CAPITOLO 6 (Parte 1)
ATTENZIONE! IL CAPITOLO 6 POTREBBE RISULTARE PARTICOLARMENTE DISTURBANTE! SE DECIDERETE DI NON PROSEGUIRE CON LA LETTURA AL TERMINE DI QUESTO CAPITOLO, L'AUTORE NON AVRA' NULLA DA RECRIMINARVI.
Erano passate un paio di settimane da quando gli Sfigati avevano sconfitto la Nonna Pervertita nella casa in fondo a Garden Street. Feriti ed esausti, quella stessa mattina si recarono in infermeria. Quando a tutti loro erano state chieste delle spiegazioni, avevano risposto in modo vago. L'idea migliore fu di Leonard, dicendo che avevano litigato e per questo erano ridotti in quelle condizioni. I ragazzi si aspettavano un'altra drammatica punizione da parte del dottor Brandt, ma quel giorno non sembrava avere voglia di trattarli come cavie. Furono curati e poi furono lasciati liberi. Poterono mangiare, ma quel pomeriggio decisero di non andare giù al Derrick. Erano troppo sfiancati per giocare a fare la guerra con i fucili e le pistole prese a Violet Market. Ci sarebbero andati il giorno dopo, quando le ferite si sarebbero rimarginate e i lividi viola sbiaditi.
Leonard era quello messo peggio. S'era ritrovato con una lama conficcata nella spalla, che lo aveva passato da parte a parte. Nonostante ciò, non aveva rinunciato a giocare con gli altri ragazzi. Manteneva il suo fucile con la sola mano sinistra e sparava con quella piccola canna che emetteva un suono sordo e sfiatato come una lattina gasata lasciata al sole, mentre l'altra mano era immobilizzata da una fasciatura che teneva la spalla bloccata. Con una bella dose di antidolorifici e un po' di riposo, un mutante può riprendersi con facilità anche da ferite che per un comune essere umano risulterebbero mortali. Ma Leonard Star era straordinario, il suo fattore di guarigione era in assoluto il più potente nel suo gruppo. In un giorno, già giocava come se il giorno prima si fosse sbucciato soltanto un ginocchio cadendo da una bici. E Sophia ricordava alla perfezione, dopo aver sconfitto il mostro della casa di Garden Street, come Leonard fosse scoppiato a piangere e quanta tristezza avesse provato in quel momento. Non si era preoccupata neanche del fatto che anche lei stesse piangendo in quegli istanti. Avrebbe voluto correre per abbracciarlo, ma era stata anticipata da Jennifer. Quella vista aveva turbato Sophia, le aveva scavato una cavità nel cuore. Aveva notato come gli occhi di Leonard avessero indugiato in quelli di Jennifer e la scarica elettrica che si era creata tra i due... un forte tremito e una fiammata avevano riscaldato il suo corpo, ma non era amore. Non era come gli succedeva tutte le volte che guardava Leonard, quella volta fu diverso. Ciò che provava era forse ira o con più probabilità... gelosia.
Forse in cuor suo sapeva che in quel preciso momento il suo innamoramento era terminato, così come tutte le velleità nei confronti del ragazzo, come quando si viene svegliati in modo brusco da un dolce sonnellino pomeridiano. Sophia aveva sognato che un giorno sarebbe fuggita da Primestone. Tutti i ragazzi di quella cittadina sognavano di andarsene, sebbene spesso mentissero a loro stessi, ma tutti, nessuno escluso, neanche quel pazzo di John Harris, desideravano andare via da quella prigione camuffata da paradiso per mutanti. Li allevavano nella convinzione che loro fossero un pericolo per gli uomini e che gli uomini potessero fargli del male, e in effetti questa ipotesi era abbastanza sostenuta dai fatti. Gli amministratori dicevano che il loro scopo nella vita era servire l'umanità per salvarla da sé stessa, ma perché avrebbero dovuto farlo? Perché erano mutanti? Perché avrebbero dovuto aiutare quegli stessi umani normali che per anni avevano abusato di loro, prima all'esterno e poi dentro la stessa città? Tutti i ragazzi di Primestone, nell'abisso del loro inconscio, sognavano di fuggire da quella città circondata da possenti mura e circondata da chilometri e chilometri di foreste con milioni di anni d'età. E Sophia non era da meno. Sentiva che quella città aveva qualcosa di sbagliato, qualcosa di perverso e pericoloso oltre ogni fantasia. Ormai al gruppo di amici era più che chiaro. La ragazza era arrivata a convincersi che ci sarebbe morta lì dentro e che non sarebbe mai più tornata all'esterno. Non che l'aspettasse chissà cosa là fuori, ma Sophia aveva il grande sogno di girare il mondo e da quella città non poteva di certo farlo. Sognava di stringere la mano di Leonard e fuggire verso mete sconosciute, senza uno scopo preciso, a lei non serviva. Lei sentiva che le sarebbe bastata la compagnia del ragazzo per poter conquistare il mondo intero e che non avrebbe mai più dovuto avere paura della società, quella cloaca frenetica di persone che tanto dolore le aveva arrecato. La famiglia. Non c'è niente di più falso a questo mondo della famiglia.
