CAPITOLO 6 (Parte 3)

Aprì gli occhi. Respirava appena, ma quello che vide le fece richiudere i polmoni, ma non gli occhi. Un bulbo oculare era accanto a lei e non c'era dubbio: era quello di suo zio. Sollevò lo sguardo e vide Walter balbettare, con la bocca colante di saliva e una mano sull'occhio sinistro. Sophia credette di sognare. Dovette guardare per ben quattro volte l'uomo e poi il flaccido bulbo a terra per rendersi conto che si era staccato dall'orbita, o meglio, qualcuno glielo aveva staccato. Mosse il capo di poco verso sinistra. Un uomo con una mano uncinata e una tenaglia nell'altra mano si ergeva accanto a lei, con sguardo severo ma amorevole. Un angelo nero. Il mio angelo nero, pensò Sophia. L'uomo che aveva cavato l'occhio di Walter Williams era Max. I loro sguardi s'incrociarono, ma sembrava che qualcosa li rendessi incompatibili. L'uomo voleva qualcosa dalla bambina. E mentre il sangue di suo zio gocciolava dall'uncino, Max mormorò: «d-d-d-dillo...». Sophia lo guardò per qualche istante, fingendo di non avere capito. «C-c-c-cosa vuoi? D-d-d-dillo...». L'uomo protese l'uncino verso di lei, mentre il sangue fluiva a fiotti dalla cavità oculare di Walter, mentre sua zia e i suoi due cugini urlavano dalla paura e Theo invece era esanime nell'altra stanza. Cosa voglio? Cosa voglio? Un'emozione intensa salì su per il corpo di Sophia, come un serpente sgusciare in cerca della sua preda. Sembrò che qualcuno con una catena le stesse tirando l'anima e le parole da fuori. Si schiarì la voce e d'istinto urlò ciò che voleva: «Voglio... voglio... voglio essere LIBERA!!!».

Max fece un sorriso di quelli che sembrano dirti: «era quello che volevo sentire». La bambina sembrò riprendere le forze in una frazione di secondo. Si lanciò in braccio a Max, che si voltò e si precipitò verso le scale. Sentì per un attimo una mano sfiorare la sua caviglia. Era quella di Walter. Max avvertì un brivido freddo sul collo e lungo la schiena. Ma riuscì a fuggire. Arrivò al piano terra e si precipitò fuori attraverso la porta spalancata d'ingresso, di cui aveva rotto la serratura. Aveva sentito l'esplosione e l'urlo lanciato poco prima da Sophia nella sua cameretta. Quella notte non dormiva. Il fresco venticello notturno di primavera lambiva i corpi di Sophia e Max, come una morbida carezza. L'uomo fece scendere la bambina, s'inginocchio e la guardò dritto negli occhi, scuotendole le spalle. «S-s-s-sophia, v-v-v-v-vuoi essere l-l-l-libera?». La bambina scosse la testa. «A-a-a-allora s-s-s-sai quello che d-d-d-devi f-f-f-fare per e-e-e-essere davvero l-l-l-libera? B-b-b-brucia... b-b-b-brucia tutto!». Sophia sussultò e un singhiozzo investì la sua gola. La bambina si voltò verso la sua abitazione e vide lo zio che stava per varcare la soglia, vacillando in modo pauroso, con la mano ancora sull'occhio, urlando: «maledetta! Io ti odio Sophia! Ti odio! Tu sei sbagliata, tu sei sbagliata!». Aveva compreso che lo zio non le aveva mai voluto bene. Solo i suoi genitori lo avevano fatto, ma loro erano... morti. Non c'era più nessuno. Era sola. Ed era chiusa in una gabbia. «Sophia, quella non è mai stata la tua famiglia! L-l-l-loro non sono tuoi parenti, sono aguzzini! Bruciali S-s-s-sophia, bruciali!» gridò Max tartagliando meno del solito. Quando gridava, quasi non lo faceva. Ma così morirà anche la zia. Lei mi ha protetto, lei mi ha... non posso uccidere... è sbagliato... no... no... fanculo... fanculo... fanculo! «BRUCIAAA!!!».

