CAPITOLO 6 (Parte 2)

Sophia Williams era nata da una famiglia di nomadi circensi originari delle MiddleLands. Sul finire dell'Ottocento, i Williams erano emigrati nelle WesternLands in cerca di fortuna. Per decenni, avevano vagato tra le piccole città della grande Federazione, portando in giro la loro arte, in particolar modo gli spettacoli col fuoco, specialità di tutta la famiglia. Alla fine della seconda guerra mondiale si stabilirono in una città di circa centomila abitanti chiamata Lillitown, che fino ad allora non aveva mai avuto un circo. In pochi anni, monopolizzarono tutto il settore dell'intrattenimento locale. Ogni anno, migliaia di persone, provenienti da tutte le contee dello stato e anche da quelle vicine, vennero a conoscenza degli spettacolari eventi pirotecnici della famiglia Williams e del loro circo. Per quasi tre decenni cavalcarono la cresta dell'onda, accumulando anche una discreta fortuna che permise loro di acquistare in blocco un intero terreno della città che poi avrebbe acquisito il nome della famiglia. Non si trattava di un vero e proprio quartiere. L'area si trovava nei pressi della discarica cittadina. Fino agli anni Sessanta era presente un manicomio. Ormai inutilizzato, venne abbattuto per far posto a un moderno stadio di football. Avrebbe dovuto accogliere le sfide casalinghe dei Lilli Rogers, la squadra di casa. L'idea era quella di premiare la promozione della squadra nella Major League e sviluppare l'economia della città intorno all'industria dello sport, attirando turisti dalle aree limitrofe. Ma il progetto non fu mai avviato, fermandosi alla demolizione del manicomio e allo spianamento del terreno. Anche la discarica doveva essere trasferita, ma uno scandalo di tangenti e appalti truccati, in cui fu coinvolto anche il sindaco, fece sì che per alcuni anni il terreno rimanesse disabitato. Fu così che la famiglia Williams decise di acquistarlo e dalla fine degli anni Sessanta era lì che aveva sede il circo della famiglia, a solo un miglio di distanza dalla discarica cittadina. Il quartiere era un'area recintata, il settore est era occupato dal circo, mentre la parte ovest era riempita di piccole casette di legno prefabbricate e roulotte, intere generazioni ammassate e tenute insieme dal sangue e da una recinzione di ferro battuto che circondava tutta la zona. Era stata costruita per scoraggiare le incursioni notturne dei vandali, che non vedevano di buon occhio la presenza di zingari stanziati in città. Ci furono numerosi episodi di razzismo, alcuni terminati con la morte di alcuni membri della famiglia.

I Williams erano organizzati in una scala gerarchica. Le decisioni venivano prese dal "patriarca", la figura più autorevole, nominato dagli anziani della famiglia e dagli uomini più influenti alla morte del precedente. Sul finire degli anni Ottanta però, le nuove generazioni spingevano per abbandonare l'industria del circo di famiglia, sia per costruirsi una nuova vita, sia per via delle difficoltà economiche. Era questo il caso di Robert e Angela Williams, i genitori di Sophia. Quando erano ancora ventenni, avevano deciso di lasciare i rispettivi nuclei familiari in cerca di fortuna. Anni dopo, avrebbero dato alla luce la loro bambina. Riuscirono a farsi assumere entrambi come operai in un'industria della concia delle pelli locale e vivevano in maniera più che dignitosa. Poterono permettersi un'auto nuova e una graziosa abitazione in periferia, aiutati anche dai prezzi bassi della contea rispetto ad altre grandi città, assai più costose. Sophia era la loro gioia, la loro vita e avrebbero fatto anche l'impossibile per lei, per garantire un futuro roseo alla loro piccola "fiamma". Fin dai quattro anni, la bambina aveva manifestato le sue abilità mutanti di generazione e manipolazione del fuoco. I genitori non ne furono quasi per nulla scossi, anzi considerarono quell'abilità come un dono divino. «Nostra figlia è stata toccata dal Signore, è un segno, non può essere altrimenti» ripeteva sempre la madre Angela, quando parlava con le cugine che venivano a farle visita.

