CAPITOLO 7 (Parte 2)

Cenarono con quello che trovarono: qualche würstel e un po' di pane in cassetta. I due avevano ancora fame, ma dovevano accontentarsi delle barrette che Jennifer aveva comprato ore prima alla stazione di rifornimento. «Sam, voglio lavarmi, puzzo come un cane randagio!» strepitò lei. «Concordo, direi che è arrivato il momento di andare a riposare» commentò con voce pesante. La stanchezza cominciava a scalfire perfino Sam, nonostante la sua forza e la sua resistenza sovrumane. All'improvviso sentì il desiderio di adagiarsi, come se il suo corpo lo stesse mettendo in guardia, come ad avvisarlo che gli sarebbe servito, perché di lì in avanti non ne avrebbe più avuto l'occasione. E questo fatto lo fece un po' preoccupare. Rifecero la strada e passarono davanti al bancone della reception. L'uomo non c'era più, così come la donna alla panchina che leggeva il giornale. Arrivarono al parcheggio interno. Era un ampio piazzale, contornato dal motel che andava a formare due "l" che si univano. Il lato scoperto dava su una stradina che poi si collegava a quella principale, dalla quale erano arrivati Sam e Jennifer. La pioggia aveva ripreso a scrosciare imperterrita. Passarono sotto un porticato, riparati dalla pioggia.

Passando accanto a una camera, Sam avvertì in modo distinto dei gemiti. Era sicuro che anche Jennifer li avesse sentiti, ma non notò cambiamenti nel volto della ragazza. Proseguirono senza fermarsi fino a delle scale. Un uomo di colore se ne stava appoggiato alla ringhiera a fumare una sigaretta. Producendo un tintinnio a ogni loro passo su quegli scalini metallici, Sam scrutò quell'uomo con una tale attenzione e con una tale acutezza di sguardo che sembrò volesse fargli una radiografia con gli occhi. Aveva lo sguardo rilassato e sembrava farsi gli affari suoi, infossava le guance aspirando dalla sigaretta, sommerso dai suoi pensieri. Poi Sam notò nei suoi occhi un velo di tristezza. Anche questa volta non seppe darsi una spiegazione, si limitò a registrare l'informazione nella sua mente, come nel diario di bordo di un capitano.

Salirono al piano superiore e si diressero verso la stanza numero trentatré. Sam inserì la chiave, girò più volte e aprì la porta, dosando alla perfezione ogni singolo passaggio, ogni singolo movimento, come se sbagliando avesse provocato chissà quale disastro naturale. Non devo sbagliare nulla, continuava a ripetere nella sua testa. Ogni errore potrebbe costarci la vita, fosse anche piccolo e insignificante. Sam diede un paio di colpi alla parete, nel tentativo di trovare l'interruttore della luce. Ci riuscì. «La solita merdosa luce gialla... sembra un cantiere stradale» borbottò l'uomo, rassegnato. La camera era semplice. C'erano due letti singoli separati da un piccolo comodino, un grosso armadio marrone scuro, forse dei primi anni Settanta (stile della nonna, pensò Sam) e un cassettone enorme alla parete opposta ai letti. Sopra vi era poggiato un televisore dalle dimensioni titaniche, con un enorme tubo catodico. Era ricoperto da una patina di polvere spessa e densa che copriva quasi del tutto la vernice. «Do una rapida occhiata, poi possiamo sistemarci» disse Sam. Sistemò i trolley sulla parete accanto al cassettone e la prima cosa che fece fu guardare sotto i letti. Jennifer pensò che Sam guardasse lì per vedere se ci si nascondesse qualcuno. In realtà, l'uomo voleva controllare se ci fosse qualche insetto stecchito o, peggio ancora, vivo. Fece lo stesso con l'armadio, il comodino e il cassettone. Vuoti. Che fortuna! Jennifer, intanto, provò ad accendere il televisore. Non funzionava. Il pulsante era andato, saltato e finito non si sa dove, e anche il telecomando non dava segni di vita. Era oleoso, come se sopra ci fosse stato cosparso dello zucchero caldo oppure dell'olio di frittura. Jennifer lo lasciò cadere sulla superficie del cassettone. Cacciò la lingua in segno di disgusto e si toccò i polpastrelli. Avvertì l'appiccicume come colla vinilica solidificata. Non aveva neanche il coraggio di chiedersi che schifezza fosse. Sam stava passando in rassegna il bagno. Notò che il piatto della doccia era macchiato. Sangue. Dio mio, qua bisogna usare gli infradito. Piccole piastrelle blu decoravano le pareti della doccia e quelle attorno al lavabo. Molte però erano saltate, lasciando intravedere l'intonaco. Il soffitto era di un bianco ingrigito, c'era solo una lampadina accesa, senza plafoniera. Gialla, un colore che sapeva sempre più di divinazione, un ossessivo segnale, un grido disperato dal futuro. Tutto l'ambiente lasciava trasparire un senso d'incuria e di quasi abbandono.

