea di poter compilare le carte per l'adozione di una bella bambina. Se fosse andata male, c'era sempre il mercato nero. Il solo pensiero lo faceva eccitare. Il suo volto famelico di giovani membra era illuminato appena dalla luce giallognola prodotta dalla lampada sulla parete.
Rantolava al solo guizzare nella sua testa di immonde pratiche sessuali con uno o, perché no, due angioletti, magari anche un maschietto, perché provare nuove esperienze lascia un brivido che deve essere alimentato, altrimenti la funeraria noia prende il sopravvento, avvizzendo i nostri pensieri. Mentre era assorto tra le sue pulsioni selvagge e il battito della pallina da baseball, un ronzio di scintilla vibrò nelle sue orecchie all'improvviso, facendolo trasalire. Un rumore metallico di pentolame lo scompose in un gesto a metà tra un attacco cardiaco e uno scatto in piedi. La corrente andò via. Voltò la testa a destra e a manca, ma solo il pallido bagliore della luna traspariva dalle finestre del salotto. Ricordò però di aver lasciato la pila d'emergenza in un ripiano del mobile della cucina e intravedeva la sagoma della porta della sala appena oltre quella del soggiorno. Le sue pupille si stavano abituando, catturando più luce possibile. Ma nulla poté per evitare un mobiletto con i piedini di ferro e il piano di cristallo. Nonostante le pantofole felpate, il suo mignolo urtò violento contro una delle zampette di metallo. Imprecò, in un lamento che sembrò rimbalzare su tutte le pareti della casa. Quando l'eco cessò, un tetro sentore gli fece freddare il cuore. Per qualche strano motivo pensò di essere solo, dannatamente solo, in una grande casa che aveva conquistato con le unghie e con il sangue, ma che per qualche ragione sconosciuta non riusciva mai a sentire del tutto sua, come se avesse (peccato) mancato in qualcosa.
Ritornato in sé, riprese a strisciare a tentoni le pantofole sul pavimento. Con respiri rapidi e decisi avanzò con le braccia in avanti, sfiorando l'aria con i polpastrelli, nel tentativo di afferrare qualcosa che lo potesse guidare nella sua traversata fino alla cucina. Finalmente, dopo innumerevoli tentativi, riuscì ad afferrare lo stipite della porta del soggiorno e a quel punto fu facile. La porta della cucina si trovava proprio di fronte, a un paio di metri, nel mezzo di un corridoio. Intravedeva il lavandino, illuminato dalla luce che filtrava dalla finestra in cucina, così come luccicavano le piastrelle sopra i fornelli in acciaio. Hugo amava mangiare e anche molto, non a caso aveva messo su ben dieci chili negli ultimi tre mesi e sfiorava ora i cento. E bere anche. Beveva molto, soprattutto birra e whisky, ma non disdegnava vino rosso e bourbon.
In controluce, intravide il ripiano dove ricordava di aver messo la torcia. Ma all'improvviso, un sibilo soffiò nel suo orecchio. Si voltò di scatto, dirigendo lo sguardo verso la porta vetrata, scrutando il giardino. Nulla intravide, se non il riflesso lunare che schiariva il basso prato curato del giardino e il cielo nero, illuminato appena. Si convinse di essersi sbagliato, quando, nel momento in cui appoggiò la mano sulla maniglietta rotonda dell'anta, un secondo fruscio lo fece raggelare. In un fracasso di posate, cercò il coltello nel cassetto del mobile. Scintillante, lo estrasse, facendolo vibrare nell'aria. Si voltò e, schiacciando il suo enorme fondoschiena contro la cucina, fendette l'aria in una moltitudine di veementi colpi casuali e cominciò, concitato, a strillare: «chi c'è!? C'è qualcuno in casa!? Ho un coltello e non ho paura di usarlo! Guarda che chiamo la polizia, quindi è meglio che tu te ne vada!». Ascoltò il silenzio. Sentiva soltanto il suo respiro che gli solleticava le narici, il battito del suo cuore che, più in fretta del normale, gli pulsava nel petto e il sordo ticchettio della pioggia sul prato e sul tetto. Trascorsero secondi infiniti ma nulla sembrò accadere. I suoi muscoli, dapprima rigidi, cominciarono a rilassarsi. Sospirò di sollievo.
