CAPITOLO 6 (Parte 6)

Lucas Kirchner non conosceva la storia dell'ex cartiera di Primestone. L'incontro del ragazzo con il suo destino era avvenuto in una giornata d'agosto dell'anno prima, durante la quale un autentico acquazzone s'era abbattuto sulla città fantasma, tambureggiando con gran foga. Lucas stava giocando da solo giù al Derrick, tirando dei sassi nel ruscello, quando fu colto di sorpresa dalla pioggia. Nella concitazione del momento sbagliò strada e si mosse nella direzione opposta rispetto alla Up Street. Percorse quasi un chilometro prima di rendersi conto di trovarsi in un tratto del Derrick che non conosceva. Si stava inzuppando come un biscotto nel latte e la temperatura era scesa in maniera brusca. Decise che tornare indietro sarebbe stato peggio, tanto valeva proseguire. La sera ci avrebbe ripensato e si sarebbe detto che forse ripercorrere i propri passi e imboccare la direzione giusta sarebbe stata una delle migliori scelte della sua vita, ma ormai il suo destino era stato segnato.

Quando la furia del temporale ebbe fustigato a sufficienza quel cielo d'agosto e si placò, Lucas era giunto nei pressi di una collinetta. Alla sua sommità, guardando verso destra, riusciva a vedere Violet Market, la Main e la piazza dei Caduti. Verso sinistra invece vedeva un grosso parco, una struttura color marroncino con una grande cisterna accanto e il ruscello a pochi passi sul dell'edificio. I ricci di Lucas s'erano inzuppati come una spugna, trasformando la sua capigliatura linda e ordinata in un mantello di fili d'erba intrecciati. Si passò le mani tra i capelli, cercando di dare loro una qualche forma. Era seccato di essere così infradiciato e di avere i capelli che sembravano leccati da un bovino. Visto che ormai aveva percorso tutta quella strada, decise che tanto valeva fare un giro d'esplorazione della zona circostante e di dare un'occhiata all'ex cartiera. Si diresse a passo rilassato verso la sua meta. Durante il percorso, riprese a piovere, ma era una pioggia molto leggera, così sottile e indecisa che a un tratto parve diventare una foschia umida e ovattata. Il ragazzo notò che l'acqua stava avendo l'effetto di risaltare gli odori delle piante tutto intorno. Guardando i rami degli aceri e delle querce, ebbe l'impressione che quella pioggia li avesse rinvigoriti, dopo che per settimane erano stati esposti alla terribile calura estiva, seccando come salumi in un essiccatoio. Il Memorial Park era un'area antistante l'ex cartiera di forma rettangolare. Le erbacce avevano ormai da tempo preso il posto delle aiuole e dei cespugli curati. Al centro del parco era posta una fontana di pietra grezza di color grigio, dal fondo ormai annerito e macchiato, priva di qualsiasi fornitura d'acqua. Lucas provò a guardare all'interno, eccitato dall'idea di esplorare un posto nuovo in quella città in cui era costretto; tutto sommato, pensava, non era poi tanto male, non gli mancava niente, tranne la mamma. La mamma gli mancava tantissimo. E quella sensazione di essere sempre osservato non lo lasciava mai in pace. La pioggia di pochi minuti prima aveva in parte riempito la fontana di un'acqua grigiastra e stagnante. Lucas, dopo aver visto la sua immagine riflessa, constatando che l'acqua era troppo torbida, si tirò indietro facendo una smorfia di disgusto. Che schifo, come è sporca quest'acqua, pensò.