«Jennifer, chi si lava per primo?». «Io, prima io!» esclamò. «Non toccare coi piedi il pavimento della doccia». Jennifer sembrò sbiancare. «Che ti aspettavi, il Superstar Hotel di Grand North City?» chiese lui ironico. Jennifer si rassegnò all'idea, scuotendo la testa e fissando a terra. A turno, si lavarono. Quando uscì dal bagno, Sam indossava una canottiera che lasciava intravedere gli addominali scolpiti e le linee scultoree del suo corpo. Non era troppo muscoloso, ma era ben proporzionato e asciutto. Con fare distratto, raccolse sul letto il pigiama che aveva preparato, una maglia di cotone blu. Poi notò che i letti erano stati avvicinati, mentre il comodino era stato spostato ai piedi della cassettiera. Jennifer era distesa a pancia in giù. Aveva i gomiti poggiati sul letto e le mani sollevate che le reggevano il capo. Ciondolava le gambe, mostrando i piedi scalzi. Si era vestita con il suo pigiama rosa con fiorellini rossi. Aveva la bocca semiaperta e aveva l'anulare destro tra i denti che stringevano appena. Gli partì un risolino. «Jennifer, che significa?» chiese Sam un po' infastidito. «Volevo solo mettere i letti vicini. Hai detto che mi volevi proteggere, quindi meglio stare così, non ti pare?». Sam non poteva credere ai suoi occhi. Quello sguardo da gattina, il rossore delle sue guance, la posa maliziosa... lo voleva sedurre. Spalancò la bocca, incredulo. Riassestò la sua mente. Dio, le generazioni di oggi! Ma che le passa per la testa a questa caccola!? Si avvicinò a lei, accennando un sorriso. Jennifer scattò mettendosi seduta sul materasso e abbassò un po' lo sguardo, tenendo sempre la bocca semiaperta. Si passò con la lingua il labbro superiore. Tese le braccia all'indietro, in modo tale da pronunciare il suo piccolo seno. Ammiccò abbassando di poco la palpebra destra e con vocina bassa disse: «Saaam!? Che vuoi farmi?». Le partì un altro risolino, questa volta più da donna che da ragazzina. Senza neanche accorgersene, le labbra di Sam si erano già avvicinate alle sue.

