CAPITOLO 7 (Parte 1)

Jennifer e Sam, ottobre 2006

Gocce. Gocce di pioggia battevano con insistenza sulla carrozzeria del vecchio pick-up rosso che procedeva costante e inesorabile verso la sua meta. L'acqua batteva con una tale insistenza che sembrava voler fermare il mezzo, come a intimargli di non proseguire la sua corsa, perché più avanti andava, più la morte lo trascinava verso di sé. Era come avvicinarsi in maniera avventata al ciglio di uno strapiombo, il cui fondo è spietatamente offuscato alla vista, tanta è la sua profondità.

La morte era rappresentata da un nero fungo che aleggiava e sospirava in lontananza, verso Primestone, la meta finale di Jennifer e Sam. L'uomo osservava con enorme stupore e terrore quelle nuvole che si ammassavano, come attirate da un magnete, uno spirito maligno che attirava tutto ciò che di peggio c'è nel mondo. Tra un buono e un criminale, lui attira il criminale, tra il Sole e la pioggia, lui attira la pioggia, tra la fortuna e la sfortuna, lui attira la sfortuna. E allo stesso modo, Sam non poteva far altro che restare esterrefatto dal constatare che il vento soffiasse in direzione contraria. Le nuvole si addensavano verso la città, ma il vento soffiava verso l'esterno, sferzando sull'auto e producendo una lieve vibrazione metallica, come aria che soffia nelle canne di un grosso organo. Sam doveva mantenere ben salda la presa sul volante, per evitare che il mezzo sbandasse per via dell'asfalto bagnato o per le improvvise folate di vento che sembravano possenti colpi di frusta, codate di un uragano assassino. Nello stesso momento, Sam doveva badare a Jennifer, una ragazzina appena adolescente sottoposta ad avversità ben superiori alle sue facoltà, che in quel momento aveva appena terminato di raccontare una parte di quella lunga, bizzarra e spettrale storia, una serie di eventi abominevoli che avrebbero ridotto a brandelli, come vecchi vestiti usurati, la sanità mentale di qualsiasi essere umano.

Di tanto in tanto, Sam si voltava a guardare la fanciulla con un misto di ammirazione e preoccupazione. Si chiedeva se anche lei non fosse altro che un mostro, perché a immergersi nel fango, alla fine ci si sporca. Allo stesso tempo, si contorceva nell'animo e si chiedeva in modo disperato come potesse quell'uccellino dagli occhioni verdi sprigionare una simile volontà d'animo, una forza sovrannaturale, alla stregua del divino, come una corazza che la difendeva a tal punto da poter sopportare tutto quello. A Sam ancora non era chiaro in maniera limpida quanto potesse essere importante ciò che stava per compiere. Credeva con fermezza alla storia di Jennifer, ne era convinto come si è convinti che la somma di due numeri positivi restituirà sempre un numero positivo. Ma allo stesso modo non riusciva a immaginare il nemico che si sarebbe trovato davanti.

Ex agente dei servizi segreti, divenuto mutante a seguito di un incidente, avrebbe affrontato il nemico più grande della sua vita e forse il più grande che l'umanità avesse affrontato fino a quel momento. Ma si sa, la possibilità degli eventi si misura sperimentandoli sulla propria pelle. La vita è un gran laboratorio e gli uomini fanno da cavie ai suoi esperimenti alle volte bizzarri, alle volte piacevoli, altre crudeli. In quel caso, crudeltà e bizzarria si mescolavano alla perfezione, come una spruzzata di limone sugli anelli di totano fritti. Piacevolezza? Sam provava quel sentimento solo in virtù dell'adrenalina che scorreva a cascate impetuose nel suo sangue, enfasi ed eccitazione che tendevano i muscoli come archi pronti a scoccare la freccia fatale. Intanto l'abitacolo s'era riempito di fumo, con Sam che si era limitato a un paio di sigarette, mentre Jennifer ne aveva fumate almeno otto e ora si apprestava a fumare la nona. Avrebbe voluto sgridarla, ma preferì evitare, pensando che lasciarla parlare fosse un modo per sfogarsi e fumare l'aiutasse a scaricare la tensione che si accumulava a mano a mano che le parole fluivano fuori, uno scroscio interminabile di sillabe, vocali e consonanti a formare trame taglienti, pungenti e inquietanti. La ragazza fece un profondo tiro, a tal punto che la cenere sulla punta della sigaretta cadde sul tappetino unto e invecchiato, polveroso come un vecchio materasso mai battuto. Inspirò con altrettanta costanza e forza, come a voler ricaricare in un solo colpo le batterie quasi esaurite. I suoi occhi erano sempre più gonfi e quelle borse nere rendevano il visino di Jennifer triste: sembrava che supplicasse pietà a ogni sguardo.