L'aria che si frapponeva tra lei e la casa si surriscaldò e vibrò, come se un caccia si stesse accendendo. Suo zio Walter stava per calpestare l'ultimo gradino che separava la porta dalla terra battuta, quando un'autentica tempesta di fuoco si sollevò dalla casa, raggiungendo un'altezza di quaranta metri. Per la prima volta nella sua vita, Sophia non aveva generato una fiamma dal suo corpo, ma aveva usato un'autentica abilità di pirocinesi, bruciando a distanza un oggetto. Ci avrebbe messo anni per riproporre quell'attacco. Si avvertì come un risucchio nell'aria e un'onda d'urto flagellò Max, che rotolò a terra all'indietro. Gli sembrò di stare troppo vicino a un camino. Urlò dallo stupore e dalla paura, mentre Sophia gridava tutta la rabbia che aveva in corpo. Non avvertiva più nulla, se non un gran calore sul viso, soprattutto all'altezza delle tempie e le urla lancinanti e sofferenti dello zio arso vivo. Solo il tocco di Max sulla sua spalla la fece desistere. Si voltò con le lacrime agli occhi verso di lui. Max le sorrideva. «O-o-o-ora ti m-m-m-mostrerò la v-v-v-via per la l-l-l-libertà». La bambina non aspettava altro. Si avvinghiò al collo dell'uomo che con prontezza l'afferrò e quest'ultimo corse verso la discarica. Sophia, con il mento poggiato sulla spalla di Max, vedeva allontanarsi quel fuoco denso e vivo. Scrutava tra le sfumature rosse la sua rabbia, nera e ringhiosa, che si contorceva in quel calore infernale. Max impiegò quasi venti minuti di corsa affannosa, per raggiungere il punto che fin da subito aveva individuato nella sua mente. La recinzione del distretto Williams dava sulla discarica. Max individuò un punto sopraelevato da dove fosse visibile il quartiere e con le tenaglie aprì un varco per Sophia. Le intimò di correre e non voltarsi mai. La bambina cominciò a correre, ma d'istinto si voltò comunque. Vedeva a distanza il fumo nero addensarsi in corrispondenza dell'abitazione di suo zio e il distretto le sembrò un grosso occhio nero (come quello di un corvo) con una pupilla rosso fuoco al centro. Lì c'era la mia gabbia. Poi abbassò lo sguardo e vide il volto di Max, il suo angelo nero. Sorrideva. E lei ricambiò. Non lo rivide mai più. Vagò per tre giorni senza meta, poi fu salvata da una donna, una certa Madison Ross, un'ex-stilista di fama mondiale, che dopo oltre trent'anni di carriera si era ritirata a Lillitown, la sua città d'origine. Decise di prendere con sé la bambina. Fu la cosa migliore che era capitata a Sophia da quando i suoi genitori erano morti. Ma anche quella gioia non durò molto. Non so come abbia fatto, ma alla fine mi ha presa. Quell'uomo... con la pelle bianchissima... lui mi ha portata a Primestone...

Quando in quei momenti all'interno del bagno Sophia Williams ebbe ripercorso tutta la sua vita in pochi secondi, un'entità malefica la stava tormentando, terrorizzandola come un uccellino indifeso di fronte a un gatto affamato. La ragazza provava a urlare, ma non le uscì nemmeno un filo di voce. La sua bocca era asciutta e arida, come un campo prosciugato dalla siccità, dove non crescono più rigogliosi germogli, ma solo erbacce secche e sfibrate. Si sentiva come quando in un incubo si prova a gridare, ma nessun suono viene emesso. Le mancava il respiro, annaspava come se stesse affogando in mare, la pelle era umida di saliva e quell'atmosfera piatta, grigia e ovattata, le faceva schizzare il cuore come una grancassa in una parata militare. Tenne gli occhi chiusi per tutto il tempo mentre insisteva senza successo. Aprì gli occhi e si voltò per fuggire, ma la serratura della porta non fece il suo dovere. La maniglia scendeva, ma l'anta non si apriva, non sentiva quel tic magico che separava lei dall'altra stanza, quella in cui c'era la sua piccola Taylor e la sua migliore amica.