Quando il fratello di Robert, Walter, che era anche il patriarca della famiglia, venne a conoscenza dell'abilità della nipote, supplicò suo fratello di portarla al circo e di farla diventare una circense. «Tua figlia non solo è bellissima, la più bella della famiglia, ma ha un dono, capisci Robert, un dono. Riportala in famiglia, in questo modo risolleverai le sorti di tutti i Williams. Hai già commesso il peccato di abbandonarci, ma ora puoi riscattarti. Sai che cosa fantastica sarebbe? "Venite signori, oggi assisterete allo spettacolo della piccola Sophia Williams, la bambina di fuoco!". Robert, faremo soldi a palate, proietteremo la famiglia in una nuova dimensione, diventeremo ricchissimi, fratello, pensaci!». Ma il padre di Sophia non sentiva ragioni. Walter gli aveva assicurato che nessuno del pubblico avrebbe sospettato che il fuoco tra le mani della bambina fosse reale. D'altronde, chi avrebbe mai sospettato che non ci fosse un trucco in una bambina che gioca con delle fiamme tra i palmi, facendole volteggiare e sfolgorare come coriandoli? Il padre riteneva che l'esposizione avrebbe danneggiato la figlia. «Sei pazzo Walter? Sai che succede se attira troppo l'attenzione e viene scoperta? Verrà il governo e la porteranno via chissà in quale posto segreto per studiarla» sentenziò Robert, ponendo fine a ogni tentativo di riapertura delle trattative. «Robert, sei un maledetto, sei un disonore per questa famiglia. Dovresti aiutarci, invece te ne freghi, non farti più vedere» replicò il patriarca.

La vita continuò a scorrere con normalità ancora per qualche anno. Sophia cresceva nell'armonia e nell'amore incondizionato dei genitori, ma se una cosa può andare male, allora lo farà quasi di certo. Purtroppo, la madre di Sophia si ammalò di tumore ai polmoni e morì quando la figlia aveva otto anni. Due anni dopo, anche al padre venne diagnosticato lo stesso male, ma lui, a differenza della moglie, non ebbe il coraggio di affrontare i sintomi della malattia e s'impiccò nel garage di casa con una fune, lasciando la figlia sola nel soggiorno mentre guardava The Birds di Hitchcock. Per una bimba di dieci anni un conto è guardare con suo padre un film, un conto è guardarlo tutto da sola. Si spaventò a morte a guardare quei corvi che se ne stavano appollaiati sui cavi elettrici a fissare i protagonisti che uscivano di casa. Corse a chiamare il papà che dieci minuti prima s'era alzato dicendo: «fiamma, papà deve fare una cosa, ma tu non avere paura, andrà tutto bene». Gli diede un bacio sulla fronte, per poi allontanarsi alle spalle del divano. Sophia sentì i passi sempre più distanti e il rumore della porta che dava nel garage aprirsi e poi richiudersi in un cigolio che le diede i brividi. Quando si spaventò per la scena del film, la bambina corse disperata a cercare il padre in casa, ma non lo trovò. Si ricordò di aver sentito il rumore della porta del garage e si catapultò lì, con le lacrime agli occhi e le mani in faccia, come a proteggersi proprio da quei corvi che aveva visto poco prima in televisione. Era terrorizzata all'idea che potessero uscire dallo schermo, che sfondassero una finestra di casa e la beccassero a morte. Ma la morte era già in casa sua.

Trovò suo padre penzolante a una fune attaccata a una trave, con delle gocce di bava che gocciolavano dall'angolo sinistro tra le due labbra e le orbite quasi fuori, a palla, appannate come quelli di un pesce non troppo fresco. Un colore violaceo aveva macchiato il collo, nel punto in cui la fune aveva agito. Sotto ai suoi piedi, una sedia che era rovesciata. Sophia rimase per quindici interminabili minuti a contemplare la scena. Non versò una lacrima, non strillò. Era come se quella vista l'avesse uccisa all'istante, senza possibilità di replicare, senza che il dolore la contagiasse. Solo dopo chiamò il 911. Anni dopo si sarebbe scoperto che la causa dei tumori era la fabbrica in cui i genitori di Sophia lavoravano. I dirigenti furono accusati di non rispettare le norme di sicurezza sul lavoro e di utilizzare prodotti chimici aggressivi e sostanze non conformi alle regole della Federazione. Il caso venne alla luce solo quando le famiglie dei dipendenti, insospettite dall'eccessivo numero di tumori diagnosticati, decisero di organizzare una class action per denunciare la Happy Tessil, proprietaria di quella fabbrica.