Jennifer sentì una vampata partirle dal collo e invaderle il volto, come se si fosse avvicinata a un forno a gas. Ormai era a pochi centimetri. Protrasse la testa all'indietro di un palmo. Sentì le labbra inumidirsi e deglutì. Sto per baciare Sam, un uomo adulto. Ma ora lo desidero io. Non pensavo fosse quel tipo. Poco importa. A quel pensiero le partì un sorrisetto. Sam sembrò ricambiare. Jennifer chiuse gli occhi e si fece avanti. Aspettò qualche secondo ma nessun bacio arrivavò. Forse s'è tirato indietro? Sarà timido? Ci avrà ripensato? Sentì all'improvviso il letto spostarsi di poco sotto di lei. Decise di dare un'occhiata sollevando di poco una palpebra. Vide Sam con le guance gonfie e rosse che a stento tratteneva le risate. «Ma cosa...?» sussurrò lei. Sam le soffiò in faccia e gli partì una risata grassa e isterica. Jennifer rimase a bocca aperta. E quando ancora stava cercando di metabolizzare quello che stava succedendo, Sam, ridendo come un clown pazzo in un circo, prese l'orlo delle coperte del letto di Jennifer e le sollevò con uno scatto rapace. Avvolse la ragazza come se fosse un cannellone. «Sam, cosa diamine stai facendo!? Sam!!!». Provava a divincolarsi, scalciando come un bebè nella pancia della madre. L'uomo sollevò il batuffolo di coperte tenendo la presa ben salda. Si meravigliò di quanto fosse leggera e gli fece una certa impressione. Notato quel particolare però, non perse tempo a buttare la fanciulla con annessa protezione di cotone a terra. Si sentì partire un sommesso: «ahi!». Jennifer, non senza difficoltà, riuscì a divincolarsi da quella soffice morsa. Sbucò con la testa fuori, come un piccolo criceto fuori dalla sua tana, almeno fu quella l'impressione che ebbe Sam. L'uomo non riusciva in alcun modo a trattenere le risate. Aveva il dito puntato contro la ragazza, con una mano si manteneva lo stomaco, era paonazzo in volto e aveva la testa protesa all'indietro. Jennifer, invece, se l'era un po' presa. Guardava incredula Sam, poiché non si aspettava minimamente una simile reazione. C'era cascata, o meglio, lei credeva per davvero che Sam avesse deciso di accontentare i suoi bollori adolescenziali. Fissava l'uomo a bocca aperta, con la frangetta scompigliata che le offuscava in parte la vista. Diede uno sbuffo per spostarla, ma, non riuscendoci, si passò nervosamente una mano tra i capelli. Sollevò il nasino e fissò Sam a denti stretti. In quel momento, si sentiva arrabbiata, delusa e piuttosto in imbarazzo. Abbassò il capo e fissò il pavimento polveroso, incapace di guardare l'uomo negli occhi. Avrebbe voluto che il terreno la inghiottisse, ma non era ancora finita.

Sam, nell'enfasi del momento, rincarò la dose: «cioè, davvero hai creduto che baciassi una tredicenne!? Una tredicenne!?». Partì un'altra grassa e isterica risata. «A parte gli occhi, sei alta come un puffo, ascolti musica incomprensibile e sei magra quanto un topolino, un piccolo folletto con gli ormoni impazziti!». Partì l'ennesima fragorosa risata. Jennifer la prese ancora più a male. «Voi uomini siete tutti uguali! Siete degli ipocriti! Se avessi diciotto anni, mi saresti già saltato addosso!» ribatté lei. «Non credo proprio» sentenziò l'uomo, con una punta di severità. Poco alla volta si ammutolì. Vide il volto di Jennifer incupirsi sempre di più. La ragazza abbassò ancora di più lo sguardo e gli occhi le si riempirono di lacrime. Si asciugò con il dorso delle mani prima che le gocce potessero toccare il pavimento. Gli angoli della bocca si inarcarono verso il basso. Un singhiozzo irrefrenabile le partì dalla gola e prese il sopravvento. Le spalle saltellavano come quelle di un canguro. Questa volta era Sam a sentirsi imbarazzato. Si rese conto di aver utilizzato parole fin troppo severe e dispregiative nei confronti della ragazza. Quando si è giovani, a volte, si commettono azioni stupide o avventate, frutto più degli istinti che del ragionamento. Avrebbe potuto limitarsi a sgridarla, invece l'aveva schernita. Non riuscì a reggere la vista di Jennifer che piangeva. In quel momento si sentiva come un bullo che aveva preso di mira un bambino più piccolo ed era stato scoperto. Fissò il suo letto e si grattò il capo, a disagio. Ora avrebbe voluto dire qualcosa di consolatorio, ma ormai il danno era fatto e qualsiasi cosa avesse detto gli sembrava più un contentino, un goffo tentativo di rimettere insieme i cocci di un vaso rotto.