Si accorse di non sentire neanche il cigolio tipico. Sono diventata sorda? Possibile che sia diventata sorda? Le sue mani erano così sudate che facevano fatica ad aggrapparsi all'ottone della maniglia, macchiato e segnato dal tempo e dall'umidità di tutto l'edificio. Sophia provò allora a battere i pugni contro la porta. I suoi pugni, per quanto poco vigorosi, dovevano pur produrre una qualche vibrazione, ma il bagno rimase un oceano di silenzio. Si voltò come in preda a una premonizione nefasta verso la vasca. Dapprima vide le piccole macchioline grigie e verdognole, vecchie di anni, di muffa, che ogni inverno apparivano puntuali sugli angoli, mangiandosi l'intonaco attorno. Ora le ninfee disegnate sulla vasca non le sembravano più così familiari. Avvertiva una sensazione di estraneità, come se non fosse mai stata in quel posto. Si sentiva sola, in un mondo pieno di persone, assordata da un silenzio crudele. Il suo petto si gonfiava a tal punto che era convinta che prima o poi sarebbe stata costretta a sputare i polmoni, che intanto avevano ripreso a risucchiare aria, come un vecchio e grosso motore diesel borbottante. All'improvviso, la tendina della vasca da bagno cominciò a vibrare, come battuta da una mano. Sophia schiacciò con tutte le sue forze la schiena contro la porta. Premette con tanto vigore che sentiva tutte le vertebre spingere contro il truciolato, come tanti punteruoli. Afferrò gli stipiti della porta, strisciando le unghie come un gatto su una tenda, annerendosele con lo strato di polvere che ricopriva la porta. Frattanto, la tenda si aprì, come sospinta da una mano ferma e diabolica. A Sophia sembrò tornare l'udito, come quando le orecchie si sturano dopo un'immersione.

Il rubinetto della vasca tremava, producendo leggeri sussulti metallici, mentre all'interno delle tubature si avvertiva un fischio prolungato, un liquido che scorreva minaccioso in direzione contraria all'acqua. La ceramica della vasca cominciò a tremare, come gelata da un brivido di freddo e Sophia vide formarsi del vapore che saliva e poi si schiariva sul soffitto. E, inaspettato come un fulmine nella giornata più splendente dell'anno, uno zampillo florido, denso e nero come olio per auto, schizzò verso l'alto, all'altezza di un uomo adulto. Gorgogliava come una fontana e puzzava di pesce marcio, gomma bruciata e uova marce, tanto per cambiare. Sophia avrebbe voluto vomitare tutte le viscere, tanto quella puzza era urticante. Sembrava che qualcuno la stesse costringendo a bere dell'acido o della candeggina. Sentì l'esofago fino alla bocca dello stomaco ustionarsi come a causa del passaggio di un calore maschio, un rigurgito che graffia le pareti. Lo zampillo durò per quasi venti secondi, durante i quali a Sophia mancò nuovamente il respiro. Non aveva più le forze per urlare. Gli spasmi provocati dai suoi muscoli, dai suoi polmoni, dal suo cuore, e il caos all'interno del suo apparato digerente l'avevano del tutto debilitata. Quando quel liquame disgustoso cessò, ormai trasbordava dalla vasca come un vaso riempito troppo e colava lento sulle piastrelle, incanalandosi nelle fessure. La sensazione di voltastomaco che provò in quel momento Sophia era indescrivibile. Avrebbe voluto tirarsi fuori le viscere e appiattirsi, in modo tale da passare sotto la porta.