«E credi davvero che basti un coltello per fermare Ultraman?» gli sussurrò all'improvviso una voce profonda all'orecchio sinistro. Hugo impallidì e sferrò un fendente pesante e scoordinato alla sua sinistra, ma la lama, dopo aver sibilato, s'incagliò in uno sportello del mobile della cucina. Hugo provò a liberare il coltello, ma tale era stato il colpo che si era perfino fatto male alle nocche. Era troppo spaventato per preoccuparsi del bruciore. Qualcuno era in casa. E nessuno poteva entrare in casa sua. Ma nulla poté più fare.
Mentre la gola si seccava e la sua mente sembrava una parata per il quattro luglio, tanto rimbombava di mille pensieri, una fitta lancinante lo colpì alla testa. Qualcosa di duro e solido lo aveva colpito. Sentì il calore estendersi e un rivolo di sangue grondargli come sudore sulla pelle asciutta. La vista gli si offuscò. Dapprima divenne bianca, poi nera. Più nulla vide o sentì. Pochi minuti passarono (almeno così parve a Hugo) prima di avvertire la prima sensazione dopo lo svenimento. In un primo momento, si sentì rincuorato del fatto di essere ancora vivo, ma subito si rese conto che qualcosa non andava. Avrebbe voluto sbarrare gli occhi, ma un sentore gli diceva di valutare prima la situazione con gli altri sensi. Sentiva la schiena poggiare su qualcosa di liscio e duro, come se stesse sul pavimento. Sentiva i battiti regolari ma rapidi del suo cuore. Aveva la fronte fredda. Ma c'era di peggio, in particolare due sensazioni non gli piacquero. La prima era una sorta di stritolamento sui polsi, sulle caviglie e su tutto l'addome, come se qualcosa lo stesse stringendo, stritolando. La seconda pessima sensazione era l'assenza delle gambe. Non le sentiva. La memoria lo riportò a quando aveva subito un intervento chirurgico in ospedale a causa di una torsione testicolare e gli avevano praticato l'anestesia locale. E nel momento in cui si rese conto che ciò non poteva essere possibile in quanto prima di svenire era seduto a guardare una partita sulla sua poltrona, aprì gli occhi in uno scatto e cominciò convulso ad agitarsi. Si trovava ancora in casa sua. Su tutti i mobili della cucina erano accese delle candele bianche. E non erano le sue. Aveva la bocca libera e non perse tempo a gridare aiuto. Provando a sollevare il capo, si rese conto di essere disteso sull'isola della cucina, di essere legato con delle spesse corde e di essere quasi del tutto nudo. Indossava una camicia bianca abbottonata (non sua) e basta. Il suo pene flaccido e i suoi testicoli erano scoperti. Quella fu la cosa che lo preoccupò più di tutti, facendolo trasalire in una morsa di freddo che gli premette gli organi come lame.
«Bene, ti sei svegliato» disse una voce nel buio. «Chi sei!? Cosa vuoi!?» sbavò biancastra saliva Hugo. All'improvviso, un uomo attraversò le tenebre. La luce arancione delle candele illuminò il volto dell'intruso, che ghignava in modo assai poco rassicurante. Omicida. E quell'uomo, altri non era che Sam Peterson. Quest'ultimo avanzò verso il padrone di casa, fermandosi per guardare da vicino i suoi organi genitali. Sam indossava dei guanti verdi e una mascherina sanitaria dello stesso colore. Una cuffietta raccoglieva i suoi capelli in un morbido casco a bolla. «Certo che ne combina di guai questo cosino, vero Hugo?» ridacchiò Sam. In quel momento, il patrigno di Jennifer sentì il cuore battergli in gola e il respiro strozzarsi.