Sophia fu affidata a suo zio Walter, il parente più prossimo. Da quel momento in poi sarebbe cominciato un incubo per la giovane Williams. La costrinse a prendere lezioni di ballo e a esibirsi negli spettacoli circensi di famiglia, mostrando al pubblico le sue abilità. Dovette abbandonare la scuola. Passava intere ore a esercitarsi sotto l'attenta supervisione di suo zio, che non le scrollava mai gli occhi di dosso, come incollati sulla figura della bambina. Sophia non sopportava quello sguardo, così strano a suo modo di vedere, come se suo zio volesse nascondere qualcosa di malvagio, con quel sorriso abbozzato a mostrare i canini. Spesso, dopo essersi lavata la sera ed estenuata dall'esercitazioni della giornata, lo zio bussava alla porta del bagno e lei apriva mentre ancora aveva il piccolo accappatoio rosa addosso. «Cosa c'è, zio?» chiedeva sorpresa lei. Ogni volta le si accapponava la pelle. Walter la guardava con quello sguardo morto, privo di qualsiasi espressione. Poi sorrideva, come in preda a un pensiero improvviso, qualcosa lo rendeva felice, ma non come una barzelletta, era felice in un modo diverso. «Sei bellissima Sophia, sei la più bella della famiglia. Lascia la porta aperta, così se ti succedesse qualcosa, io potrò intervenire subito» disse suo zio con tono basso. «Ma zio, mi devo asciugare» rispose lei. «Sei in famiglia Sophia, non devi mai vergognarti della tua famiglia, come invece hanno fatto i tuoi genitori. Mai!». Le parole dello zio tuonarono in quel piccolo bagno con il pavimento scorticato e i sanitari macchiati e graffiati. Sophia non capiva mai le richieste o gli atteggiamenti di suo zio, ma era la sua famiglia e lei gli voleva bene, per davvero.

Sophia, come da tradizione dei Williams, a dieci anni era stata promessa in sposa al maggiore dei tre figli di Walter, Theo, di sedici anni. Gli altri due fratelli erano Denver e Charlie di quattordici e dodici anni. Sophia non sopportava come i suoi cugini la guardavano. Spesso aveva sorpreso Denver a guardarla mentre dormiva o Charlie a sollevarle la gonna. Ma quello che le faceva più paura di tutti era Theo, perché lui la picchiava. Il suo promesso sposo, quello che avrebbe dovuto essere il principe azzurro, la picchiava. Lo faceva all'improvviso, senza alcun pretesto apparente. Le menava dei pugni rudi e violenti, al volto, sulle spalle, sulle braccia, lasciandole sempre dei grossi lividi violacei che poi si schiarivano diventando chiazze giallognole. E lo zio lo permetteva. «È il tuo futuro marito Sophia, fra due anni vi sposerete. Lui può fare quello che vuole di te, tu sei una femmina e lui è maschio» le ripeteva sempre. E i colpi del cugino non erano mai forti come quelli dello zio. Un giorno Walter la portò in un parco giochi. Sophia voleva bene a suo zio e anche se le faceva del male, non avrebbe mai potuto odiarlo. Forse. Una volta aveva desiderato che morisse come i suoi genitori. Dio perdonami, non volevo fare dei pensieri così brutti. Ti prego puniscimi, fammi rompere una gamba, ma ti prego, non fare del male all'unica famiglia che mi è rimasta. Loro lo fanno solo perché mi vogliono bene.