Jennifer avrebbe fatto di tutto per provare a dormire almeno un paio d'ore in modo profondo. La mano che reggeva la sigaretta tremava, un piccolo ma deciso tremore che innervosiva Sam, incapace di trovare una soluzione quantomeno temporanea a quel problema. Avrebbe volentieri scambiato alcune ore di sonno delle sue per far riposare l'amica. Perché quello era ormai per lui, una cara amica che aveva bisogno disperato di aiuto e lui avrebbe fatto anche l'impossibile per lei. Non sarebbe tornato per nessuna ragione indietro, anche se ciò fosse significato morte o perdita delle proprie facoltà mentali. Perché, per Sam, essere vivo ma vegetale, incapace di scegliere, era una punizione smisuratamente più grande della morte. La morte ti trapassa, la sofferenza ti consuma. Ma per lei avrebbe corso anche quel pericolo. Non conosceva la ragazzina da molto. Alla ricerca di un soggetto in particolare, dopo anni vissuti nel Grande Sud, la sua terra d'origine, era tornato nel Grande Nord per compiere il suo destino. La sorte aveva voluto che arrivasse a Primestone proprio in quella notte di ferragosto, salvando la vita di Jennifer e dei suoi amici, gli Sfigati. Ora, alcuni mesi dopo, si ritrovava di nuovo sulla stessa strada, questa volta per sconfiggere definitivamente quel Male che la prima volta non era riuscito a mettere al tappeto, ma che anzi lo aveva sopraffatto con una tale facilità che per settimane l'uomo fu preso da un forte senso d'impotenza.

Jennifer continuava a fissare il paesaggio oltre il finestrino, con sguardo perso, come se non le importasse di nulla in particolare. Aveva gli occhi socchiusi. Con il braccio sinistro si cingeva la vita, mentre con la mano destra reggeva tra indice e medio la sigaretta, ormai già quasi del tutto consumata. Prese un ultimo respiro e, con fare lento, schiacciò con pesantezza il mozzicone nel posacenere, ormai strapieno come un cassonetto dell'immondizia in un quartiere popolare. La cenere accumulata svolazzò per l'abitacolo, sollevando un tanfo di tabacco bruciato. Con sguardo perso si sistemò con la schiena sul sedile, scomodo come non mai e si lasciò andare, come a voler sprofondare nell'imbottitura, scivolando per qualche centimetro verso il basso. Fece un sospiro prolungato, come a volersi liberare dell'ennesimo peso sullo stomaco e fissò in avanti, dopo aver dato un profondo sbadiglio, un lamento prolungato, e senza mani per giunta. Stropicciò gli occhi nel tentativo di tenersi sveglia, perché, pur avendo un sonno tremendo, preferiva essere vigile piuttosto che rischiare di sprofondare nella melma più nera e profonda che l'esistenza avesse potuto creare. Nera Minaccia. Quello era il loro nemico. Un'entità in bilico tra il mondo reale e qualcosa che sfugge perfino alla fervida immaginazione di un uomo. Forse è qualcosa di vicino alla fantasia di un bambino o di un preadolescente che sta per lasciare il mondo dell'infanzia per sempre. Con l'età adulta, la cultura, la famiglia e la società consolidano certe convinzioni, delimitando in modo chiaro e netto ciò che è vero da ciò che è falso. Ciò che deve essere da ciò che non può essere. Che fosse stata la mancanza di questo limite ad aiutare Jennifer e gli Sfigati a superare un simile ostacolo? La loro apertura mentale e la loro mente ancora malleabile potevano difenderli da una simile mole di assurdità? Questi quesiti continuavano a tormentare Sam, impastandosi come zucchero filato nel grosso cestello di ferro, riscaldato dalla fiamma della curiosità, che da sempre contraddistingue gli uomini dalle bestie. Il pensiero cosciente. Ma alle volte sarebbe meglio non averlo, urlò l'uomo all'improvviso nella propria mente, cercando di dare una risposta finale a quella cloaca di pensieri funesti.