Ma questa sua speranza s'era infranta quando aveva capito che Leonard e Jennifer provavano tra di loro sentimenti che crescevano di mese in mese, di giorno in giorno, di ora in ora. E lei sapeva che non poteva fare niente per fermare tutto ciò. Era come voler fermare a mani nude un aereo in fiamme che precipita. Quel pensiero d'impotenza e di rassegnazione l'accompagnò per tutti i giorni a seguire, come un assistente sociale che guarda una madre problematica giocare con i suoi bambini, in attesa di un errore. Il suo rapporto con Jennifer si era raffreddato e quest'ultima aveva notato tale cambiamento nella sua amica. Una sera di febbraio, la rossa stava pensando a tutto ciò mentre s'infilava la camicia da notte nella sua stanza, in cui c'erano anche la piccola Taylor e Jennifer... ora quella ragazza le sembrava un po' meno amica. Sapeva che non poteva odiarla per qualcosa che in realtà non le aveva mai sottratto, perché Leonard non era un trofeo. Ma allo stesso tempo provava rimorso e non riusciva più a guardarla allo stesso modo. Spesso le lanciava falsi sorrisi, così forzati che perfino un cieco se ne sarebbe accorto. Jennifer non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederle che cosa avesse. Pensava che forse tutto ciò che era successo negli ultimi due mesi fosse sufficiente a spiegare il cambiamento di comportamento dell'amica, ma lei ne era davvero dispiaciuta. Aveva ipotizzato che in effetti potesse essere stata lei a farle qualcosa di male. A volte ci rimuginava per intere ore, ma davvero non riusciva a spiegarselo. Aveva ipotizzato che Sophia la trattasse con più distacco perché un giorno aveva preso il suo smalto (non aveva sbagliato, l'aveva preso apposta). Magari era perché le aveva fatto male ai capelli, quando l'amica le aveva chiesto di spazzolarglieli. Ma per quanto spremesse le meningi, non era capace di giustificare un torto così grande da aver compromesso il suo rapporto con l'amica. Jennifer ne era rattristita, ma era troppo timida o, forse, aveva troppa paura per chiederle il motivo.
Quella sera Taylor era già nel suo letto e stava giocherellando con il suo peluche, con quel suo sguardo sempre allegro, distratto e spensierato, come tutti i fanciulli di questo mondo, felice di essere in compagnia delle sue sorellone. Ora ne aveva ben due. Jennifer stava sistemando il piumone del proprio letto per andare a dormire, perché l'ora del coprifuoco era già passata da un bel po' e in tv quella sera non davano niente di eccezionale, se non un documentario di scarsa fattura sulle origini del pianeta che le era sembrato gradevole solo perché la voce del narratore era calda e rilassante. Mentre Jennifer stava dando dei colpetti al cuscino per sistemarlo e gonfiarlo nei punti giusti, si sentì osservata dall'amica, come se avesse voluto dirle qualcosa di sgradevole, ma si tratteneva per non offenderla. Già solo il fatto che la guardasse a quel modo le dava fastidio. Jennifer odiava essere spiata. Aveva provato a sollevare la testa, ma appena i loro sguardi si sfioravano, Sophia tornava a specchiarsi e a sistemarsi i bottoni della camicia (cosa che faceva in modo snervante da quasi dieci minuti). Jennifer non riusciva più a sopportare quella sensazione di tensione nell'aria, resa ancora più opprimente dalla sgradevole canzoncina che stava canticchiando Taylor mentre sbatteva il peluche sul letto, in vena di capricci. Stava per aprir bocca, ma le tremarono le labbra. Provò a schiarirsi la voce, decisa ormai a parlare. Doveva superare la timidezza e la paura e rompere quel silenzio, quel piccolo muro di falsa amicizia e menzogne che tra lei e Sophia si stava creando. Forse se dò un urlo è meglio, attiro senz'altro l'attenzione, senza fare tanti giri di parole, aveva pensato la ragazza. Stava per caricare l'aria nei polmoni, perché era davvero convinta che urlare sarebbe stata l'unica soluzione possibile per sbloccarsi da quella stasi. Ma non ce ne fu bisogno. L'aria le si fermò nella faringe, in un impulso involontario dovuto alle improvvise parole di Sophia.