Comunque, quella giornata al parco giochi, Sophia si divertì molto, facendo amicizia con un bambino di un anno più grande di lei. Lei adorava quando lo zio la portava a divertirsi. Quelli erano i momenti migliori perché le rammentavano quanto lei volesse bene allo zio e quanto anche lui sembrava volerle, così come amava sentire l'odore dello zucchero filato, delle arachidi tostate e delle mandorle caramellate quando si recava al circo (e non doveva farlo per allenarsi a ballare). Quando tornarono al piazzale dove Walter aveva parcheggiato l'auto, chiese alla nipote: «ti rendi conto di ciò che hai fatto?». Sophia lo guardò perplesso. Non capiva dove avesse sbagliato e sapeva che. quando sbagliava, l'unico modo per correggerla («perché Dio santo, Sophia, sei un disastro e devi essere corretta!») era un bel ceffone. E così fu. Come un masso, il palmo dello zio si schiantò sul suo volto. Le fece sballottolare il cervello all'interno del cranio, come una pallina da ping-pong. Urtò la testa contro la dura lamiera della portiera, lasciandole in dono un bernoccolo prominente. Le assestò poi un pugno al braccio, che sembrò spezzarsi sotto la potenza di quegli arti rudi e vigorose, con irti peli arruffati. Secondo livido come dono. «Zio, perché mi picchi?» scoppiò a piangere. «Perché ti picchio!? – sbottò lui iracondo – Perché tu devi essere corretta! Tu sei la promessa sposa di Theo, non puoi parlare con altri maschi che non siano della famiglia, te lo avevo già detto, ma tu sei dura, nipote mia! Cosa ti ho detto? Cosa ti ho detto!? Cosa ti ho insegnato sul perché i maschi vogliono parlare con te!?». Sophia lo guardò con le lacrime agli occhi e con voce soffocata rispose: «perché vogliono fare sesso con me...».

Lo zio la guardò con aria di rimprovero, poi come a consolarla. Sophia sapeva cos'è il sesso. Ne aveva sentito parlare per la prima volta dalle sue cugine Greta e Adele. Per caso aveva origliato una loro conversazione, nella quale Greta aveva detto: «ho saputo che il sesso fa molto male». E Adele aveva ribattuto: «sì, è vero, ed esce anche tanto sangue la prima volta dalla vagina». «Mamma che schifo, sangue!? Non farò mai sesso!». Walter aveva incaricato la zia Monica di insegnarle tutto ciò che le donne devono sapere circa l'argomento. Quando quel pomeriggio lo zio la picchiò in auto, Sophia rammentò tutti quegli insegnamenti. Perché sono così stupida? Perché mi faccio picchiare ogni volta? Zio ha ragione, sono io che mi faccio picchiare. Me lo merito! «Sophia, tu sei bellissima, sei la più bella della famiglia, ma sei sempre con la testa nelle nuvole e distratta. Io ti devo correggere. Tu sei il futuro e sarai la moglie di Theo. Devi essere brava, capisci?». Sophia annuì. Lo zio le sorrise. Gli diede un abbraccio un po' rude, ma sembrò amorevole. Ma come un'auto che ti investe quando meno te lo aspetti, prima che Sophia si allontanasse dall'abbraccio dello zio, quest'ultimo le diede un bacio. Con la lingua. Lei non poté reagire.

La sua bocca fu impastata dalla saliva di Walter e la lingua grossa e viscida la spazzolò tutta, come un verme che cerca di scavare nel terreno. Non provò nemmeno ad allontanarlo, anche se lo desiderava con tutto l'animo. Sapeva che lo zio stava facendo qualcosa di sbagliato. E sapeva anche che se si fosse rifiutata, si sarebbe beccata una raffica di pugni tale da sistemarla per bene. Quando suo zio si leccò le labbra, lei lo guardò intimidita e impaurita, mentre lui aveva stampato un sorriso plastico sul volto. Poi le disse: «Sophia, questo è il nostro piccolo segreto. Io ti desidero, ma sei la futura sposa di Theo. Però ricordati, tu sarai sempre mia. Capito?». Sophia annuì come in un gesto involontario. Non si rendeva più conto di quello che faceva. «Per questa sera ti metterò a dormire nella gabbia per punizione. Mi hai disubbidito e un paio di colpi e un bacio non bastano». «Ma zio...». Lui la guardò con un volto cupissimo. Sembrava volesse picchiarla con gli occhi. Sophia trattenne il respiro e poi rispose: «Ok zio, ti voglio bene».