All'interno dell'abitacolo era calato il silenzio. Sam diede un paio di rapide occhiate a Jennifer. Voleva sincerarsi che stesse bene e che non avrebbe fatto niente di stupido. Aveva sempre il sentore che avrebbe potuto fare qualcosa d'avventato (togliersi la vita), ma ogni volta provava ad acquietare quelle sue paure, pensando che la ragazzina avrebbe retto. Che coraggio a pensare una simile cosa, Sam non è che stai sopravvalutando la caccola? No, non la stava sopravvalutando. Jennifer era forte. Non era invincibile, ma era rocciosa in maniera sorprendente, molto più di lui. Nonostante le condizioni della ragazzina, provava un pizzico d'invidia, un fuocherello fatuo in quel rogo di pensieri. E quel pensiero lo fece vergognare non poco, ma restò impassibile, perché mostrare insicurezza a Jennifer sarebbe stato un modo per trasmetterle una paura ancora maggiore. Sam quindi preferì rimanere concentrato. Con una rapida occhiata diede uno sguardo all'orologio. Erano passate più di sei ore da quando s'erano fermati alla stazione per fare rifornimento e prendere roba da mangiare (e sigarette, l'alimento preferito di Jennifer). La maggior parte del tempo lo avevano trascorso parlando, con Jennifer che raccontava la sua storia, mentre Sam faceva domande (deformazione professionale, aveva pensato lui). Ogni tanto facevano una pausa sbocconcellando qualche merenda e quei dannati biscotti, la cui frolla s'era incastrata tra i denti dell'uomo, dandogli una sensazione di fastidio gengivale perenne. A un tratto Jennifer sembrò come destarsi da un lungo e profondo sonno.

«Sam, è una palla mortale, quando ci fermiamo? Sono stanca morta e questo sedile mi sta uccidendo» sbottò lei. «Ho controllato poco fa sulla mappa, fra una decina di minuti dovremmo trovare un motel. Ci fermeremo lì per la notte e ripartiremo domani mattina. Nel pomeriggio saremo a Primestone». Il tono dell'uomo era pacato e riposato. Diede un paio di colpi di tosse per via dell'abitacolo troppo impregnato di fumo anche per lui. Afferrò la manovella con vigore e diede un paio di giri per abbassare il finestrino. Un gelido fiato entrò all'interno e anche delle gocce di pioggia, come pungiglioni freddi. «Sam, alza! Mi farai prendere un accidente!» protestò Jennifer. «Due minuti caccola, il tempo di far entrare un po' d'aria. Sembra una camera a gas questo posto!». Il tono di Sam si era fatto più alto, un po' stufato delle continue lamentele dell'adolescente. Lui non aveva figli e non si era mai posto il problema di crescere una famiglia. A volte aveva desiderato averla, ma ogni volta aveva desistito, un po' per paura, un po' per mancanza materiale di possibilità. Jennifer sbuffò un paio di volte, mettendo le braccia conserte. Irrigidì il collo guardando dritto davanti a sé e tenne strette le labbra rosate e appena accennate che divennero ancora più invisibili. Passarono due minuti esatti e, preciso come sempre, Sam richiuse il finestrino. Il freddo sembrava aver mitigato il tanfo di fumo e cenere. Jennifer rabbrividì e sbuffò ancora una volta. Una vena sulla tempia di Sam iniziò a pulsare. Avrebbe voluto strangolarla. Crescere una mocciosa o un moccioso? Non sia mai! E chi reggerebbe? Lo butterei dal quarto piano già il primo giorno!