Di tanto in tanto avvertiva sbattere delle ali e un cinguettio, mentre la bruma si raccoglieva in piccole gocce sulla sua maglietta. Gli diede una rapida scotolata e fece una smorfia di disapprovazione. Odiava essere sporco. Sua madre gli aveva inculcato la pulizia come un tarlo nel legno, ma il ragazzino già di suo aveva una fissa assoluta per la pulizia. Ma non era nel suo appartamento a Violet Market con Thomas, quindi doveva arrangiarsi. Nonostante quell'inconveniente, non era poi così infastidito e non si stava annoiando. Cominciò a fischiettare. Attraversò tutto il parco, tirando qualche calcio di tanto in tanto ai sassi. Adorava il fatto che si schiantassero contro i tronchi. Arrivò alla fine della distesa di alberi e si ritrovò davanti un cancello in ferro battuto, di forma sinuosa e semicircolare. Oltre, c'era una distesa di terra battuta, resa nerastra dall'acquazzone precedente, e l'enorme edificio dell'ex cartiera, il cui lato est era ancora annerito dall'incendio e non era mai stato ridipinto, perché secondo il Comune, le donava un fascino vissuto. Lucas si mise a scrutare la struttura, poi come un lampo, si allarmò. Alle diciannove e trenta servono il cibo e io sto ancora qui, non so neanche che ore sono e chissà quanto sono distante... mi conviene tornare indietro. Capì che era ora di andarsene.

La luce era ancora abbastanza accesa, ma il Sole cominciava a calare svelto. Inoltre, aveva freddo e si sentiva intirizzito. Prima di andarsene, esaminò ancora la struttura, studiandola con un cipiglio di concentrazione. Era un ragazzino scrupoloso e allo stesso tempo curioso, non lasciava mai nulla al caso e ogni dettaglio andava analizzato, contemplato e controllato. Mentre protendeva il muso (lo faceva quando il suo livello di concentrazione era massimo), un tonfo sordo e violento scoccò nell'aria e lo fece sobbalzare, chiudendogli le narici. Si guardò attorno, per cercare di capire la fonte di quel rumore improvviso. Nella sua mente balenò l'idea che quel rumore provenisse da una pala che dà un colpo al terreno (come a voler seppellire un cadavere). Non vide nulla. Decise che era giunto il momento di andare, ma qualcosa lo bloccò, un pensiero, un sussurro, un richiamo: «aiutami». Lucas si voltò percorso da un brivido di freddo, come se qualcuno gli avesse puntato un climatizzatore alle spalle. «Chi ha parlato!?» gridò con voce da femminuccia. Pensava che se qualcuno lo avesse sentito, lo avrebbero preso in giro per almeno un anno. Eppure, Lucas aveva la sensazione che nessun essere umano lo avesse sentito. Ma come poteva pensare una cosa del genere? Se davvero qualcuno avesse chiesto aiuto, di certo lo avrebbe sentito. Strano pensiero aveva formulato la sua mente. Eppure, era farina del suo sacco. Chi poteva mai averlo sentito? Se non era un uomo, chi mai aveva chiesto aiuto? Il solo fatto di porsi quella domanda sulla natura della voce, era già di per sé inquietante. Di mostruoso. E quella idea fece rabbrividire ancora di più Lucas. Si guardò ancora attorno. Sembrava che il tempo stesse accelerando gli eventi. L'imbrunire stava già per arrivare e il cielo, fino a un paio di ore prima limpido, aveva assunto una colorazione grigio-violacea e la foschia si era fatta più densa. Crepuscolo e foschia, niente vento. E l'aria sembrava essere diventata pesante. E non per l'umidità. Lucas lo percepiva. Qualcuno o qualcosa lo stava fissando. Diede un'occhiata alle finestre dell'ex cartiera e alla porta.

La voce che ho sentito proveniva da lì, pensò. E come in preda a un istinto incontrollabile, si mosse in direzione della stessa. Sei in una città fantasma, abitata solo da ragazzi e bambini mutanti, solo, a chilometri dalla città, con una cena all'arsenico che ti aspetta e stai per entrare in un edificio abbandonato, che non conosci, dove hai sentito una voce che sei convinto, anzi sicuro, non fosse umana... Dio santo, lo sto facendo davvero? A Lucas gli si gelò il sangue all'idea che stesse per andare contro ogni sua logica e contro ogni suo principio. Per il ragazzo tutto il mondo era come un gigantesco ingranaggio a cui gli uomini devono adattarsi. Se la vita ti propone qualcosa, non ti opporre, non serve, adagiati e fai quello che devi fare. Quello era il suo pensiero. Ma ciò che stava facendo era come rinnegare sé stessi. La circostanza imponeva una sola soluzione possibile, non era necessario pensare: fuggire. Eppure, lui non lo stava facendo. Stava per affrontare qualcosa e lo sapeva. Lucas fu colto da una curiosità improvvisa e, come intontito, si avvicinò all'enorme porta di metallo che permetteva l'ingresso nell'edificio. Notò che era in parte aperta. Era alta quasi tre metri e spessa almeno venti centimetri. La spinse per sbirciare meglio all'interno. C'era solo oscurità. La porta era più leggera di quello che pensasse e si mosse senza opporre resistenza. Fece solo un cigolio sottilissimo seppure tetro. «C'è nessuno?» chiamò Lucas. Non ebbe risposta. Ok, me la sono immaginato, meno male. Si voltò per andarsene, soddisfatto di aver abbeverato la sua curiosità... «Hai mai ballato con il Male sotto il chiarore del pallido plenilunio?».