Scontata la punizione, Walter prese l'abitudine di rimboccare le coperte alla nipote. A volte la baciava con tenerezza sulla fronte, altre volte la baciava sulla bocca, non mancando mai di infilare la lingua. «Il nostro piccolo segreto» le sussurrava. «Il nostro piccolo segreto» rispondeva lei, trattenendo le lacrime. Di tanto in tanto, sentiva le molle del letto cigolare nella stanza degli zii accanto, un po', e poi con più insistenza. Sapeva che i due stavano avendo un amplesso. Ricordava le parole delle cugine, ma non gli sembrava che la zia stesse soffrendo. Di tanto in tanto le sentiva mandare qualche gemito, ma non era certo di dolore. Quando il letto smetteva di muoversi, pochi minuti dopo, prendeva sonno. Nel piazzale di terra battuta dove si trovava la casa di Walter, a circa quaranta metri di distanza, viveva in una vecchia roulotte arrugginita Max Williams, detto Mitragliatrice Inceppata. Era celibe, viveva tutto solo nel suo fatiscente "angolo di Paradiso". Era un uomo con i capelli radi e i denti quasi tutti cariati. Indossava sempre una canotta sporca di grasso, olio e sugo e un pantalone da lavoro blu, uno di quelli che usano gli operai. Passava le giornate a costruire sculture con la ferraglia e i pezzi che trovava alla vecchia discarica, amava fumare la pipa e intagliare il legno, creava animali di tutte le forme. Viveva della pensione sociale. Era discriminato da tutti, perché ritenuto pazzo (e forse un poco lo era) e tartagliava come una mitragliatrice inceppata, appunto.

Sophia ricordava con curiosità e timore quell'uomo. Ricordava come una volta si fosse soffermata davanti alla sua roulotte ad ammirare un orso di legno intagliato, alto circa ottanta centimetri. Desiderava tanto averlo. Ricordava che aveva sorpreso l'uomo mentre ritornava con le buste della spesa. Max aveva provato a fargli un sorriso, ma quei buchi in mezzo ai denti come formaggio svizzero terrorizzarono la bambina. Una domenica pomeriggio, Max spiò Sophia dalla finestra della sua abitazione. Giocava con un pallone bucato nel piazzale davanti casa, con le sue scarpette rosa e il completino coi merletti alla gonna. Sembrava avesse in testa una parrucca di fuoco arruffata, ma erano proprio i suoi capelli. Max vide quello stesso pomeriggio i suoi cugini che la menavano. Theo quel giorno le aveva mollato un calcio nello stomaco, facendole vomitare saliva. Walter li aveva sgridati quella volta, ma solo perché lo stavano facendo in pubblico e stavano esagerando. Dopo averla aiutata a sollevarsi, lo zio le pulì l'abito con la mano, insistendo particolarmente sul sedere, come notò Max. Da semplici pacche, divennero maliziose carezze, fino a vere e proprie palpate. Seppur lontano, Max riusciva a leggere nel volto della bambina l'imbarazzo e il disagio. Quando lo zio rientrò, Sophia restò sola in mezzo alla piazza a piangere. Max era un po' pazzo, introverso, strambo e tartagliava, ma il suo cuore valeva per diecimila. Quel giorno salvò Sophia. Attirò la bambina con un elefantino intagliato. Nonostante la titubanza di lei, riuscì a convincerla. In quel momento, Sophia avrebbe preferito anche uno sconosciuto pazzo senza denti, piuttosto che la sua "famiglia".