«Posso mettere un po' di musica?» chiese Jennifer in maniera concitata, come se sapesse già che in qualche modo Sam si sarebbe lamentato. «Fa' pure» rispose lui in modo distratto, quasi con noncuranza, agitando la mano, come a dire: «vai, procedi pure, tanto fai sempre tutto quello che ti passa per la testa». Jennifer sollevò gli occhi e li roteò, muovendo la testa a destra e a sinistra, come se volesse imprecare con lo sguardo. Poggiò tre dita sulla piccola manovella scura dell'autoradio e cominciò a girarla, provando a sintonizzarsi su qualche stazione radio. Dalle casse risuonò un fischio lancinante, come ferri che strisciano l'uno contro l'altro. Sam digrignò i denti. «Jennifer, è palese che non ci sia segnale, spegni quell'affare!». Jennifer non gli diede retta e continuò a passare da una stazione radio a un'altra. Sam cominciò a gonfiare il petto e poi a contrarlo, come a voler ristabilire una calma che vacillava in bilico tra la pazzia e la rabbia. Ora la strozzo, ora la strozzo, ora la strozzo! Quando lui stava per perdere la pazienza (avrebbe assestato un pugno alla radio) e lei le speranze, delle note e delle parole con un senso logico arrivarono alle orecchie dei due. Era una canzone. Sam sorrise e, come preso da un'irrefrenabile euforia, cominciò a battere il piede destro seguendo il ritmo della musica, mentre il suo volto s'illuminò di un sorriso raggiante. Al contrario, Jennifer sollevò il naso e strabuzzò gli occhi. Non gli piaceva per niente quella melodia. Quando la canzone arrivò al ritornello, Sam cominciò a cantare a squarciagola, stonando parecchio.

«I got my bell, I'm gonna take you to hell

I'm gonna get you, Satan get you Hell's bells Yeah, hell's bells You got me ringing hell's bellsMy temperature's high, hell's bells!».

Jennifer lo guardò sbigottita, con la bocca aperta, ascoltando con puro disprezzo quella melodia a lei incomprensibile. Distolse lo sguardo da Sam, come a volersi vergognare dello spettacolo che stava dando. Se avesse ballato nudo per strada, quasi di sicuro lei non avrebbe avuto la stessa reazione. «Oh mio Dio... che roba è!?» chiese lei abbassando il volume della radio. «Ehi, ehi! Perché abbassi il volume!? Questa è Hell's Bells degli AC/DC, uno dei più grandi gruppi rock di tutti i tempi! Forza, alza il volume!» rispose Sam quasi adirato, acuendo il tono di voce e fissando la ragazza con occhi sbarrati. «Non ci penso neanche, che razza di musica giurassica è!? Evolviti Sam, siamo nel ventunesimo secolo!» sentenziò lei. Lui la guardò con gli occhi sbarrati. La radio riprese a stridere, ma dopo pochi secondi, una nuova melodia già stava inondando l'abitacolo. «Questa è musica!». Jennifer avvicinò il volto a Sam e agitò la mano davanti alla faccia. Musica rap? Crede di essere un rapper? «I'm Slim Shady, yes I'm the real Shady. All you other Slim Shadys are just imitating, so won't the real Slim Shady, please stand up, please stand up, please stand up!» cantò la ragazza, felice come fosse libera da ogni pensiero cattivo, sentendosi per qualche secondo libera, come se ogni problema in quel momento fosse svanito nel nulla, trasportato dal vento. Sam portò una mano al volto e agitò la testa. Voleva mostrare disapprovazione, ma in cuor suo era colmo di gioia nel vedere un sorriso sul volto dell'amica e in fondo, molto in fondo, non gli dispiaceva così tanto quella musica, pur non essendo l'hip-hop il suo genere musicale preferito. All'improvviso però, la melodia cessò e la radio perse il segnale. «Alla fine, ballerete tutti... e sarà un'orgia senza fine».