Fece ripiombare la sua testa oltre la soglia della porta. Non poteva credere a ciò che vedeva. Luci di fiera. Era proprio così. E poi musica di sagra, flauti, organetti e odori sfuggenti ma deliziosi: cioccolata, bomboloni fritti nel grasso bollente, patatine, giostre sferraglianti e... l'odore della mamma. Effimero muschio bianco, il profumo preferito di lei. E quella voce? Gli era parsa più come una risata. E quelle luci? Sfolgoranti, luccicanti, abbaglianti, uno strepitio di flash ritmati. La musica sembrò prima rallentare e poi accelerare di nuovo. Una gigantesca ombra nera dondolava, oscurando le luci colorate. Il terrore gli piombò giù pesante nello stomaco, come un piatto di cozze mal digerito. Lo assalì un improvviso odore di uova marce e si sentì risucchiato come se una tempesta di polvere lo stesse inghiottendo, tra granelli acuminati e roventi. Avvertì come una scarica elettrica. Sentì alle sue spalle un suono pesante e vibrante. La porta alle sue spalle si era richiusa e senza neanche accorgersene era entrato di almeno qualche metro nell'edificio. E non se n'era accorto. Era in preda al panico e non sapeva cosa fare. Si voltò di nuovo. La musica era cessata, si sentiva solo l'odore di zolfo ed era rimasta solo una fioca luce bianca, ma non c'era alcuna lampadina. Sembrava come sospesa in aria quella luce, come se venisse dal nulla. Il nulla. Quello là. Sentì all'improvviso un sibilo e poi una sorta di ruggito, ma più cupo e più... grande. Rivide di nuovo l'ombra nera e la luce si colorò di fucsia. Fucsia fosforescente. Sentiva dei passi, anzi no, zampate.

Gli venne in mente un film che aveva visto con la madre quando era bambino, intorno ai sei, sette anni, Tremors. Rimase terrorizzato da quei mostri tozzi e polverosi sbucare dal terreno come vermi, veloci come proiettili, e divorare intere le persone, con le loro lingue di serpenti senza occhi. Tremava così tanto che la madre s'intenerì e decise di farlo dormire nel letto con lei. Non comprendeva perché in quel momento gli era tornato alla memoria quell'evento, ma sentire quei passi (e quel fiato) sempre più vicini, gli stavano facendo perdere il senno. Colpì la porta a pugni chiusi, con tale foga che si fece male ai polsi e il dolore risalì per i gomiti, attraversò il collo e fece vibrare la mascella. Autentiche scintille di dolore lo percossero. La porta sembrava diventata parecchio pesante. Dalle finestre poste in altro, filtrava una luce arancione, segnale che stesse tramontando (di già? È già passata l'ora della cena?), in strisce beffarde. Pochi centimetri di ferro lo separavano dalla libertà, quasi a volerlo schernire. Era affranto e spaventato a morte. Spinse di nuovo, ma nulla. Sentiva il calore sulla sua fronte, sul collo e sul petto, un sudore caldo e oleoso. Ora la magia sembrava essere finita. Avvertiva solo odore di morte, carne putrefatta da vermi e larve di mosche, vomito, liquami di feci cosparsi di batteri e malattie, tenebre che si avvicinavano e volevano portarlo via. Un ruggito potentissimo lo fece voltare. «Ti prego no, ti prego no!» urlò in modo stridulo. Sentiva la polvere avvolgergli i piedi. E poi come un lampo che illumina la notte, lo vide nella sua interezza. Un graboid!