Il denso liquidò cominciò a formare delle bolle grosse quanto un pallone da calcio, scoppiando come palloncini saliti troppo in alto e producendo picchi di fetore intensi che infiammarono i polmoni della ragazza come una fiamma ossidrica. Perfetto, ci manca solo che esca un corvo da quella schifezza e posso anche morire qui. Anzi, morirò di sicuro, per la puzza o per lo spavento! E come sempre, se un incubo si può materializzare, prima o poi lo farà di sicuro. Il liquido nero sembrò ritrarsi e addensarsi come a formare un enorme batuffolo arruffato. In pochi secondi era così alto da toccare quasi il soffitto. Sophia non poteva credere ai propri occhi. Era un corvo. Un gigantesco corvo con un solo occhio al centro della testa. Grosso quanto lo schermo di un televisore, era così scuro che non avrebbe riflesso nemmeno la luce di una stella. Il suo becco era grigio come la punta di una matita. Non aveva ali, ma solo lunghe ossa a formare braccia umane con tanto di mani. Erano ricoperte da piante nere simili ad alghe, inzuppate della stessa schifezza uscita poco prima dalla vasca, così come tutto il piumaggio, come se fosse caduto in una pozza di petrolio rovesciato da una petroliera nel mare. Le braccia erano così lunghe che aperte toccavano entrambe le pareti. Aprì il becco e lo avvicinò la ragazza. Gracidò come un grosso rospo. Un corvo che gracida? Sto impazzendo. Sto di sicuro impazzendo. Anzi, questa è la punizione che Dio mi sta dando per aver trattato male la mia amica, deve essere così, me lo merito, me lo merito senza ombra di dubbio. Spero solo di non soffrire, ti prego Dio mio, non farmi soffrire troppo.

In fondo al becco del corvo, Sophia scorse una gola grossa e gonfia, rosa come i cuscini nel salotto di una nonna. Tanti soffici cuscini sovrapposti, colanti di liquido oleoso. Sophia capì dall'odore che si trattava di olio di fegato di merluzzo, lo stesso che le dava suo zio per farla riprendere dall'influenza. Dal foro presente al centro della gola, all'improvviso, sbucò fuori una zampa. Una zampa che esce dalla bocca di un corvo gigante che si è formato in una pozza di merda nera che è uscita dalla vasca da bagno? A quel pensiero, Sophia fu assalita da una risatina istintiva e isterica, segno che la sua sanità mentale stava cominciando a vacillare in modo pauroso. Il corvo dilatò ancora di più il becco. Sembrava che stesse soffocando, spasimava, come a voler espellere ciò che gli ostruiva la gola. Il braccio che ne fuoriuscì era più lungo di quello di un uomo. Aveva quattro dita tozze e grosse, terminanti con degli artigli, di dieci centimetri il più piccolo, quasi mezzo metro il più grande, a scala. Il dorso della zampa era gonfio, come se le ossa all'interno stessero per scoppiare, mentre i muscoli dell'arto erano rigidi e vigorosi, tesi come cavi d'acciaio. «Ti va di ballare, piccola Sophia?» le sussurrò una voce. Sembrava allo stesso tempo provenire da tutte le parti e da nessuna parte specifica. L'unica cosa che avvertiva era un odore insopportabile di uova marce e un tremendo martellio alla testa. Poi si sentì immobilizzata, si sentiva... drogata.

Si sentì come scollegata dalla realtà a poco a poco. I muscoli le sembravano leggeri come piume e le sembrò di aver perso il tatto. Non credeva neanche di stare in piedi in quel momento e aveva il sentore che sarebbe caduta da un momento all'altro. Entrò in trance. Sul palmo di quella zampa crudele, si formò un foro dal quale venne riflessa un'intensissima e celestiale luce giallo-arancione con sfumature fucsia fosforescente. Quel bagliore si addensò negli occhi di Sophia, ormai del tutto inerme. Si avvicinò alla zampa con la bocca semiaperta, imbambolata come sotto l'effetto di un allucinogeno. «È bellissimo... cos'è quello? L'universo? Voglio entrarci...» sussurrò la ragazza, con una voce che sembrava idiota. «Vieni Sophia, non avere paura... qui si balla come anime libere ed è tutta un'orgia, una fantastica orgia... ballerai e scoperai senza fine, sarà una gioia infinita, eterna come il Signore... non avere paura, lasciati andare ai tuoi istinti, alle tue pulsioni... sii l'animale che sei e buttati nell'oscurità, lasciati divorare... è così piacevole lasciarsi andare...».

