CAPITOLO 6 (Parte 5)
Quando rinvenne aveva un cuscino sotto la testa, un panno freddo sulla fronte e Thomas che gli teneva le gambe alzate. Lucas rantolò e si mise a tossire. Si sollevò di scatto, come in preda al panico, come se non riconoscesse più il luogo in cui si trovava. Tutti gli Sfigati erano in piedi attorno a lui, con aria preoccupata e affranta. Thomas mollò la presa sulle sue gambe. Lucas si tolse il panno dalla fronte e lo strinse nel suo pugno. «Cosa è successo?» biascicò perplesso Lucas. «Sei svenuto» rispose Leonard. «Come ti senti?» chiese Jennifer timida e cauta. «Meglio, grazie...». Era tornato sul volto del ragazzo il suo colorito naturale. «Merda, mi hai fatto prendere un accidente. Devo sempre badare a te» disse Thomas con una risatina isterica. «Guarda che, fino a prova contraria, sono io che bado a te come una balia» ribatté Lucas. Tutti risero, ma solo per cercare di domare il nervosismo. Lucas ora cominciò a contemplare il fazzoletto bagnato che aveva poco prima sulla fronte, stringendolo ancora più forte. «Sono pronto a parlarvi» chiosò all'improvviso. «Non devi per forfa fe non te la fenti» rispose Ed con un tono nervoso. Lucas fece un gesto di diniego. Era pronto a parlare. Fece un sospiro enorme, come scosso da un brivido che non voleva mollarlo. «Udite, udite, il re ha emanato un nuovo editto!». Quella frase, che sembrava del tutto fuori tema, scosse i ragazzi, ma attirò in modo morboso la loro attenzione. I loro occhi erano tutti fissi sulle labbra di Lucas. Quest'ultimo deglutì, producendo un clic distinto nella sua gola. Afferrò il suo bicchiere di cioccolata, che ormai si era freddata e aveva perso di sapore, allungando il braccio al massimo e bevette fino all'ultimo sorso, deglutendo ancora una volta e facendo una smorfia. E cominciò il suo racconto.
Il ragazzo era nato a Grand West City ed era figlio di una spogliarellista di nome Ginger Kirchner. Il bambino era stato concepito quando lei aveva ancora sedici anni. Era andata a letto con un certo Gregor McAllister, un importante uomo d'affari, dirigente della Gold Bank, la banca d'affari più importante della città, controllata dalla North West Technologies Industries, la holding più grande del pianeta. Ginger aveva visto nell'uomo, alto, affascinante e ricco, la possibilità di vivere il resto della sua vita come una principessa, uscendo dalla sua condizione di povertà e abbandono (era cresciuta in un orfanotrofio). Purtroppo per lei, Gregor non era dello stesso parere. L'uomo era il classico megalomane pervertito che aveva visto la possibilità di una facile scopata con una sedicenne in difficoltà e non si era di certo fatto scrupoli. Il giochino erotico durò solo qualche settimana però. Quando gli comunicò di essere rimasta incinta, l'uomo sparì dalla circolazione. Quando provò a ricontattarlo, la fece arrestare per molestie e le piazzò davanti una tale schiera d'avvocati da far desistere anche un capo di Stato. Resasi conto dell'impossibilità di avere la meglio contro la potenza politica ed economica dell'uomo, Ginger prese atto di essere stata ingannata e subì l'ennesima lezione di vita: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. In un primo momento aveva intenzione di abortire, poi però i sensi di colpa la assalirono fino al punto da farla quasi impazzire. Alla fine, decise di tenere il bambino che cresceva dentro di sé.