Aveva possenti zampe di lucertola con tre artigli, una rugosa pelle grigio-verde con bolle giallastre, un enorme ventre di drago e una coda lunga e sottile che frustava l'aria. Raggiungeva quasi il secondo livello di finestre della cartiera... non aveva zampe anteriori, ma si ergeva dritto, con la bocca spalancata, un enorme fiore pulsante e maleodorante, senza occhi, con decine di serpenti che gli fuoriuscivano dalla gola, come lingue malate e perverse. Una voce raccapricciante gli fece sciogliere il sangue che poco prima si era condensato come sale in una stanza umida: «io sono un dio minore e sono solo, Lucas... sono solo in un posto che non mi appartiene... tu non ti senti mai solo? Ero un piccolo pesce in un mondo di squali, ora sono un re in un mondo di vermi... quale sorte orribile mi ha riservato il destino...». Lucas avvertì una sensazione di tristezza. Quello là è triste. Gli parve di sentirlo addirittura piangere. Provava un senso di compassione che sembrò affogarlo in una torbida acqua nera, poi un sussurro sembrò provenire dal mostro: «ma ho trovato la mia strada... la paura è buona Lucas e ti fa crescere... si diventa più forti mangiando la paura... ti va di ballare? Quando avrai finito, raggiungerai la Stanza e alla fine potrai ricongiungerti al Tutto insieme a me... sarà un'orgia senza tregua e io avrò trovato la mia fine, quella che un dio dovrebbe sempre avere...». La paura accarezzò di nuovo il collo del ragazzo, provocandogli un formicolio. Il mostro protrasse la testa in avanti, fece un ruggito feroce e delle strisce fucsia fosforescenti illuminarono il suo corpo. Il mostro attaccò. Lucas provò d'istinto a colpirlo con un getto d'acqua intenso che uscì dal palmo come il getto di un idrante, ma il mostro pesava tonnellate. Fu colpito in pieno da tanta forza distruttiva che la parete dell'edificio dove si trovava la porta d'ingresso andò in frantumi come un cracker schiacciato da un rullo di metallo. La porta fece un volo di dozzine di metri e fracassò al suolo producendo un acuto suono metallico. Lucas si ritrovò lanciato a circa dieci metri d'altezza, roteando come un frisbee, come un foglio di carta trasportato da una folata, quando al volo fu afferrato per un braccio da una delle lingue del mostro. Avvertì un calore intenso e del denso muco giallo-verde graffiargli la pelle dell'arto. Strabuzzò gli occhi per osservare l'enorme testa che lo teneva in una morsa tanto disgustosa quanto pericolosa. Aveva due corni neri ricurvi. Aveva vertigini e un forte giramento di testa. Il mostro lo strapazzò collerico e Lucas sentì come se si trovasse nel cestello di una lavatrice gigante. A un certo punto sentì mollare la presa e piombò a terra battendo con la spalla e lussandosela. Si meravigliò che quello fosse l'unico danno riportato, ma il dolore era intenso. Lucas era convinto che sarebbe morto. Fissò l'enorme testa di verme-fiore del mostro e quella luce malefica che gli illuminava le vene come lampadine a intermittenza. Poi gli balenò in mente un'idea.