Quella voce fredda, metallica, aliena, distorta, vibrante e roca allo stesso tempo, le sembrò la più ammaliante del mondo, come quella di un genitore che parla al proprio bambino, una voce che non mente mai. Sophia si accostò al grosso artiglio, che si richiuse a pugno. La zampa accarezzò con una dolcezza nefanda prima la sua fronte, poi scese lungo la guancia e con uno scatto leggero le piombò in bocca. Girò all'interno a raccogliere la saliva della ragazza che cominciò a sbavare ai lati delle labbra. Le guance si gonfiavano e si sgonfiavano. «Ti piace?» chiese la voce eterea. «Sì...» rispose la ragazza con voce cadente. Tirò fuori l'artiglio e proseguì la sua moina, prima lungo il collo, lasciando che la saliva e il liquido nero macchiassero la camicetta e gocciolassero sui piedi, poi scese sullo sterno e proseguì lungo la pancia. Via via, l'artiglio ruppe i bottoni della camicetta, passando per l'ombelico. Raggiunse l'inguine della ragazza e toccò il bordo delle sue mutandine. Indugiò. «P-p-posso?» chiese tremolante. «Fai pure» rispose la ragazza con voce statica e pietrificata. Una risatina scellerata e sghignazzante pervase la stanza. L'artiglio, freddo e arido, cominciò a tagliare con estrema flemma il tessuto, quando la porta sobbalzò come spinta da una prorompente cornata, la serratura si piegò e cadde a terra producendo un tintinnio. La porta si aprì. «SOPHIA, PERCHÉ NON RISPONDI!? TI HO SENTITA URL...».

A Jennifer si strozzò l'urlo in gola, come un tronco che blocca il flusso di un fiume. Non riusciva a capacitarsi di ciò che vedeva. Credeva che un cortocircuito nervoso le impedisse di ragionare con lucidità e vedere le cose come stavano. In un paio di secondi, vagliò nella sua mente tutte le possibili soluzioni razionali per cercare di spiegare in modo sensato ciò che vedeva. Ma come si suol dire, una volta eliminato l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, dev'essere la verità. Il problema è che a Jennifer ogni ipotesi sembrava impossibile. Alla fine, non poté altro che prendere atto che ciò che vedeva era la verità, se non altro perché si trovava a Primestone. Il corvo si scosse, colto di sorpresa. Con la zampa afferrò Sophia per la testa e la volse verso Jennifer. Quest'ultima vide un vortice all'interno delle pupille dell'amica e il suo sguardo assente e catatonico. «Cosa lei hai fatto, porco!?» ringhiò Jennifer, mentre Taylor era alle sue spalle spaventata e singhiozzava stringendo a sé il coniglietto di peluche. Poi una voce mostruosa risuonò: «Non puoi fare nulla, Jennifer! Tu sei solo una puttanella, una scimmia infetta con un potere estraneo al tuo mondo, un essere insignificante a confronto di un dio come me. Non puoi nulla! E poi... lei si è lasciata andare ai suoi istinti, è lei che è venuta da me... vuole essere libera Jennifer, capisci? Libera... ha voglia di ballare Jennifer e anche tu desideri ballare nel profondo del tuo animo... vieni Jennifer, lasciati andare anche tu, scatena l'animale che c'è in te, annulla la tua coscienza e insozzati nell'orgia universale!». Jennifer fissò iraconda quell'essere estraneo al mondo, che si faceva beffe della sua amica e la sporcava col suo sudiciume. Provava così tanta rabbia che desiderava solo... uccidere. Chiuse gli occhi. Dominio della mente, vieni a me... ho bisogno di nuova forza. Quando riaprì gli occhi, tutto era nero. Sentiva una pozza d'acqua sotto i suoi piedi vibrare appena, come scossa da un lieve flusso appena sotto la superficie. Un tanfo pungente le bruciava le narici, ma tratteneva di tanto in tanto il respiro. Avanzò affondando le suole in quel liquido che sembrava acqua. Di nuovo... questo non è il mio Dominio, è il suo. La voce, quella vera, ruppe quella quiete inquietante.

«Jennifer... È Dav-Ve-Ro Spiacevole Che Tu Venga Qui Ogni Vol-Ta... Ti Pregherei Di An-Da-Re Viaaa...».

«Me ne andrò quando tu lascerai la mia amica Sophia!» ringhiò la ragazza. Due sfere fucsia fosforescenti si materializzarono appena sopra Jennifer, enormi globi grossi di una luminescenza fastidiosa. Un ruggito tremendo fece vibrare quel vuoto senza limite. Jennifer cadde all'indietro finendo con il sedere per terra. Ma il coraggio della ragazza non barcollò neanche per una frazione infinitesima di secondo. Si rialzò con prontezza e ruggì a sua volta, urlando a pieni polmoni. Una tempesta di immane furia si propagò da Jennifer. Le due sfere vennero spazzate via come fossero fatte di gas e il mostro emise un lamento di malessere. Ripiombarono nella realtà.