Frattanto, Jennifer si divincolò dalle coperte, un grosso mantello che avvolgeva quel corpicino magro e tubolare, reso ancora più fragile da settimane e settimane di carenza di sonno. Grosse macchie nere le circondavano le palpebre, come un trucco troppo appariscente, risaltate ancora di più dal pallore innaturale della pelle. Era inquietante il fatto che su una pelle così liscia e giovane si fossero già formate delle piccole rughe sulla fronte e qualcuna appena sotto gli occhi. Sam diede una rapida occhiata a quel triste quadro e un nodo alla gola sembrò fermargli il respiro. Jennifer stava già sistemando il suo letto con gli occhi ancora umidi, mentre Sam se ne stava impalato e inerme come una statua. Gli uomini sono tutti uguali, un branco d'idioti. Che sfiga, oh! Quando non me li voglio fare, mi fanno, quando invece me li voglio fare, mi prendono in giro... quei pensieri la rattristirono ancora di più e il pianto si fece meno singhiozzato, ma più costante. Ora le mani non bastavano più per asciugarsi. «S-scusa» borbottò Sam, in modo assai poco convinto. Era il meglio che riuscisse a dire in quel momento. Jennifer recepì il messaggio, ma non reagì in alcun modo. Ignorò del tutto l'uomo fino a quando l'ultima piega sulle coperte non fu scomparsa del tutto. S'infilò sotto al morbido manto e si voltò dando le spalle a Sam, osservando quel grosso e orrendo armadio di pessimo gusto. Sembra più una bara che un armadio. Una bara, sì... è proprio quello che ci vorrebbe per me, una bara, così mi levo dalle scatole e non do più fastidio a nessuno e allo stesso modo nessuno potrà più darmi fastidio.

Quell'ennesimo flusso di coscienza fu interrotto dal frastuono dei piedi del letto che strisciavano sul pavimento. Sam aveva avvicinato il suo letto a quello di Jennifer, buttandosi con pesantezza sul materasso. Il peso di Sam aveva fatto sì che le molle si lamentassero e lanciassero un rumore acuto, ovattato e metallico allo stesso tempo. L'uomo s'infilò con scioltezza sotto le coperte. Jennifer, incuriosita dalle misteriose azioni dell'uomo, si voltò di scatto. Sam s'era messo a pancia in su a osservare il soffitto. Le lacrime di Jennifer s'erano già asciugate, lasciandole un senso di appiccicaticcio sulle guance. Si strofinò gli occhi e, appena li ebbe riaperti, trovò un fazzoletto a pochi centimetri da lei. Sam gliene aveva offerto uno. Jennifer non riusciva a capire se fosse contento, triste, imbarazzato oppure stanco. Il volto non mostrava alcuna espressione particolare. La pelle era rilassata e le labbra erano in posizione di riposo. Poi, vide che all'improvviso si inarcarono verso l'alto. Sam le stava sorridendo. Jennifer ne fu in qualche modo rincuorata. Afferrò con le sue piccole mani il fazzoletto e lo usò per soffiarsi il naso. Piccoli sbuffi, microscopici sfiatatoi che producevano un suono quasi aggraziato che all'udito metteva tenerezza. Sembrava che a soffiarsi il naso fosse una neonata e non un'adolescente. «Grazie» disse lei con vocina allegra, allungando la mano con il fazzoletto verso Sam. L'uomo mosse la testa all'indietro. Non se la sentiva di dover afferrare il suo moccio. Le indicò col dito di lanciarlo verso l'enorme cassettiera. E così fece: descrivendo una parabola perfetta, il fazzoletto atterrò proprio sul bordo del mobile. Jennifer, che aveva sollevato il busto per meglio prepararsi al lancio, si abbassò e si sistemò al meglio sotto le coperte. «Scusami, ho davvero esagerato prima. Ascoltami, sei una caccola carina, ma sei una caccola, capisci?» disse l'uomo con un tono così calmo e pacato che ricordava più un genitore che non un amico. La ragazza, annuendo, disse: «d'accordo, ci riproverò fra qualche anno». Sam voleva di nuovo mettersi a ridere, divertito dalla cocciutaggine della ragazzina, ma si limitò a un sorrisino. Allungò la mano sulla sua testa e le strofinò i capelli. Partì una risata divertita da parte di Jennifer. Sam, dapprima notò i suoi piccoli canini appuntiti: avevano un qualcosa che scatenava un certo senso di tenerezza in Sam. Poi fissò di nuovo il suo volto. Le rughe che prima aveva notato sembravano scomparse. Le chiazze nere erano sempre lì, ma quegli occhioni verdi riscattavano tutto. Bastava osservare la luce in fondo a quelle gemme per capire che ci fosse ancora il tempo per salvarla e che il Male ancora non aveva trionfato sul Bene.