Si ricordò di nuovo del film che aveva visto anni prima con la madre e avvolto dalle tenebre (è già buio? si chiese), schizzò in piedi e cominciò a gridare. Il mio potere è inutile, il mio potere è inutile... che faccio ora? Tutto quello che stava succedendo non aveva niente di razionale, ma gli sembrava giusto quanto stava per dire. E con massi, detriti e polvere tutti intorno a sé, disse le parole che gli salvarono la vita: «schifoso graboid, perché non ti schianti contro un muro di cemento!?». Il mostro sembrò fermarsi. Stava esitando, Lucas lo aveva capito. Come era possibile? Non c'era tempo per porsi una simile domanda. Aveva la gola secca e le labbra aride. Se le inumidì e urlò con tutto il fiato che gli era rimasto, scorticandosi le pareti della laringe: «bang, bang, la mia pistola ti ferirà! Bang, bang, il mio fucile ti ucciderà! Boom, boom, il mio cannone ti frantumerà!». La bestia tremò tutta e diede un urlo di dolore che scosse l'aria come un terremoto. L'enorme ventre si gonfiò come un palloncino e all'improvviso esplose in mille pezzi. Putridi liquami e carne morti si levarono alti nel cielo per poi cadere flaccidi, molli e pesanti. Le interiora colpirono Lucas, lasciandolo disgustato e mandando in frantumi il suo senso della pulizia. Non c'era tempo. Prese una boccata d'aria fresca che sembrò bucargli i polmoni. Scivolò un paio di volte sulla terra ancora bagnata, sporcandosi un palmo di fanghiglia e tenendosi la spalla lussata con l'altra mano. Spinse con tutta la forza sui talloni e i polpacci e si mosse con tutta la velocità che il suo corpo poteva sprigionare. Si volse una volta soltanto, per pochi secondi. In mezzo a una poltiglia di morte e putrefazione, come vomito stagnante da settimane, vide sollevarsi tra quell'appiccicume, un'ombra nera, qualcosa che ricordava un essere umano, con braccia molto lunghe e snelle e lunghi artigli alle mani. Era nero-grigio e Lucas riuscì a scrutargli la testa. Non gli sembrò che avesse orecchie, naso o bocca, ma solo due occhi, due palline fosforescenti e fucsia. Non ci avrebbe messo la mano sul fuoco se qualcuno gli avesse chiesto un identikit. Lui doveva essere sicuro al cento per cento delle cose che vedeva. Ma era certo che non fosse umano. Si girò di nuovo in avanti, correndo verso Violet Market. Alle spalle sentì un pianto (un pianto?) e una vocina tetra e cattiva viaggiare nell'aria e arrivare alle sue orecchie: «Alla fine, ballerai... e sarà un'orgia senza fine...».

Lucas finì il suo racconto. Gli altri sette stettero in silenzio per quasi dieci secondi. «Porca miseriaccia nera» disse Thomas, col fiato bloccato. Sfogò la tensione in un convulso movimento involontario del capo. «Giuro che non me lo sono inventato» precisò Lucas. «Ti crediamo, Lucas» lo tranquillizzò Leonard. «Ti crediamo Lucas, tutti i mostri che abbiamo visto sono veri, non ce li siamo immaginati» proseguì Jennifer. Sophia annuì, mentre Taylor stringeva a sé il peluche con gli occhi umidi. Lucas abbassò lo sguardo. Tutti ebbero la sensazione che stesse per piangere. Nessuno però disse niente, sulle prime. «Tranquillo Lucas, ne abbiamo già sistemato uno, ne mancano due, quello di Chris e quello di Ed, e abbiamo finito» provò a stemperare Thomas. Lucas lo guardò voltandosi con uno scatto e sbottò: «"sistemare"? Basta fare gli eroi, saremo anche mutanti, ma siamo ragazzi!». Tutti furono intimoriti dalla reazione di Lucas, tranne Jennifer e Leonard. Quest'ultimo provò a parlargli: «Thomas ha ragione, non riguarda solo noi, ma anche gli altri. È una questione di morale, di giustizia». «Pianatala, Leonard!» sbottò di nuovo Lucas, ribattendo con un tono di sfida. Il ragazzo stava mettendo in dubbio la leadership di Leonard e i ragazzi li osservavano un po' intimoriti, come due leoni che si sfidano per il territorio. «E anche se fosse, dovrebbero pensarci le Guardie di Sicurezza! Abbiamo già fatto fin troppo!». Gli occhi di Leonard s'inchiodarono a quelli di Lucas. Si fissarono per qualche istante, ma alla fine fu Lucas a cedere. Abbassò la testa, mentre il capo non fece altrettanto. Leonard non distolse mai lo sguardo. «Leonard ha ragione» commentò Ed. «Lucas ascoltami, – disse Jennifer con delicatezza; il ragazzo si ricordò all'improvviso del bacio della ragazza e arrossì – noi siamo i ragazzi mutanti più forti. Abbiamo già sconfitto più e più volte quello là, perfino da soli, come hai fatto tu. Siamo gli unici in grado di salvare noi stessi e gli altri. Quella bestia non si fermerà davanti a nulla. Quando avrà divorato tutta la gente di questo posto, sono convinta che andrà da altre parti e continuerà a fare stragi». Gli altri ragazzi annuirono all'unisono. «Brava, tesoro» commentò Sophia. «Sì, sì» disse Taylor con vocina stridula. «Questa cosa non ha senso» borbottò Lucas. Si alzò dal divano e corse verso la finestra di casa, sotto lo sguardo vigile degli altri ragazzi.