Max la fece sedere e le servì una tazza di tè al limone e biscotti con gocce di cioccolato. La bambina guardava incuriosita quella cucina verde acqua, con i pensili rovinati e appesi e quelle sculture di ferro e latta sparse per tutta la roulotte. Max invece guardava Sophia rattristito. Vedeva quei lividi come pozzanghere gialle e viola sparse per tutto il corpo, gli occhi scavati della bambina e il pallore di stanchezza sul suo volto. «T-t-t-ti pic-c-c-cchiano tutti i-i-i giorni?» chiese Max, conoscendo già la risposta. «Non sempre» rispose con sguardo basso. Max sapeva che stava mentendo. In origine era solo Theo a picchiarla. Poi aveva cominciato lo zio. E infine anche gli altri due cugini. Quattro uomini contro una bambina di dieci anni e mezzo. Ormai la trattavano come fosse un sacco da box, un giocattolo vecchio, ma sempre utile a sfogare lo stress. «E-e-e-e-e ti f-f-f-fanno anche q-q-q-q-qualche altra c-c-c-c-cosa?». «No!» trillò Sophia inorridita. Poi s'incupì. Aveva capito cosa intendeva l'uomo. Si riferiva al sesso. Ma nessuno faceva sesso con lei. Lo zio la baciava in bocca tutti i giorni, ma a parte quello (e i pugni) nessuno la toccava in quel senso. Max rabbrividì alla perspicacia della bambina, ma aveva il sentore che qualcosa succedeva o che prima o poi sarebbe successo. Bastava osservare come la toccava lo zio. «P-p-p-p-posso c-c-c-chiamare la p-p-p-polizia se v-v-v-v-v-vuoi...». «No, è escluso! È la mia famiglia, non li metterei mai nei guai!». Era vero. C'erano momenti in cui avrebbe voluto bruciarli, poi si metteva a piangere e pregava l'Altissimo affinché non ascoltasse ciò che diceva, perché lei voleva bene alla sua famiglia. Quel pomeriggio, Max e Sophia parlarono come due amici di lunga data. Una frase in particolare colpì la fanciulla, poiché il ragazzo l'aveva pronunciata tutta d'un fiato, senza balbettare: «le famiglie lasciano liberi i propri bambini e ragazzi. Vuoi sentirti libera? Allora brucia. Brucia tutto!».

La bambina ebbe la sensazione di aver trovato un amico, uno vero. Ma si sarebbe pentita anche di quello. Un vicino di casa aveva riferito a Walter che la bambina era entrata nell'abitazione di Max. Quella stessa sera, Walter, furioso come un orso affamato, stava quasi per uccidere di botte Sophia. Solo l'intervento della zia, che sapeva dei maltrattamenti della bambina (ma non della perversione di suo marito) e che non era mai intervenuta prima di allora, riuscì a placare l'ira del marito. Sophia passò una settimana a letto prima di riprendersi, ma a Max andò ancora peggio. Walter afferrò una vecchia accetta che aveva nel suo scantinato e la usò per tagliare la mano del pover'uomo. «Ecco, così non potrai più lavorare a quelle tue creazioni di merda!» aveva urlato Walter così forte da farsi sentire per tutto il distretto. Poi venne quella sera. Sophia non riusciva a prendere sonno. Ripensava ai corvi che aveva visto appollaiati sul tetto di una vecchia casa abbandonata nei pressi della discarica quello stesso pomeriggio e a quell'acre tanfo di vecchi pneumatici, che bruciava nelle narici come carta in un camino. Stava fissando la porta della sua stanza, tremante, come presagendo che quella sera qualcuno sarebbe entrato. E così fu. Due ombre nere avanzarono in quella stanza buia come macchie di sporco su un vestito nero. Erano Theo e suo zio. Suo cugino salì sul letto e le tappò la bocca. Sophia aveva il cuore che stava per esplodere e le mancava il fiato. «Sophia, Theo ha scoperto il nostro piccolo segreto, ma non dirà nulla. Gli ho promesso che ti avrebbe consumata prima del vostro matrimonio. Io resterò qui... a guardare». Sophia, con la coda dell'occhio, vide sua zia sull'uscio della porta dell'altra stanza. Le si gelò il sangue. Voleva implorarle aiuto, ma aveva un enorme livido sull'occhio destro, una chiazza nera e densa come un carbone. La vide con lo sguardo metallico e inflessibile voltarsi e chiudere a chiave la stanza. In quel momento, Sophia si sentì annegare. Aveva capito che sua zia non l'avrebbe aiutata. Nessuno l'avrebbe fatto. Mio cugino farà l'amore come me. Mi farà male e mi uscirà il sangue. Ma d'altra parte è la mia famiglia, mi vogliono bene e poi... sono la sua sposa... vivrò in questa prigione recintata per sempre... non sarò mai... libera... Theo con veemenza le sfilò il pantalone del pigiama e poi le mutandine. «Sei... bellissima Sophia...» disse con voce strozzata. Poi una vocina risuonò nella sua mente. Era il suo istinto. L'istinto di sopravvivenza.