La donna lavorava al Blue Rose fin dalla maggiore età. In realtà era stata assunta un paio di mesi prima del suo diciottesimo compleanno, perché a detta del titolare non s'era mai vista una bomba simile nel locale. Nonostante non si trovasse proprio in uno dei quartieri più esclusivi della città, lì dentro girava una quantità di soldi tale da far impallidire un capo della mafia. C'era di tutto: alcol, droga, di tanto in tanto sul retro del locale si trafficava in armi e banconote false. Le ragazze erano solo l'attività minore, di facciata si potrebbe dire, una succulenta esca per qualche pesce di passaggio, giusto per intrattenere qualche cliente. Ma quasi tutte le ragazze avevano un "papà", ossia il cliente che più s'era affezionato a loro. In teoria, non era consentito toccare le ragazze senza permesso, né tanto meno avere rapporti con loro. Ma una cosa sono le regole, un'altra cosa sono i soldi. Quello di Ginger era un certo Mohamed Madani, un criminale locale famoso per la dentatura d'oro ventiquattro carati, dedito allo smercio di cocaina nella zona est della città, insieme a un altro paio di criminali. Lui rappresentava in pratica la principale fonte di reddito di Ginger e fare gli straordinari con lui era sempre un piacere. Magari non per i suoi baci mollicci, le sue mani callose, il suo alito pestilenziale o il suo micropene (una volta Lucas ascoltò una conversazione della madre che diceva a una sua amica, senza che lui ci capisse qualcosa: «farlo con lui è come temperare una matita»), ma perché il tizio sganciava delle mance niente male, sufficienti alla ragazza per pagare l'affitto del suo piccolo e fatiscente appartamento. Lei non se ne lamentava più di tanto. «Lucas, per nessuna ragione al mondo finiremo per chiedere l'assistenza sociale» disse un giorno Ginger con una nota di autentico orrore, mentre preparava il pranzo per il figlio, prima di accompagnarlo a scuola. Per lei non era concepibile. Non che sia facile da digerire per qualcuno. Ma lei avrebbe preferito fare la prostituta per tutta la vita, piuttosto che vivere di un mezzo statale, del sudore altrui. «Preferirei che Dio mi fulminasse se fossi costretta a fare la fila al Comune» ripeteva sempre ad alta voce, come un'invocazione religiosa di quelle che si cantano la domenica mattina in chiesa. Si poteva essere poveri, si poteva passare la vita a grattare il fondo, ma erano bazzecole rispetto a chiedere il sussidio statale. Ginger avrebbe preferito farsi montare da tutto il locale (parole sue) piuttosto che chiedere dei soldi a qualcuno o allo Stato.
Lucas passava le serate al locale con la madre. Ginger non aveva i soldi per potersi permettere una tata e allo stesso tempo non se la sentiva di lasciare solo il figlio di notte, fino alle prime luci del mattino. Lucas aveva passato metà della sua vita negli spogliatoi delle ballerine. Ormai lui era diventato la mascotte delle ragazze, che lo circondavano e lo vezzeggiavano come se fosse il peluche più bello del mondo, con i suoi occhi ambra e i riccioletti d'oro. Ricordava ancora l'odore di cipria nell'aria, i corpi sudati delle ragazze, i vestiti assai stretti. Ma come fanno a stare comode in quei microabiti? Ricordava il calore infernale che c'era, quegli specchi impolverati con quelle lampadine gialle (qualcuna fulminata) a formare delle aureole, i banchi sommersi da cosmetici di ogni sorta e pomposi foulard di piume colorate, come quelle di un pappagallo. E, soprattutto, tette; anche culi, ma tette di fuori in ogni angolo e ragazze che camminavano frenetiche con i loro tacchi vertiginosi e super sottili e le calze a rete così strette che le avrebbero potute usare per pescarci i salmoni. Lucas era cresciuto in mezzo a formosi corpi sudati e oleati di ragazze dalla bellezza mozzafiato, con brillantini sparsi ovunque che si appiccicavano sui vestiti, pezzi di carne svenduti come durante la giornata dei saldi, solo che lì era sempre stagione. Conosceva a memoria il seno tonico di sua madre, due angurie rosa in miniatura, tenute su con una spinta invisibile dal basso, come un cameriere che tiene il vassoio da servire ai clienti. «È una cosa normale Lucas, le donne hanno il seno e gli uomini no» gli ripeteva sempre la mamma. Ricordava inoltre con vivo interesse (e anche una certa fissa) una ragazza mulatta di nome Lisa, una scultura di donna, alta un metro e ottacinque, magra, sinuosa e allo stesso tempo allenata, con quei capelli lisci e neri e un nasino a punta da far sballare perfino il peggiore dei tossici, senza che questo avesse avuto la necessità di prendere la sua dose. Una dea, in pratica. Era così bella che qualche ragazza del locale aveva manifestato in maniera indiretta un certo interesse per lei. Una volta, Lucas sentì sua madre dire: «se tutti gli uomini sulla Terra sparissero, una scopata con Lisa non me la toglierebbe nessuno».