Sentendo quella voce, metà umana metà aliena, Jennifer diede un urlo, mentre Sam sobbalzò, sfiorando con la testa il soffitto giallognolo del pick-up. «Ma che cazzo era!?» esclamò l'uomo che, in modo inavvertito, mosse il volante producendo un lieve sbandamento del veicolo. Jennifer, sconvolta e sbiancata come un pupazzo di neve, si apprestò a spegnere la radio, ponendo termine a quel fastidioso segnale. Cominciò ad ansimare. Sam guardò Jennifer e notò il vuoto nei suoi occhi. La paura l'aveva fatta estraniare dal mondo reale. Era ripiombata nei suoi pensieri, un muro mentale da cui non riusciva a uscire e che nessuno riusciva a scalare. Sam la accarezzò, cercando di non spaventarla ulteriormente col suo gesto. Sembrava un gattino infreddolito. Tremava tutta e aveva gli occhi lucidi. Aveva le mani unite, come a voler rivolgere al cielo una preghiera. Qualche ora prima, nel bagno, non aveva avuto la stessa reazione. Forse perché a quelle continue visioni si era ormai abituata. Era qualcosa che percepiva solo nella sua testa e sapeva che non aveva ripercussioni sul mondo esterno. Ora era diverso. Quell'improvvisa apparizione, come un ladro che entra in casa nella notte, era reale. Quello là era riuscito a insinuarsi nel segnale radio e si era palesato sotto forma di una voce distorta. Ora lei sapeva che lui sapeva che si stavano avvicinando. Le sembrò un monito, un avvertimento che intimava loro di non avanzare o ne avrebbero pagato le conseguenze. Con fare dolce e premuroso come solo un uomo gentile (o un padre, uno vero però) saprebbe fare, Sam strofinò la sua testolina, trasmettendole una sensazione di sicurezza, protezione e calma, come una medicina che fa subito effetto. «Sta tranquilla caccola, va tutto bene, ci sono qui io a proteggerti». Il tono dell'uomo era basso e profondo e sul suo viso s'era disegnato un tenero sorriso. Jennifer, di riflesso, sorrise e si asciugò gli occhi con il palmo della mano. Odiava che qualcuno la osservasse mentre era triste, la faceva sentire vulnerabile come un uccellino lasciato solo nel suo nido. Sam no. Lui non la metteva a disagio. Nonostante fosse un po' burbero nei modi (e lei una palla al piede), con lui riusciva ad aprirsi in un modo che in vita sua non le era mai riuscito di fare, in un modo diverso rispetto a come faceva con Sophia o con Leonard. «Grazie, Sam». «Grazie? E di cosa? Ringraziami quando tutto questo sarà finito». L'uomo sorrise ancora, questa volta chiudendo gli occhi e con maggior convinzione, inarcando di più le labbra.