«NOOO!!!» strillò Hugo all'improvviso, quando vide un nefasto luccichio. Un bisturi era nella mano destra di Sam, con la punta rivolta verso il soffitto. «Ti prego, ti darò tutti i soldi che vuoi, ma ti scongiuro, non farmi del male! TI PREGO!!!». Hugo sembrò quasi vomitare, mentre il volto di Sam appariva plastico, quasi indifferente. Un paio di secondi dopo, nel sottofondo del piagnucolio isterico di Hugo, il mutante disse: «Hugo, Hugo caro... ok, i soldi sono importanti, però...». «Sì, prendili, prendili, sono tutti tuoi, c'è una cassaforte» sibilò il padrone di casa. Rivoli di saliva, copiosi, continuavano a trasbordargli dai lati della bocca. Ma Sam lo guardò stranito, come se provasse compassione per quell'uomo. Hugo indugiò sugli occhi tiepidi di dell'intruso, ma quando li vide spegnersi, gelidi, il suo spirito morì. Il mutante tornò a fissare il corpo del paziente e si sollevò la mascherina, coprendosi la bocca, mentre sentiva biascicare farfugli senza senso. Hugo non meritava compassione. Quest'ultimo diede un ultimo strillo disperato quando vide la lama del bisturi cadere verso la sua "arma" di sottomissione, veicolo dei suoi impulsi animaleschi, supplicando il suo aguzzino di fermarsi.
Sarebbe inutile raccontare che la dose di anestetico non era sufficiente, che per non farlo svenire Sam gli piantò dell'epinefrina nel cuore con una siringa e che decise di asportargli solo le sacchette che aveva sotto al pene.
Darebbe un'immagine poco eloquente della tortura a cui fu sottoposto il perfido uomo.
Dopo giorni di degenza in ospedale, ritornò a casa. Un mese dopo, il suo avvocato allertò la polizia, perché il suo cliente non rispondeva da una settimana alle sue chiamate. E quando gli agenti entrarono in casa, trovarono Hugo che penzolava da una trave del garage, con una corda attaccata al collo e una sedia rovesciata sotto ai piedi. Aveva lasciato un biglietto d'addio con sopra scritto: "Sono un peccatore e troppo grande era il fardello per me da portare". Si era suicidato, lasciando per sempre questo mondo, libero dai suoi malsani e disgustosi impulsi.
Grand North City, Diario di Jennifer
Ogni giorno che passa va sempre meglio. Finalmente riesco a dormire, addirittura la scorsa notte mi sono addormentata all'una e mi sono svegliata alle sette e mezzo del mattino. Raramente ricordo i sogni della notte precedente e quando lo faccio in genere sono piacevoli, normali, perché ora è questo quello che conta, la normalità. Voglio crogiolarmi in un ritmo prestabilito, preciso, basta dinamismo, ho corso per anni, ora voglio riposare. Nei primi tempi è stato un po' difficile abituarmi alla nuova realtà, a una nuova abitazione, quella di Millie, a un nuovo letto. Lei però è a posto, è intelligente e anche simpatica. Mi ha accolto a braccia aperte, sebbene sia una donna sola e in fin dei conti non mi conosce affatto. Ha fatto un bel lavoro arredandomi la camera degli ospiti. Poi c'è la questione del mio patrigno... quando Sam mi ha detto che s'è suicidato, a dirla tutta ho provato una sensazione di vuoto. Non mi sono sentita triste, ma nemmeno felice, che era quello che mi aspettavo. È davvero difficile da spiegare, è come se una parte di me se ne fosse andata, ma era come un'appendice inutile, mi fa sentire solo più leggera, ma nulla di più. Sam non me l'ha voluto dire, ma io l'ho capito: gli ha fatto qualcosa, ma io ho fatto finta di nulla. Mi ha parlato anche di problemi burocratici riguardo all'eredità, ma mi ha assicurato che avrebbe risolto tutto lui e...
Rumore sordo.