Lucas ricordava che Lisa era l'unica ragazza di colore del locale e intorno agli undici anni aveva provato un certo interesse nei suoi confronti. Non ne era sicuro, ma gli sembrava di ricordare che la sua prima cotta fu a causa sua, e anche la prima erezione. Vedeva tutti i giorni tette di fuori sballottolare come palloni da calcio su una traversa, ma quando vedeva Lisa sentiva un vuoto all'addome, come un languorino, e le parti basse diventavano drammaticamente calde. La sera della sua prima erezione (e della sua prima eiaculazione spontanea), rimase terrorizzato tutta la notte credendo che avesse qualche strana malattia al pisellino (e diamine come s'era gonfiato). Il mattino seguente, sfiancato dal sonno e dalla paura, si buttò tra le braccia della madre e urlò: «Mamma, mamma, ho una malattia!». Ginger guardò il figlio inarcando le sopracciglia e con un pizzico di timore, soffermando i suoi occhi sul faccino arrossato di Lucas. «Tesoro, ma di che parli!?». Lucas guardò i boccoli dorati della madre e come preso da un senso di vergogna, abbassò lo sguardo, lasciandole la presa al collo. Compresse le labbra a tal punto da farle scomparire, unendo le mani e roteando i pollici. «Mi è uscita una cosa...». Ginger fissò il figlio e lo scrutò con una rapida occhiata, come a voler trovare qualche difetto corporeo che non aveva. Si soffermò sui riccioli arruffati di primo mattino del suo angioletto e le venne da fare un sorriso tenero. «Lucas, con la mamma puoi parlare. Dai, dimmi cosa c'è che non va. Qualcuno dei tuoi compagni fa il bulletto con te e ti dice cose brutte?» chiese lei in modo amorevole, come solo una madre sa fare, è un istinto naturale che non si può insegnare, lo si ha e basta. «Ieri sera, ho guardato troppo Lisa e penso che sia per quello che mi è venuta la malattia». A quelle parole Ginger scosse la testa, confusa più che mai. «Hai guardato troppo Lisa? Lucas, prima hai detto che ti è uscita una cosa... mi dici da dove ti è uscita?». Lucas dapprima deglutì, fece un rapido sospiro e con lentezza puntò il dito indicando le parti basse e con voce tremante disse: «mi dispiace, mamma. Ho buttato la mutandina nei panni sporchi... mi sa che le devi dare fuoco, altrimenti s'infetteranno tutti i vestiti». Ginger fissò negli occhioni il figlio. Avrebbe voluto abbracciarlo con lo sguardo, ma fu assalita da un tale senso d'ilarità che non riuscì a trattenersi. Scoppiò in una fragorosa risata, tenendosi la mano sulla bocca per respingere il rumore. Lucas rimase interdetto. Perché la mamma ride? Le ho appena detto che ho una malattia e lei ride? Oh, no! Forse è perché è stata licenziata e le hanno dato il sussidio statale. Se è così posso anche morire, per lei è la fine del mondo prendere il sussidio! Ma la reazione della madre fu inaspettata. Quando smise di ridere e si fu asciugata le lacrime con le dita, abbracciò il figlio con tale tenerezza, baciandolo all'angolo della bocca con le sue labbra calde e secche. Ginger spiegò al figlio un paio di cosucce sull'apparato genitale e sulle donne. Al termine del discorso, il figlio era così tanto imbarazzato che era diventato rosso fino al petto.