Morse la mano di Theo, che diede un guaito di dolore e mollò la presa sulla bocca. «Lasciami... lasciami andare!». «Sophia, non fare così... lo sai che devi essere corretta!» le ricordò suo zio. Le famiglie lasciano liberi i propri bambini e ragazzi. Vuoi sentirti libera? Allora brucia. Brucia tutto! Sophia puntò una mano contro suo cugino e... sparò una vera e propria bomba di fuoco. La bambina ansimava e sentiva i muscoli tesi come cavi d'acciaio di una gru. Aveva così tanta adrenalina nel corpo che avrebbe potuto correre per un'ora intera e non avvertire la fatica. Ci fu un boato incredibile. La finestra della sua stanzetta andò in frantumi come un bicchiere di vetro che rovina dal tavolo. Walter fu sbalzato via nel corridoio, strisciando con la schiena sul pavimento così forte da scorticarsela tutta. Theo invece fu colpito in pieno dalla fiammata. Balzò sul soffitto e rovinò a terra. Si sentì un rumore di ossa rotte. Il lampadario si staccò e per poco non schiacciò Sophia. Theo era completamente ustionato sul davanti. Il suo volto era del tutto bruciato, al punto che si potevano vedere i nervi e i muscoli. Era morto sul colpo, ma Sophia non lo sapeva. Sentiva solo odore di carne bruciata. Si rimise l'intimo e il pantalone e si catapultò nel corridoio, ma c'era un ostacolo da superare: suo zio. L'uomo grande e grosso, col ventre gonfio, ma teso e robusto, si rialzò forzando il peso sul ginocchio e si fece male da solo. Diede un urlo di rabbia contro la nipote. «Sophia, devi essere corretta! Tu sei sbagliata!». Intanto la moglie aveva riaperto la porta e faceva capolino, mentre gli altri due cugini di Sophia si erano soffermati sull'uscio, svegliati da tutto quel trambusto, con gli occhi ancora appannati dal sonno. L'uomo afferrò un vaso di vetro che era poggiato su un mobile e lo scagliò contro la nipote. Lei provò a parare il colpo, ma i cocci di vetro sulle braccia la ferirono. «Aiuto!!! Aiutatemi!!!».

Walter in un attimo afferrò la nipote per il collo e la spiaccicò contro il muro, con una violenza tale che era impossibile essere certi che non avesse intenzione di ucciderla. Sophia avvertiva una fitta fortissima alla testa. Era convinta di essersela rotta, mentre il palmo dello zio, spingeva forte alla gola, soffocandola. Sophia provò a sollevare un braccio e a lanciare una fiamma, ma l'uomo la colpì con tutta la sua forza allo stomaco. Cento chili di grasso, muscoli, nervi e perversione scaricarono la loro forza infima su una bambina di neanche undici anni. Sophia avvertì un dolore e un calore indescrivibili. Le sembrò che qualcuno la stesse perforando con un pezzo acuminato di metallo fondente. Divenne rossa e gonfiò le guance. Voleva vomitare e sentiva il gozzo denso e putrido fermarsi al centro della gola e bruciare il suo esofago. Lo zio la stringeva così forte che niente riusciva più a uscire dalla sua bocca. Né un grido, né una goccia di saliva. Con fatica, delle lacrime le sgorgarono. Sentiva le forze che l'abbandonavano. Sentiva in lontananza la voce della zia gridare, come se provenisse dalle profondità di un sogno maligno: «Walter, così la uccidi!», e lui rispondere: «questa ragazza è sbagliata! È tutta sbagliata! Deve essere corretta!». Pensò di stare per morire. Chiuse gli occhi e il buio l'avvolse.

Poi un urlo. Le sembrò che la morsa dello zio l'avesse abbandonata. Mi duole la pancia. Sento il pavimento. È freddo. Sono caduta a terra? 

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