Jennifer stava scrivendo il suo diario, come faceva ormai da qualche settimana, seguendo il consiglio del dottor Frings. Una piccola lampada da scrivania illuminava, giallognola, le pagine bianche del suo quadernetto. Si trascinò dalla scrivania alla porta della camera, strisciando la sua poltrona a rotelle. Afferrò la maniglia e aprì la porta. In lontananza, oltre la porta della camera opposta alla fine del corridoio, sentiva dei cigolii. Jennifer iniziò a sbuffare e all'improvviso urlò: «ma quante volte lo fate in un giorno!? La smettete di fare i conigli!? C'è una minorenne qui, ma non vi vergognate!?». A quelle parole seguirono attimi di silenzio. Subito dopo, un farfuglio sommesso e incomprensibile di voce femminile fece da preludio a una voce maschile, ovattata dalla porta chiusa: «Caccola, fatti i fattacci tuoi! Ultraman ha bisogno di riposare!». Jennifer, a quel punto, sibilò in un fischio di rabbia e divenne paonazza sulle guance. «Se devi riposare vallo a fare nei bagni di qualche locale, idiota! E anche tu Millie, non ti vergogni!?». Seguì una risatina sommessa e isterica e poi una più grave, da uomo. Un paio di secondi dopo le molle ripresero a cigolare. Jennifer spalancò la bocca e sgranò gli occhi, stupefatta dalla noncuranza dei due adulti. Stavolta si limitò a strillare un semplice «conigli!» e a sbattere la porta della sua cameretta. Si trascinò verso la scrivania. Quando fissò le poche righe che aveva scritto, scosse la testa. Prese un sospiro abbastanza profondo, afferrò la penna e riprese a scrivere.
Scrivere un diario non è stata di certo una idea mia, ma del dottor Frings. Nonostante abbia scoperto che sono una mutante, ha deciso comunque di tenermi in terapia, come se fossi il suo paziente preferito. Mi invita anche nei giorni in cui non ci sono sedute in programma. Credo che mi abbia scambiato per una cavia, ma la verità è che a me non dà fastidio, è bello poter parlare con qualcuno, ti libera, anche se è solo un estraneo e a dire il vero ho parlato con molti adulti in questo periodo. Il dottore, Sam, Millie... peccato però che non possa parlare più di Primestone con loro, ormai se ne sono dimenticati. Ogni volta che apro l'argomento, loro mi guardano perplessi, come se stessi parlando in chissà quale antica lingua perduta. Settimane fa sui notiziari è rimbalzata la notizia di un devastante ciclone che ha colpito le regioni centrali delle WesternLands. Tutti parlano di un'anomala depressione atmosferica o qualcosa del genere, ma io so, e solo io purtroppo, che non è nulla di tutto ciò. Hanno parlato anche di Primestone. Magicamente i media di tutto il mondo si sono ricordati dell'esistenza della città. Quando Sam e Millie hanno cominciato ad ascoltare la notizia alla tv ho visto i loro occhi incupirsi, ma non dalla paura. Era come se avessero un sentore, cercassero di ricordare qualcosa di lontano e dimenticato. Eravamo seduti per cena. A un certo punto si sono voltati verso di me e mi hanno fissato. I loro occhi erano vuoti, attoniti, come quando un formicolio alla testa ti dice che qualcosa di grave ti sta sfuggendo. Credo che mi abbiano guardata per quasi un minuto e io di contro non ho aperto bocca. Sapevo che li avrei confusi ancora di più.
Mi mancano... gli Sfigati mi mancano davvero tanto... sono sola, con persone nuove per me, in una casa non mia, in un letto non mio. Purtroppo però, anche i miei amici si sono dimenticati di Primestone. E di me. L'unica che forse ha conservato con sé ancora qualche blando ricordo è Sophia. Sam ha aiutato ciascuno di loro a sistemarsi, prima che si dimenticasse, e credo abbia dato loro l'indirizzo di questa abitazione, ma non troveranno mai quel pezzo di carta. L'unica che ci è riuscita è stata propria la mia amica. Ieri mi ha inviato una cartolina da Lillitown e una foto con lei e Taylor sorridenti su una panchetta. Sembra davvero un gran bel giardino. Sulla cartolina c'è scritto: "Ciao, scusa se non ricordo il tuo nome, ma credo di conoscerti e che tu sia una persona importante per me. Volevo solo dirti che io e Taylor stiamo bene. Baci". Questo è rimasto del nostro rapporto, una fiammella morente. Per il resto nulla, come se tutto ciò non fosse mai avvenuto. Le loro menti si sono rifiutate di ricordare tutto l'abominio che hanno visto e vissuto. Solo io ho in testa ogni singolo dettaglio, come... come un fardello, una punizione per i miei peccati. Credo che sia giusto, ho ucciso mia sorella, non l'ho fatto apposta, ma l'ho uccisa e ora il karma mi sta punendo, come biasimarlo! E qualcosa di nero in me continua a premermi nella testa, ma manca poco, sento che sta per andarsene...