Ginger si rese conto che non poteva più portare il figlio con sé, che stava crescendo. Ora era abbastanza ometto per restare a casa da solo. Per qualche settimana, la madre, prima di andare al lavoro, preparava la cena per il figlio. Lui avrebbe dovuto solo riscaldarla. «Mi raccomando Lucas, mangia tutto, anche le verdure». Quelle parole scatenarono nel ragazzino un senso di disgusto e una smorfia di disapprovazione: non sopportava le verdure. «E ricordati, prima di andare a dormire lava per bene i denti. A letto alle nove e mezza, mi raccomando». «Mamma no, è troppo presto! Almeno alle dieci!». Tra madre e figlio ci fu una lunga diatriba sull'orario ideale per andare a dormire. Ginger non aveva voglia e nemmeno il desiderio di inimicarsi il figlio e così cedette alle sue richieste, anche se in realtà Lucas restava ancora più tardi in piedi, a guardare la tv nel soggiorno. Amava soprattutto gli incontri di boxe e, quando il sonno non gli permetteva più di tenere gli occhi aperti (in genere verso le dieci e mezza), spegneva la tv e andava a dormire. Prima o poi li farò io i piatti, non li deve sempre lavare la mamma ogni volta che torna a casa. Ripeteva come un rosario quella frase nella sua mente. La madre era tutto il suo mondo e le voleva bene sopra ogni altra cosa. Sapeva anche che lui era più importante anche del rischio di prendere il sussidio statale. Lucas lo sapeva e ogni volta che si addormentava pensava a quanto bene volesse a sua madre. Ginger rincasava sempre verso le cinque e mezza del mattino. Si spogliava, si lavava, si rivestiva e faceva la cucina, come una routine prestabilita dal programma di un computer. Prima di andare a letto, restava in piedi per preparare la colazione e il pranzo al sacco al figlio, lo svegliava e poi poteva in conclusione addormentarsi, sognando di poter comprare un materasso nuovo. «Lucas, quelle molle mi stanno distruggendo la schiena! Appena avrò un po' di soldi in più, la prima cosa da comprare sarà il materasso nuovo!» ripeteva sempre. Il figlio annuiva un po' dispiaciuto. Desiderava che la madre avesse un letto nuovo, ma lui era un bambino («un ometto» a detta di Ginger) e non poteva fare molto. Ad accompagnarlo a scuola ci pensava una vicina di casa che aveva una figlia di nome Clodie che frequentava la stessa classe di Lucas. Era una simpatica bimbetta con i capelli lunghi fino al fondoschiena, un «maschiaccio scatenato» a detta della madre. Preferiva giocare con macchinine e soldatini, piuttosto che con bambole e trucchi. Ogni mattina la signora di nome Marika e sua figlia Clodie bussavano alla porta, prelevavano Lucas e facevano il tragitto fino a scuola. Alla signora non pesava molto, tanto avrebbe comunque dovuto fare quel tragitto, e poi Ginger, per ricambiare, si offriva di aiutarla nella vendita di oggetti usati il cui ricavato andava in beneficenza alla chiesa locale.