Vide la zampa che fuoriusciva dalla bocca del corvo strofinare la testa del pennuto che si agitava in modo compulsivo. Il suo cranio si gonfiava e pulsava come un cuore, sembrava che dovesse esplodere da un momento all'altro. Jennifer allungò la mano verso Sophia e la trascinò a sé sforzandosi con la mente. Quando fu abbastanza vicina, l'abbracciò. «Sophia rispondi, ti prego rispondi, di' qualcosa!» urlò Jennifer, scuotendo l'amica. Ma il suo volto era sempre fisso, impassibile come una statua fiera della sua intramontabile bellezza. Gli occhi erano morti e la luce che prima li illuminava sparita. La sua pelle era fredda e i muscoli erano così tesi che Jennifer sentì i tendini sottopelle. Poggiò il palmo della mano sulla fronte di Sophia, come a volerle controllare la temperatura e chiuse gli occhi. Svegliati. Sophia inspirò disperatamente, come se fosse rimasta in apnea per tanto tempo, e poi espirò. Mentre ansimava, fissava i grossi occhioni verdi di Jennifer, che le sembravano zaffiri incastonati nella perla, tanto erano lucenti ed evocativi di un amore incondizionato, come quelli di... una mamma. Si buttò al collo dell'amica e scoppiò a piangere. Nello stesso momento, la zampa artigliata si ritirò nella gola del corvo, che diede uno strepitio acuto e intenso. «Non c'è tempo Sophia, chiudiamo la porta!».

Le due ragazze, come lepri, varcarono la soglia. Sophia afferrò la maniglia e chiuse la porta. Le due ragazze provarono con il loro peso a tenerla ferma ed erano già pronte all'impatto. Come un trapano e percussione, in pochi attimi, il becco perforò il legno sottile e fece volare ovunque schegge di truciolato. L'enorme bocca del corvo separava Jennifer e Sophia che urlavano come pazze, mentre Taylor piangeva disperata. «Taylor, prendi il telefono e chiama le Guardie!» disse Sophia. «No, Taylor non farlo!» esclamò Jennifer. «Jennifer, ma che dici!?» strillò meravigliata e infastidita l'amica. «Non capisci, Sophia!? Solo noi lo vediamo! Tutto ciò che vedranno saremo noi che teniamo ferme una porta!». Sophia strabuzzò gli occhi e rimase intontita, come se avesse ricevuto una martellata in testa. «Che devo fare!?» urlava intanto Taylor con le guance rosse, continuando a piangere. «Sophia, con tutto questo trambusto, le ragazze nelle camere accanto si sveglieranno e chiameranno le Guardie. Dobbiamo farlo fuori prima che vengano!». Le parole di Jennifer non sembrarono convincere Sophia, che spostava freneticamente lo sguardo da un punto all'altro del pavimento, con la schiena contro la porta e l'amica alla sua destra, oltre l'enorme becco grigio. «Se solo ci fossero i ragazzi, se solo ci fossero i ragazzi!» sentenziò Sophia. «Smettila, Sophia! Non ce ne facciamo nulla dei ragazzi, ora non ci sono! E poi che ne è stato del Girls Power!? Se n'è andato a puttane anche lui!? Reagisci Sophia, puoi farcela, puoi sconfiggere la tua paura, pensa, porca miseria, pensa, che non ce la faccio più a tenere la porta!».