Toc, toc.
«Avanti!» squillò Jennifer, con la testa ancora immersa nel suo diario. La porta si aprì e Sam fece capolino. «Ciao caccola, tutto ok?». «Sì Sam, tutto ok... sei stanco tu, immagino» ironizzò la ragazzina. «Ah, ah, ah» rispose l'uomo facendo una finta risata. Spalancò tutta la porta e con la spalla sinistra si appoggiò sullo stipite. Si mise a fissare Jennifer con un'aria che era un misto tra la curiosità e la serietà. Frattanto, la ragazzina, sentendosi osservata, sollevò la testa e scrutò l'uomo. Era in pantofole e indossava dei pantaloncini grigi e una canotta bianca. Ma il dettaglio che maggiormente attirò l'attenzione di Jennifer fu una striscia di capelli dell'uomo che, a ciuffetto, gli pendeva sulla fronte. Era grigia, tendente al bianco. Quando l'uomo se ne accorse, arrossì e d'istinto si passò una mano nei capelli.
«Visto che roba? L'età prende anche noi mutanti. Mi è uscito all'improvviso. Orribile, no?» sembrò quasi scusarsi lui. Ma Jennifer scosse la testa. «No, io credo che sia proprio carino». A quelle parole sincere e a quel sorrisetto, l'uomo si sentì rincuorato e abbozzò anche lui un sorriso, ma le sue labbra ricaddero di nuovo verso il basso, come se un cupo pensiero gli impedisse di godere dei piccoli dettagli della vita. Corrugò la fronte e cominciò a strofinarsi la nuca. Sembrava imbarazzato, come se avesse timore nel chiedere ciò che stava per chiedere. Resasi conto di ciò, Jennifer provò a spronarlo, con voce pacata e bassa: «qualcosa non va, Sam? Va' tranquillo, puoi chiedermi qualunque cosa».
L'uomo, allora, si passò una mano sul mento, con gli occhi persi nel vuoto. Poi all'improvviso, sembrò tornare in sé. Dapprima aprì la bocca, ma la sillaba gli si fermò a metà gola. Si schiarì la voce e finalmente cominciò a parlare. «Sai Jennifer, non so con chi parlarne e credo che tu mi possa aiutare...». La ragazzina, allora, spalancò gli occhietti incuriositi, drizzò le orecchie e con la sedia si spostò dalla scrivania, voltandosi verso l'uomo. «Vedi − riprese a parlare Sam dopo qualche secondo di esitazione − ho come un vuoto nella testa. Per esempio, sono convinto di aver aiutato dei ragazzini, ma non riesco a ricordarmi chi fossero, eppure so di averli aiutati e che c'entrano qualcosa con te... e poi... Primestone... caccola, per caso siamo stati a Primstone? È successo qualcosa d'importante lì?». Sam la fissò negli occhi, come a cercare un riflesso, la scintilla della risposta. La intravide, ma la risposta che gli diede non fece altro che farlo sussultare ancora di più. «Nulla di che, Sam... l'importante è che stiamo tutti bene, giusto?».