Una mattina d'aprile, una giornata assai piovosa, Marika bussò più e più volte alla porta, ma nessuno rispose. Pensò che i Kirchner non ci fossero o che lei stesse riposando e avesse deciso di non mandare il figlio a scuola. Se ne andò senza il minimo sospetto. Quella fatale mattina, la madre di Lucas non era rincasata da lavoro e Lucas, non essendo stato svegliato dal bacio caldo della madre sulla fronte, non s'era alzato ancora. Quando aprì gli occhi, la prima cosa che Lucas vide fu che erano ormai già quasi le otto. Sbarrò gli occhi e si catapultò dal letto. Uscì dalla stanza e correndo entrò in quella della madre. «Mamma, mamma, sono quasi le otto, perché non mi hai svegliato!?». Restò immobile e freddo come un pezzo di marmo sulla soglia della porta. Il letto della madre era immacolato. Nessuno stava dormendo e nessuno ci aveva dormito. Lucas fu assalito da un panico sempre crescente, come l'acqua del mare che prima si ritira, lasciando i pesci ad annaspare sulla sabbia umida e poi scatena la sua forza abbattendosi sulle rive con uno tsunami. Corse in soggiorno e poi in cucina. Notò che il piatto con i resti dell'insalata di pollo della sera prima era ancora nel lavello. La tavola era ancora imbandita, con le briciole di pane sparse ovunque e il tubetto di maionese schiacciato ancora lì, nel punto in cui lo aveva lasciato la sera prima. Cosa devi fare quando non trovi la mamma? Chiama Peter, il gestore del locale. Il suo numero è nel cassetto più in basso, l'ultimo a destra del mobile del soggiorno. È un biglietto giallo della compagnia di taxi e dietro c'è il numero che ti serve scritto con la penna blu.
Lucas si precipitò al grosso mobile stile antico di legno scuro, che era della precedente affittuaria della casa, deceduta quattro anni prima, una simpatica e arzilla signora di quasi novanta anni. Tirò il cassetto con foga, con le mani umide e la fronte sudata, con il gelo che gli freddava i piedi e il collo, e rovistò come un gatto nei rifiuti tra gli elenchi telefonici, i documenti, i fogli volanti e le cartacce. Il pavimento era diventato una distesa di carta, che rimessa insieme valeva un albero. Alla fine Lucas lo trovò. «E che cazzo, proprio l'ultimo foglietto sul fondo!» sbraitò stizzito. Corse scalzo verso il telefono (la mamma ti ucciderà se lasci gli aloni dei piedi a terra) e compose il numero, ma prima d'indovinarlo, lo sbagliò almeno un paio di volte. Il terzo tentativo fu quello giusto. «Pronto?» rispose una voce assonata dall'altro capo del telefono. «Pronto, salve, mi chiamo Lucas, sono il figlio di Ginger, parlo con il signor Peter? Le devo chiedere una cosa...». Passarono alcuni secondi di assoluto silenzio. «Oh, certo, Lucas, ciao figliolo, sono io, Peter. Tu prima bazzicavi sempre tra le ragazze, ti sei divertito, eh?». Seguì una risata a crepapelle. «Signore, le chiedo scusa, ma questa notte mamma non è tornata a casa e volevo chiederle se lei sappia dove sia ». Seguirono altri secondi di silenzio e uno sbadiglio. «Non saprei Lucas... ascoltami, tua madre ieri si è ritirata come sempre, ha fatto il suo lavoro ed è uscita dal locale. Se non è tornata, non so proprio dove potrebbe essere andata. Magari si è fatta un giretto con qualche uomo, chiedi a qualche sua amica. Lo sai che tua madre deve lavorare parecchio, le puttane devono sgobbare». L'uomo sghignazzò. Lucas provò una rabbia al petto e si sentì offeso. Riattaccò di colpo il telefono, concludendo dicendo: «Stronzo».