Qualche minuto dopo, raggiunsero il motel. Nel parcheggio antistante c'erano poche auto. Una struttura fatta con pannelli di compensato, bianca e grigia, un po' annerita dal tempo. Già si poteva intuire il genere di comodità che offriva quella baracca. Al di sopra della porta d'ingresso, una vetrata divisa in due parti, unta come se fosse stata leccata, c'era un'insegna luminosa con lampadine al neon verdi, qualcuna fulminata, con la scritta "MOTEL". Sam e Jennifer scesero dal veicolo e presero i trolley. «Che fai, non aiuti una signorina?» pretese la ragazza. Sam annuì e afferrò il bagaglio di Jennifer. Oltre a essere più pesante del suo (che cazzo ci ha messo qui dentro?), era rosa e riportava in rosso una scritta: "I Fu*king Love Rap". Troppo ovvio, pensò l'uomo. Si diressero verso la porta d'ingresso. Quando Sam afferrò la maniglia, ebbe la sensazione che avrebbe dovuto disinfettarsi la mano. Non c'era un motivo evidente, ma gli balenò quella idea fulminante e giudicò che assecondarla sarebbe stata cosa giusta. Aveva raccomandato a Jennifer di stare sempre al suo fianco e di evitare di parlare con gli estranei. Sapeva che la ragazza avrebbe disubbidito, ma almeno lui aveva la coscienza pulita. L'ambiente era tinteggiato di bianco, tendente all'avorio e riprendeva lo stile semplice e austero dell'esterno. Niente fronzoli, niente soprammobili, niente oggetti d'arredo o decorazioni. Un ampio spazio con un paio di panchine imbottite di una stoffa blu attaccate alla parete. Il bancone della reception era di noce, scuro, e stonava con il resto dell'ambiente. Un silenzio assordante echeggiava in quel locale.

Una signora sulla sessantina, con degli enormi bigodini azzurri, stava leggendo un vecchio quotidiano. Chi leggerebbe un giornale di quattro giorni fa? notò subito Sam, vigile come un falco con la sua preda. Da ex agente notava questi piccoli dettagli come un bambino con i lecca-lecca. Il volto della donna era coperto dal giornale. Un'enorme vestaglia verde chiaro con dei motivi floreali copriva i suoi enormi coscioni. Sam intuiva che qualcosa non andasse, ma Jennifer aveva bisogno di riposare e, se fosse stato necessario, avrebbe vegliato tutta la notte. Da quando era diventato mutante, la fatica era diventata un concetto relativo. Dormire era ormai più un'abitudine che una reale necessità. E questa cosa lo infastidiva non poco e allo stesso tempo gli dava un po' di timore. Era assai raro che dormisse profondamente. In genere succedeva se la settimana prima aveva dormito solo alcune ore. Jennifer, invece, che di solito percepiva subito il pericolo, era del tutto rilassata. La stanchezza l'aveva privata del suo sesto senso e niente le parve fuori dall'ordinario o degno di sospetto. Ciondolava i fianchi, come se il suo peso fosse raddoppiato. Sentiva i polpacci pesanti, come se avesse dei sacchi di pietra legati alle gambe. Al bancone della reception, un uomo stempiato e molto grosso, con una camicia enorme a quadri bianca e rossa, paonazzo in volto come se si fosse tracannato un paio di bottiglie di vino, osservava gli ospiti con sguardo pietrificato. Non accennò a un sorriso e nemmeno a un gesto di saluto. Sam notò subito la sua assenza. Era lì con il corpo, ma la sua mente era da un'altra parte. Non avvertì pericolo in quell'uomo, più che altro gli parve preoccupato, come se qualcosa lo dannasse, ma non riuscisse a capire cosa.