«Sam?». «Dimmi, caccola». «Per favore, mi tieni per mano questa notte? Ho... ho paura». Lo disse con un tono di voce così basso e carico di tristezza, che Sam non ci pensò due volte. Jennifer mise la sua mano minuta nel palmo rugoso e ben più grande di Sam. Chiuse subito gli occhi, con un leggero sorriso stampato sul volto. L'uomo si sentì sollevato. Restò per una decina di minuti a osservare il volto della ragazza, che intanto s'era messa sull'altro fianco, di fronte a lui. Una trentina di centimetri separavano i due viandanti, piccole lucciole nella notte buia e infernale. Jennifer si limitava a stare con gli occhi chiusi, come per un pisolino pomeridiano. Appurato però che la "caccola" stava bene, chiuse gli occhi anche lui. Più tardi avrebbe constatato con stupore la facilità e la velocità con la quale aveva preso sonno. Avrebbe voluto rimanere sveglio a fare da guardia, ma quella fu una sera particolare. Era come se qualcuno, o qualcosa, lo stesso trascinando nel dolce letto di un fiume, dove la corrente del sonno lo avrebbe trasportato via. Una voce soave sembrò farsi strada tra i meandri dei suoi ricordi, nel suo inconscio, un'onda marina che leviga una limpida e immacolata spiaggia tropicale. Sam ebbe la sensazione di stare sospeso nel vuoto, nell'infinità della Creazione, in un punto qualsiasi dello spazio. Uno spazio senza sopra e senza sotto, senza destra e senza sinistra, senza dritto e senza storto. Aprì gli occhi. Galleggiava. Dove mi trovo? Dove sono? Sento delle voci... mamma? Papà? Siete voi? Si voltò verso un bagliore bluastro, che lottava contro quel nero assoluto e tetro. Sopra di lui (o sotto di lui) c'era un enorme specchio opaco, attraverso il quale filtrava una luce bianca. Aguzzò lo sguardo. Non arrivava nulla alle sue orecchie, non un alito di vento lambiva il suo corpo. Aveva la sensazione di essere nudo e vestito allo stesso tempo. Non provava alcuna sensazione particolare, se non una leggerezza corporea, come se fosse fatto di elio, e quella levità della sua testa, come sgombera da ogni pensiero, da ogni ricordo, da ogni frammento infinitesimo di vita, attimi fugaci e sfuggenti, come sillabe cantate al vento che si allontanano e si disperdono dalla loro fonte, mescolandosi per sempre nell'immensità dell'etere, nella sua infinita conoscenza e imperscrutabilità.

Continuava a fissare quello specchio, sospeso in uno spazio senza spazio, nel tentativo di dare un senso, di comprendere ciò che stava succedendo e dove si trovasse. Forse a Sam stesso non importava più di tanto. Non aveva voglia di cercare, aveva solo voglia di lasciarsi andare, di farsi travolgere dal mistero profondo che avvolge... l'Esistenza. Pensieri arcaici, che provenivano da altri mondi, da altre ere, da altre parti, cominciarono a colpire la sua coscienza e il suo inconscio, come piccole biglie che si scontrano tra di loro, producendo piccoli scintillii, scosse elettriche cariche di inspiegabile energia magica, una forza sconosciuta che a un certo punto della vita impone a ogni uomo di porsi determinate domande. Chi sono? Cosa sono? Cosa faccio? Sogno... è un sogno questo? Sono io questo? Un altro Io? Dove vado? Perché vado? Ma... quella non è Jennifer? Appena oltre quello specchio limitato, ma allo stesso tempo infinito, lontano, in un gioco incomprensibile di geometrie e misure falsate, come a voler imbrogliare lo sguardo di chi osservava, Sam intravide il volto di Jennifer, con gli occhi chiusi. Era l'immagine di com'era la ragazzina prima che lui si addormentasse... ma certo! Mi sono addormentato! Ora provo a chiamarla. Non ci fu verso. Non una singola parola usciva dalla sua bocca. Era come se le corde vocali gli fossero state asportate. La sua bocca non era né secca né umida. Non gli sembrava di avere saliva, ma allo stesso modo non sentiva la necessità di bere. Era come... come se non esistessi.