Lucas si mise le mani nei capelli e cominciò a girarsi intorno guardando in modo convulso in ogni direzione, in preda al panico. Non sapeva cosa fare. Devo chiamare la polizia... certo, è l'unica soluzione, devo chiamare la polizia! Poggiò la mano sul telefono quando, con la coda dell'occhio, si accorse di un'ombra alla sua sinistra che s'allungava sul telefono. Rimase immobile con l'apparecchio accostato all'orecchio destro. Lo riagganciò con una lentezza asfissiante. Cominciò a tremare e il freddo gli assalì tutto il corpo. Con gli occhi iniettati di sangue si voltò come al rallentatore. Soprabito grigio, cappello nero a cilindro, pelle bianchissima... diede una rapida occhiata alle spalle dell'uomo. La porta d'ingresso era chiusa e il chiavistello era al suo posto. Non aveva sentito alcun rumore. La porta era molto vecchia e avrebbe avuto bisogno di una bella oliata. Ogni volta che veniva aperta produceva un acuto stridio di parti meccaniche che strisciano a vicenda. Era impossibile non udirla. Non può essere. Come ha fatto questo tizio a entrare? La porta era chiusa a chiave e non ho sentito alcun rumore. Forse è un ladro. Ma anche se fosse, come ha fatto a non fare un po' di rumore? Forse ero troppo distratto. Sì, deve essere così, ero così distratto che è riuscito a entrare un ladro in casa senza che me ne accorgersi. Cazzo! Lucas fissava l'uomo dal basso verso l'alto. Riusciva a vedere solo la pelle rugosa e pallida, più di un foglio di carta e delle labbra accennate di un rosa chiarissimo, molto sottili, come fili di spago. Naso e occhi erano celati alla sua vista dalla visiera del cappello, abbassato sulla fronte. Dio se è inquietante! Ti prego, fa che non sia un assassino o un maniaco, ti prego! «Ciao Lucas» pronunciò l'uomo con voce bassa e penetrante. Non c'erano dubbi per il ragazzino. Quella era la voce di un tipico cattivo. Aveva visto fin troppi film per non riconoscere la voce di un cattivo quando ne sentiva una. Lucas tremava tutto, come i binari al passaggio di un treno.
Il cuore gli batteva forte, risuonandogli nei timpani. «C-chi sei? C-cosa vuoi?». Se urlo forse mi verrà a salvare qualcuno... no Lucas, non sei in un fumetto, qui non esistono i supereroi. Se gridi, ti farà secco! L'uomo sorrise, mostrando dei canini che a Lucas ricordarono quelli di un vampiro visto in un film. «Stai tranquillo, tua madre è al sicuro. Sai, tuo padre era preoccupato perché quando compirai diciotto anni potresti richiedere un test del DNA e fregargli il suo patrimonio. Così ha deciso di mandare un paio di sicari a uccidere te e la tua mammina, ma ora è tutto risolto... ci ho pensato io... lei è salva, mentre tuo padre galleggia in una fogna, che persona inutile... ti ho liberato di tutti i tuoi problemi, quindi ora per ringraziarmi, dovresti seguirmi». L'uomo fece una risatina maldestra e inquietante. A Lucas si formò un nodo alla gola, aveva la sensazione che sarebbe svenuto da un momento all'altro. Non gli era mai successo, ma era sicuro che ci si sentisse così prima di svenire. Cominciò ad avere la vista annebbiata, come quando si fissa troppo la luce del sole. Cominciò a balbettare, incapace di ragionare e di dire qualunque cosa. Fu all'improvviso interrotto dall'uomo, che questa volta appariva più serio. «Sai... l'altro giorno ti ho visto a scuola, mentre annaffiavi un fiore appassito... con le tue mani». Lucas sbiancò del tutto. Il colore della sua pelle era quasi identico a quello dell'uomo che gli era di fronte. Non è possibile. Mi ha visto per la miseria! Sa che ho un potere! «I-i-i-i-io non sono di cosa stia parlando» provò a giustificarsi. All'improvviso, l'uomo si chinò con la testa verso di lui. Lucas sussultò e fece due passi indietro. Riuscì a sentire il respiro lento ma deciso di quell'uomo. «Non fare il finto tonto Lucas, lo so che tu sai che io so... capisci? Tu sei un mutante...» sussurrò con un filo di voce così malvagia e tagliente che sembrò che volesse trapassare la mente del ragazzino.
«E poi non ricordo più nulla... mi disse qualcosa, o meglio, mi fece una domanda, ma proprio non riesco a ricordarla... ricordo solo di aver visto a un certo punto buio e poi... mi sono svegliato a Primestone... forse ricordo ancora il suo nome, soprannome credo... mi sembra che fosse... l'Albino...»