Evasiva, Jennifer ammiccò, ma questo lo rese ancora più irrequieto e la ragazzina se ne accorse. Lui chinò lo sguardo e cominciò a passarsi di nuovo una mano tra i capelli, con fare ancor più concitato, poi però... un abbraccio. Jennifer ora cingeva lui che, sorpreso, sembrò trattenere il respiro. Ma quel gesto, come il tocco di una bacchetta magica, sembrò riportarlo a un sano equilibrio privo di turbamento. Di riflesso, le scompigliò i capelli, quella chioma corvino lucente. «Bene, ora sciò, stai invadendo la stanza di una ragazza e la sua privacy, sparisci!». Jennifer, con lievi colpetti, lo punzecchiava ai fianchi e sulla pancia. «Ok, ok, me ne vado!» alzò le mani l'uomo in segno di resa. Si voltò, afferrò la maniglia e stava per abbandonare la camera, quando si arrestò all'improvviso sulla soglia e si girò verso l'amica. «Il soprannome Ultraman... me lo hai dato tu, immagino... in merito a cosa?». I suoi occhi incrociarono quelli di lei, ma Jennifer non rispose. Fece solo un tenero sorriso, amorevole ma allo stesso tempo triste. Compreso il disagio, Sam si convinse che, forse, non valeva la pena spingersi oltre. «D'accordo... buonanotte, caccola».
Richiuse lentamente la porta alle sue spalle, come a voler ridurre al minimo il sordo tonfo. Si avviò verso la camera di Millie, strisciando le pantofole. Ma il richiamo della vocina di Jennifer lo fece fermare nuovamente. Portava con sé un pacchetto avvolto nello scotch. «Sam, mi sono ricordata che devi consegnare questo pacco!» esclamò lei correndo a passetti svelti verso di lui. Lui aguzzò la vista, cercando di ricordare cosa fosse. Ma la sua mente era un arido deserto. Quando lei glielo porse, lui lo afferrò quasi con timore, tentennando per qualche secondo. «Sapevo che te lo saresti dimenticato, così l'ho conservato io... visto che domani devi partire, ho pensato che prima volessi consegnarlo» spiegò lei. «E... a chi dovevo consegnarlo?» chiese lui, sempre più perplesso. Jennifer chinò il capo alla ricerca della risposta corretta, passandosi l'indice sulle labbra. Quando la scintilla scoccò, sollevò la testa di colpo e disse: «alla redazione del "Rolling Stone"!». «Ah» abbozzò l'uomo, sorpreso dal destinatario di quel pacco che sentiva di aver preparato lui stesso. Si passò di nuovo una mano nei capelli e disse: «immagino che riguardi sempre Primestone, di cui non ricordo nulla... e non vuoi dirmi nulla, giusto?». Osservò Jennifer dapprima chiudere le palpebre, stringere uno smagliante sorriso e unire le mani dietro alla schiena, muovendo in fianchi. «Ok!» concluse lui. «Domani sarà la mia prima destinazione, poi partirò... ancora buonanotte, caccola».
«Sam!» esclamò lei all'improvviso, mentre lui si era già voltato per andarsi a coricare. «Quando ci rivedremo ancora?». L'uomo la guardò sorridendo. Provò a nascondere la bugia che stava per dirle, ma nell'angolo più remoto del suo cuore un labirinto d'infiniti specchi e riflessi sapeva che lei lo avrebbe capito. In quel momento, una dolce menzogna gli sembrò più digeribile di un'amara verità. «Appena possibile Jennifer, farò presto. Lo sai, trovo l'uomo in nero, lo faccio fuori, e poi vivremo tutti felici e contenti». Jennifer rise, pur sapendo che le stava mentendo e che in fondo era giusto così. Senza indugiare ancora, sollevò la mano e salutò l'amico. «Notte, Captain Wo... cioè volevo dire Ultraman!». Un sussulto scosse le spalle di Sam e gli fece accelerare il battito cardiaco. Ma fu un attimo. «Notte» salutò lui, e si voltò. Ciascuno di loro varcò la soglia della propria camera, ma, come le lancette di due orologi sincronizzati, si voltarono e, da una distanza che ora appariva siderale, lontananza spaziale e spirituale, i loro sguardi si toccarono e, insieme, ammiccarono sorrisi che lasciavano trasparire una punta di malinconia. Le rispettive porte, lentamente, si chiusero.
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