Delle voci confuse sembrarono chiamarlo da un'altra direzione. Sembravano lontanissime, ma appena arrivavano alle sue orecchie (quali orecchie?) sembravano amplificarsi. Erano lamenti, gorgoglii indistinguibili, parole che non erano parole, una composizione di suoni senza alcun significato apparente. Impossibile descriverli e provare a dare una spiegazione razionale. Sam, colto da una curiosità improvvisa (una nuova sensazione), si voltò nella direzione opposta rispetto allo specchio (ora aveva un riferimento). In quel pozzo nero, illimitato in tutte le direzioni possibili e immaginabili, vide delle luci colorate iniziare una danza intermittente, come a voler inviare un messaggio in codice. Il segreto della forza è dentro di te. Quelle parole sembrarono formarsi nella sua mente, come un'immagine che appare all'improvviso sullo schermo di un computer; poi vide una città: grattacieli, frastuono di gente, clacson di auto. Era Grand North City. La vedeva dall'alto. Non riusciva a comprendere come potesse vedere nella sua mente un'intera città dall'alto. Non lo aveva mai fatto in vita sua, come poteva dunque avere un simile ricordo? Le luci colorate, sfavillanti come lampadine in un bazar orientale, si spensero generando un buio abissale, un'assenza totale di tutto ciò che è pensabile dall'uomo. Nulla. Il nulla più totale. Una nuova emozione: paura. Qualcosa aveva preso il posto della città.

«Non puoi sconfiggermi Sam... la Morte è il termine di ogni Vita e l'inizio di ogni Esistenza... la Morte è il dono più grande che la Creazione ci ha donato... essere col Tutto dà un significato a quello che è il Percorso... Sam, non puoi sfuggire all'inevitabile, alla fine, ballerai... ballerai anche tu... e sarà un'orgia senza fine».

Due luminosissime sfere fucsia fosforescenti colpirono in pieno Sam, due fari accecanti e incantatori. Un tanfo nauseante sembrò bruciargli l'olfatto, un senso che era apparso quasi per magia da un momento all'altro. Che puzza è? Zolfo? E cos'è questa luce? Dio, quanto è fastidiosa, è così... spaventosa! Basta, smettila! Chi sei? Chi sei!? Una risata lenta, grave e malefica fece vibrare quel nulla, percuotendo un'aria che non c'era. Sam osservò quei due forti getti di luce affievolirsi fino a diventare piccole luci. E poi... un mostro! Enormi fauci senza denti, un tornado d'acqua volteggiare a formare un buco. Le fauci di quello là. No, ti prego, non di nuovo, non come l'altra volta! Lunghe braccia nere, tentacoli fetidi e ricoperti di melma nerastra, lunghi come interi grattacieli messi insieme, si avvicinarono a Sam, come a volerlo afferrare e stritolare. Sam sentiva che voleva stritolarlo. Avrebbe voluto urlare, ma le parole continuavano a restare idee nella sua mente, non riusciva a tramutarle in suoni. Poi il mostro parlò: «sei mio, Sam. Non puoi sconfiggermi. Lasciati andare, vieni come me. Sarai libero... per sempre... non vuoi ritrovare i tuoi genitori, Sam? Io posso darteli...». A quelle parole, Sam si sentì annullato. Era bastata una semplice frase per convincerlo. Lui sapeva che mentiva, ma non poteva fare a meno di credergli. Voleva seguirlo, lo desiderava con tutto il cuore. Dal momento in cui Sam si era addormentato erano passati poco più di venti secondi. Jennifer aveva riaperto gli occhi e fissava il volto tranquillo di Sam. Sembrava quasi beato. «Sembra un angioletto – sussurrò – che fortuna che ha Millie!». Strinse ancora di più la mano di Sam.