«Salve, mi servirebbe una camera con due letti singoli per la notte». «Ho la numero trentatré libera» rispose l'uomo al bancone, con tono da robot, tanto la sua voce era piatta. Che cazzo è, uno zombie? L'uomo al bancone si voltò e con il dito scorse le chiavi appese a una bacheca imbottita con un feltro verde scuro. Afferrò la chiave, che produsse un dondolio con annesso suono come di campanella, che trasmisero una sensazione di inquietudine e disagio sia a Sam che a Jennifer. «Ecco a lei» riprese a parlare l'uomo, con quel tono piatto come se le corde vocali gli fossero state settate su un preciso parametro. L'uomo porse la chiave a Sam tenendola appena con la punta delle dita. Sam titubò per qualche istante, poi l'afferrò e se la mise subito nella tasca dei pantaloni. «Come funziona per il cibo? Colazione tipo?». «Per la colazione, la mattina serviamo in quella stanza cornetti caldi e riscaldiamo il latte» disse l'uomo indicando una porta grigia chiusa sulla stessa parete del bancone, alla fine di un corridoio illuminato appena da fioche lampadine che emettevano una luce bianca, offuscata dalla polvere che si era accumulata sulla superficie del vetro. L'intera stanza sembrava annebbiata dalla polvere, che intasava le vie respiratorie. L'uomo alla reception proseguì. «Se però avete fame ora, in fondo al corridoio c'è un cucinino. Potete prendere qualcosa da lì se volete. Offre la casa». In lontananza, in fondo a un altro corridoio che sembrava portare a una camera mortuaria più che a una cucina, c'era una porta aperta, oltre la quale si trovava una stanza illuminata da una luce pallida e gialla. Sam ne ebbe subito disgusto. Vide una delle pareti della stanza, imbrattata di una bava verde. Era muffa che si stava insinuando tra le fughe delle piastrelle. Anche Jennifer la osservò. Si nascose con la testa dietro Sam, aprì la bocca e puntò l'indice verso l'ugola, come a dire: «fa proprio vomitare!». «La ringrazio molto». Alla dichiarazione di Sam, l'uomo annuì. Sam chiuse la conversazione voltandosi e avanzò di qualche metro verso il centro di quell'enorme sala. Notò un paio di palme in grossi vasi di terracotta. Sulla parete, pochi metri alla destra del bancone, c'era un quadro con una tarantola nera stilizzata su sfondo bianco. Che pessimo gusto! Chi appenderebbe un quadro simile? Sam odiava gli insetti, soprattutto i ragni e gli scarafaggi, anzi, ne aveva un po' timore, oltre che disgusto. Preferiva evitarli. Il pensiero che in quel motel fatiscente ce ne fosse qualcuno gli faceva tremare le caviglie e contorcere lo stomaco, come se una pinza glielo stesse spremendo.

Mentre Sam continuava a osservare con scrupolo l'ambiente circostante, invece Jennifer se ne stava con la testa sulle braccia, appoggiata al bancone e fissava l'uomo alla reception. Fece uno sbadiglio, poi disse: «lo sa, quel signore laggiù è il mio ragazzo». Il titolare del motel, che sembrava si stesse per addormentare in piedi, rinsavì all'improvviso, come colto da una martellata in testa. «Come scusi?» domandò l'uomo, convinto di aver capito male. Jennifer sollevò la testa e la poggiò su una mano. «Vorrei tanto fare l'amore con lui, è così bono». A quelle parole, il signore strabuzzò gli occhi e si passò la mano nei capelli più volte, con fare nervoso. Si sentì a disagio nel vedere quella ragazzina sorridere. Sulle prime credette di avere capito male, poi si allarmò. Si avvicinò alla ragazzina e le sussurrò con voce un po' tremante: «vuoi che chiami la polizia? Se sei in pericolo fammi un cenno, ok? Per caso ti tocca?». «Magari mi toccasse!» esclamò Jennifer. Fece un sospiro e puntò gli occhi verso l'alto, come a voler viaggiare con la fantasia, fantasticando chissà cosa. Ma l'uomo dietro al bancone aveva ben chiaro a cosa pensasse la ragazza. Restò basito. Fece un paio di passi indietro e serrò le labbra. In quello stesso momento Sam, sentendo Jennifer alzare la voce (ma non aveva ben udito cosa avesse detto) la raggiunse, la afferrò per un polso e le sussurrò: «cosa ti avevo detto sul non rivolgere la parola alle persone?». «Uffa!» rispose lei. Sam diede una rapida occhiata al bancone. Il titolare del motel sembrava essere diventato pallido e se ne stava intontito come un salame appeso ad affumicare. Sam trascinò via Jennifer verso il corridoio, raggiungendo la porta che dava sul cucinino. «Ora mangeremo qualcosa, così almeno starai con la bocca chiusa». «Ora mangeremo qualcosa, così almeno starai con la bocca chiusa» ripeté Jennifer, facendogli il verso. Sam scosse la testa in segno di disapprovazione. La sua pazienza era già stata demolita. 

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