La cartiera di Primestone si trovava in Bauman Street, a un paio di chilometri da Violet Market, a sud, vicino al fiume Derrick. Fino ai primi anni trenta, la cartiera era assai florida e sfruttava proprio l'acqua del Derrick per la lavorazione della carta. I tronchi di legno venivano fatti scendere a valle da nord e venivano raccolti alla fabbrica che era stanziata sulla riva di quello che oggi è solo un ruscello. L'amministrazione statale decise di deviare il corso degli affluenti del fiume Pinnot per utilizzarli nella coltivazione della soia e della patata. Ciò provocò la riduzione del flusso d'acqua fino a rendere impossibile il galleggiamento dei tronchi. La società proprietaria della cartiera fu costretta a utilizzare il trasporto su rotaie per portare il legno da lavorare in fabbrica. Ma la crisi economica cominciò a farsi sentire e, a causa dell'aumento dei costi, il numero dei dipendenti fu dimezzato. Ci fu anche una violenta rivolta operaia, che terminò con l'arresto di quindici impiegati e il ferimento di tre dirigenti. Nei primi anni quaranta, con la produzione ridotta ormai a un terzo, la cartiera fu convertita in una fabbrica bellica, producendo dinamite e pezzi d'artiglieria. Per un paio di anni lavorò a pieno regime, ma un'esplosione all'interno dell'edificio di mattoni e arenaria provocò un vasto incendio. Quando la guerra terminò, l'azienda dichiarò bancarotta, in quanto non aveva più i fondi e la volontà necessaria per riconvertire la fabbrica. L'amministrazione comunale provò più volte a vendere il terreno, ma si era diffusa tra la popolazione locale la leggenda che i fantasmi dei quarantacinque operai rimasti uccisi nell'esplosione si trovassero all'interno dell'edificio e lo infestassero, spaventando chiunque provasse ad avvicinarsi di notte. Si diceva anche che di giorno si potevano sentire rumori di finestre rotte e cocci contro i muri infranti.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, il comune decise di trasformare la struttura in un museo e, grazie soprattutto alla presenza della cisterna, il cui ballatoio circolare offriva una panoramica spettacolare della città, divenne una meta molto popolare, nonostante le titubanze iniziali. I turisti potevano ammirare anche le rigogliose campagne circostanti e il ruscello Derrick appena dietro la fabbrica. Nelle giornate più limpide, intere famiglie si radunavano con i loro pargoli il sabato o la domenica e consumavano la loro merenda all'aria aperta, nell'enorme parco che avevano costruito davanti all'ex cartiera, chiamato Memorial Park. Il museo, al cui interno erano esposti residuati bellici della precedente guerra (armi dell'epoca, carri armati, persino un aereo), restò aperto fino alla fine degli anni settanta, quando un paio di ragazzi dissero di essere stati aggrediti da «oscure presenze». Prima che fosse chiuso per sempre, fu aumentata la sorveglianza, con ronde notturne e controlli più rigidi, ma molti vigilanti dichiararono che in effetti qualcosa di anomalo abitava la struttura. Nel giro di un solo anno, quasi tutti i poliziotti si dimisero, lamentando forti emicranie, rumori notturni e altre strane presenze che amavano fare "scherzi". Uno dei vigilanti raccontò che la tazza del caffè aveva cominciato a volteggiare e lo aveva inseguito fino al cancello d'ingresso del museo, dove s'era schiantata a terra, come se qualcuno l'avesse gettata. Nel 1980, l'amministrazione comunale decise di mettere i lucchetti alla struttura e di vietare l'ingresso a chiunque volesse tentare di entrare per incontrare le presenze. Nei primi mesi furono assunte un paio di guardie, ma dopo poco anche loro si dimisero dichiarando di essere stati inseguiti da «luci e ombre che ridacchiavano» fino al Memorial Park.
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