All'improvviso, la ragazza cambiò espressione, assumendo uno sguardo serio. Aveva percepito qualcosa. «Se devi insultarmi, fallo subito. Lo so che sei qui, quindi non far finta di fare il buono questa sera. Avanti, di cosa vuoi parlare? Di quanto sono una puttanella? Tanto il novantanove percento dei nostri discorsi è sulla mia sessualità» sbottò Jennifer, quasi non curandosi che accanto a lei ci fosse Sam addormentato. Avvertì un sibilo repentino. D'istinto, posò lo sguardo sulla cassettiera. Sul fazzoletto che aveva lanciato poco prima erano apparse delle goccioline nere, da cui grondava una sostanza nauseante, infetta. Si levò un odore di uova marce. Quella specie di petrolio si allargava, formando piccole sfere che andavano unendosi.. In pochi secondi il risultato fu chiaro. Un volto umanoide, senza occhi, senza naso e senza orecchie, nero, avvolto fino al labbro superiore da bende dello stesso colore, sogghignava beffardo, pronto a infastidire per l'ennesima notte Jennifer. Quella tortura durava da così tanto che la ragazza iniziava a gradire quegli incontri notturni, come in prede a una sindrome di Stoccolma.

«Ciaooo Jennifer!!! Co-Me Va!? Fai La Put-Ta-Nel-La Anche Questa Sera!? Sei Proprio Una Sver-Go-Gna-Ta, Lo Saiii? Vo-Le-Vi Scoparti Un Uomo Adulto Jennifer? Vo-Le-Vi Riprovare Le Stesse Emozioni Che Avevi Quando Ti Scopava Tuo Pa-Dre? Sei Proprio Una Puttanellaaa...».

Jennifer sollevò il busto e applaudì in modo ironico, battendo appena i palmi. «Wow, grande saggezza da parte tua... sei così limitato che non sai dire altro? Sai, sta diventando abbastanza noioso il nostro rappor...». Jennifer si fermò di colpo. Mosse la testa all'indietro, sbarrò gli occhi e per poco non colpì la testiera del letto. Il volto oscuro le si era palesato davanti, più veloce di quello che i suoi occhi avrebbero potuto percepire. Vide i suoi aguzzi denti gialli e sporchi, stuzzicadenti putrefatti e anneriti, come invasi da migliaia di cancri mortali. La pelle era rugosa e piena di pustole. Del liquido nero cominciò a colare sulle coperte. Jennifer stava per vomitare e si ricordò che quello non era un gioco, era qualcosa di reale, per quanto limitato alla sua mente, e che non aveva voglia di scherzare con quel mostro. Le sue intenzioni erano serie, omicide. La prese una paura indomabile come un cavallo selvaggio, un gelido vento invernale, sferzante e diabolico, carico di un odio recondito e in apparenza immotivato.

«Jennifer, Lo Sai Che Non Puoi Ri-Vol-Ger-Ti A Me In Quel Modooo... Tu Sei Entrata Nella Mia Co-Scien-Za, Jennifer, E Io Sono En-Tra-To Nella Tuaaa... Comprendi?».

La ragazza annuì in modo convulso. Teneva il polso destro nella mano sinistra e tremava come dei rami d'ulivo al vento.

«Vi-Sto Che Ti Credi Tanto Su-Pe-Rio-Re, Perché Non Provi A Sal-Va-Re Il Tuo Amicooo...».

Il volto alieno scoppiò in una bolla, gocciolando sulle coperte. Jennifer batté le palpebre un paio di volte. Restò a fissare quelle macchie scure che l'attiravano come le zanzare con le luci blu. Poi sentì il letto muoversi. Era Sam, sudava copiosamente. Si agitava e ansimava, proprio come in preda a un incubo. Jennifer allungò la mano verso di lui. Sam si teneva la testa, come se qualcosa gliela stesse ustionando. Cominciò a urlare, come in preda a un dolore pungente. «Sam, Sam, Sam! Svegliati! Sono io, Jennifer, svegliati!». L'uomo sembrava non sentire. Si tolse le mani dalla testa e si afferrò il petto, stringendolo forte con i palmi all'altezza del cuore. Oh, no! Ha preso possesso della sua mente! Si è insinuato in un suo sogno! Vuole ucciderlo di paura, vuole fargli venire un infarto! Devo salvarlo! 

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