Jennifer provava a usare anche il suo potere mentale per farsi forza. Cominciò a uscirle il sangue dalle orecchie a causa dell'eccessivo sforzo e i talloni cominciarono a sfregare e a sanguinare a causa dell'attrito con il pavimento. Sophia era persa nei suoi pensieri, pur continuando a sforzarsi di salvare la pelle a sé e alle sue compagne. Poi, improvvisamente ebbe un'idea, come un suggerimento durante un compito in classe. «Jennifer, ti fidi di me?». «Certo che mi fido di te Sophia, sei la mia amica del cuore, se non mi fido di te per me è finita!». «E tu, Taylor, ti fidi di me?». Sophia guardò con un sorriso triste la bambina, che smise di piangere e la fissò con una gioia infantile. «Io mi fido delle mie sorellone» singhiozzò. Sophia prese un profondo respiro e poi disse: «Jennifer, al mio tre lascia andare la porta e poi fate quello che faccio io!». «Ma sei impazzita, Sophia!?». «Ma non hai appena detto che ti fidavi di me!?». «Sì, però... ok... conta!». Quando pronunciò «tre», lasciarono la presa con la schiena e si voltarono verso la porta. Nello stesso momento, il becco del corvo si disincagliò e sfondò la porta, che fu dilaniata in decine di pezzi. Il corvo immondo spinse con brutalità tra i due stipiti della porta, ma era troppo grosso e rimase bloccato. Provò a scuotersi, ma non fece altro che far schizzare quel maleodorante liquame in tutta la stanza, come un cane che cerca di liberarsi dell'acqua dopo essere caduto in una piscina.

«Vattene via, brutto uccellaccio! Io sono uno spaventapasseri gigante, uno spaventapasseri gigante di fuoco e se ti avvicini a me marcirai e brucerai!». Sophia disse quelle parole imitando una delle voci di Thomas, il Sergente di Ferro. Già l'imitazione di Thomas era di scarsa qualità, figurarsi l'imitazione di un'imitazione. Taylor e Jennifer trattennero le risate portandosi la mano alla bocca. In maniera inaspettata, il corvo si ritrasse e fece come per fuggire. «Funziona, funziona!» disse festante Taylor. Jennifer rimase sbalordita, ma le sembrava che ciò che stava accadendo non avesse senso. Funzionerà. Deve funzionare. «Via, brutto corvo, via! Anche io sono uno spaventapasseri!» gridò Jennifer e a quel coro di voci femminili si unì anche la vocina stridula ma simpatica di Taylor: «anche il signor Coniglio è diventato uno spaventapasseri! Anche lui!». Il corvo diede l'ennesimo lamento di dolore e si divincolò staccando parte delle pareti attorno alla porta. In modo buffo e goffo, ondeggiando, marciò all'indietro come un gambero verso la vasca. Prima di entrarci, vomitò un getto d'inchiostro nerissimo che inondò tutta la stanza, imbrattando le pareti e quasi sommergendo le ragazze, che vomitarono all'istante. Il loro rigurgito si unì a quella melma che odorava di feci, uova, gomma bruciata, pesce e sangue, tanto sangue. Le sfumature vermiglie erano ben evidenti. Il corvo intanto salì sul bordo della vasca e si sciolse, scivolando nello scarico della vasca. Le amiche erano salve, ma spaventate a morte, sporche di quella sostanza indefinibile, affaticate e assonnate. «S-s-sono sporca e-e-e-e puzzo!» singhiozzò Taylor. Jennifer intanto era inginocchiata e abbassò lo sguardo. Provava a specchiarsi in quel nero, ma era come volerlo fare nel cielo notturno. Un freddo intenso la fece rabbrividire, provocato dal liquame, appiccicoso e urticante. Sentì l'amica singhiozzare: delle lacrime le scendevano lungo il viso nerissimo. I capelli sembravano uno straccio non ancora strizzato e le cadevano sulle spalle come fili di spago. Sembravano dei gelati immersi nella cioccolata, magari lo fosse stato. Sophia guardò Jennifer negli occhi e le disse piangendo: «Mi dispiace di averti dato della puttana... sono stata una cretina, non so cosa mi sia preso... ero gelosa di te perché... anche a me piace Leonard... mi dispiace!». Jennifer reagì di riflesso e scoppiò a piangere anche lei. Strinse forte a sé l'amica, che ricambiò. Taylor si tuffò sulle sorellone che erano in ginocchio e le abbracciò a sua volta. La sostanza faceva scivolare i loro corpi come bucce di banana sotto una scarpa. «Girls power» disse Taylor. «Girls Power» risposero le altre due, e risero tutte e tre insieme, mentre singhiozzavano e si compativano. 

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