«Questa cosa non ha proprio senso... come ho fatto a farlo fuori con delle semplici parole?». «Anche io e le ragazze lo abbiamo fatto fuori con le parole» commentò Sophia. Lucas mise le mani in tasca, stizzito e spaventato, e commentò a voce bassa, sollevando le spalle: «come mi è venuto in testa... di seguirvi a Garden Street e affrontare quella mostruosità... abbiamo vinto per pura fortuna». Le parole di Lucas, che intanto strinse le spalle e continuava a stare in quella stanza controvoglia, risuonarono come un monito. Forse avevano davvero avuto solo fortuna e non se n'erano resi conto. Si sentirono turbati e si rattristarono. Tutti guardarono altrove e smisero di fissare Lucas. Il ragazzo si sentì un po' in colpa. Aveva notato che perfino Leonard e Jennifer avevano perso la grinta e non era ammissibile una simile cosa. Quel gruppo era tutto per lui, tutta la sua famiglia. Non dovevano separarsi. Lucas si rivolse allora agli amici con un'espressione accorata e una voce tranquilla e pacata: «sentite, va bene... facciamo questa pazzia... solo un paio di combattimenti ancora, altri due spaventi mortali e poi... faremo finta che non sia successo niente». «È impossibile» replicò affranto Chris. Calò di nuovo il silenzio. Lucas, nella razionalità assoluta della sua mente, non era in grado di spiegare come fosse possibile tutto ciò. Perfino i poteri mutanti avevano una spiegazione scientifica: si trattava di geni modificati, pura e semplice chimica. Ma quella cosa trascendeva ogni ordine d'idea, ogni principio fondamentale, ogni schema prestabilito. Era come dire che il calore passa da un corpo più freddo a uno più caldo; era come dire che la terra non gira intorno al proprio asse, ma segue un moto a spirale, diverso da quella che la Natura ha stabilito in principio; era come dire che lasciando cadere una mela, questa non sarebbe caduta al suolo, ma sarebbe risalita e avrebbe lasciato l'atmosfera della Terra, era... era contro natura. Quello avrebbe voluto urlare Lucas, ma non ebbe mai il coraggio di dirlo. Si limitò a fare una battuta che chiunque si sarebbe aspettato più da Thomas che da lui: «esercitiamoci bene nella recitazione, ci faremo fare un corso accelerato da Thomas». Poi rise. Gli altri lo guardarono per un attimo basiti, poi si misero a ridere e l'atmosfera si rasserenerò.

Quella sera, quando tutti si misero nei rispettivi letti, poco prima che si addormentassero, una voce sembrò soffiare dentro gli appartamenti, come uno spiffero. «Non vincerete mai... alla fine, ballerete tutti... e sarà un'orgia senza fine». «E anche questa notte, si va in discoteca!» ironizzò Thomas. Qualche secondo dopo, tutti singhiozzarono e le lacrime cominciarono a fluire impetuose. Nessuno fece niente per trattenersi. Quei pianti erano più degli sfoghi consolatori, per far sapere all'altro che lui o lei c'era e non l'avrebbe mai abbandonato, come un nodo che viene stretto più forte, a saldare un legame che non sarebbe mai stato sciolto. Mai.

FINE SECONDA PARTE

Spazio autore

Il prossimo capitolo sarà un intermezzo, diviso in due parti. Pertanto piccolo spoiler: sarà narrato in prima persona e sarà un diario ;) 

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