«Ti piace Leonard, vero?» chiese l'amica in tono pacato. Jennifer si sentì frastornata, come se quella domanda non avesse avuto alcun senso. Si guardò un attimo attorno, come se quelle parole fossero state pronunciate da qualcun altro, non dalla sua amica, e cercava senza successo la fonte di quei suoni. «È inutile che fai la finta tonta Jennifer, lo so che ti piace». Questa volta Sophia lo disse con più malizia e si avvicinò a Jennifer camminando come una modella su una passerella, con eleganza ma decisione allo stesso tempo. Jennifer si sentì ancora più stordita e fece un passo indietro. Fu assalita dai dubbi e dalla timidezza. Sophia era ormai a pochi passi da lei. La guardava dritto negli occhi come a volerla rimproverarla per qualcosa, ma Jennifer continuava a non capire dove volesse andare a parare. Poi arrivò l'ennesima domanda inaspettata, come una preda che non si aspetta di essere afferrata da un falco in picchiata. «Hai mai baciato qualcuno, Jennifer? Intendo un vero bacio, non come quello finto che hai dato a Lucas». Jennifer sentì un formicolio sul collo e una vampata le accese il volto. Con voce tremolante rispose: «un v-vero bacio? N-no... perché me lo chiedi?». Sophia abbassò lo sguardo e mise le mani dietro la schiena, girandosi i pollici. Sorrideva e sembrava pensare a qualcosa di buffo. Jennifer rimase perplessa e fissava ogni singolo movimento da parte dell'amica, come a volerne prevedere le mosse, come fanno due lottatori che si scrutano prima di lanciare i rispettivi attacchi.
«Sai che un vero bacio si dà con la lingua?» la incalzò Sophia. Jennifer ebbe un sussulto e si portò indietro di un paio di passi. «Sophia, ma la pianti? Perché mi fai queste domande?» chiese questa volta stizzita Jennifer e sempre più a disagio. «Penso che anche Leonard provi qualcosa per te. Se è così, prima o poi vi bacerete. E che figura ci fai se non sai baciare? I maschi sono un branco d'idioti, noi donne dobbiamo sempre prendere l'iniziativa...». «Sophia, ma cosa dici? Io a Leonard non piaccio». Jennifer abbassò lo sguardo. Questa volta, però, Sophia sembrò quasi sbottare. «Dai, Jennifer, smettila di fare la finta tonta, lo sai anche tu che Leonard prova qualcosa per te, ti fissa in continuazione, come un cagnolino con la sua padroncina». Jennifer fremette a quelle parole. Sentì un'oppressione alla gola e cinse le braccia allo stomaco. Una vampata le inondò tutto il corpo. Poi chiese con timidezza: «Ma sei sicura? Lo pensi davvero?». Sophia le sorrise. «Certo che è così» rispose con tono amorevole. «Per questo ti dico che dovresti esercitarti... bacia me, così quando sarà il momento non sarai impreparata. Neanche io ho mai baciato qualcuno, quindi stai calma». Jennifer titubò e chiese: «Ma Sophia... siamo due ragazze». «E allora?» rispose quasi seccata l'amica. «Sei omofoba per caso? Sai che significa?». Quelle parole risuonarono come un rimprovero. Jennifer la guardò con imbarazzo. Non voleva di certo passare per una persona cattiva. A Jennifer non piaceva essere considerata male. Ma con il tempo avrebbe imparato che non si può piacere a tutti. «So cosa significa, ma non è questo il punto Sophia... è solo che... io non sono gay». «Neanche io lo sono, ma è un bacio tra amiche, solo per esercitarci, stai tranquilla!» la rassicurò.
A Jennifer cominciò a battere forte il cuore e sentiva l'ansia fino alla punta dei capelli. Stava per fare qualcosa di inaspettato. Avrebbe baciato una ragazza, qualcosa che non le era mai passato per l'anticamera del cervello. Avrebbe potuto rifiutarsi, ma quella idea non le venne mai, come se rifiutare una richiesta così gentile, seppure anomala, fosse offensivo, a maggior ragione se voleva ristabilire un rapporto che nelle ultime due settimane sembrava essersi incrinato, come un ramo schiacciato dal peso eccessivo della neve che si deposita su di esso, proprio come la neve che quella sera stava candendo copiosa su Primestone. «Forza, baciamoci!» squillò Sophia. Nel frattempo, Taylor aveva smesso di giocare e stava fissando incuriosita le sue sorellone che avvicinavano i loro visi, seduta sul letto con le gambine divaricate. Le labbra delle due ragazze si avvicinarono. Jennifer era quella che procedeva con più lentezza e a scatti, mentre il movimento di Sophia era più lineare e morbido. Quando le loro labbra furono abbastanza vicine, Jennifer sentì l'alito fresco alla menta del dentifricio che Sophia aveva usato qualche minuto prima e avvertiva il suo soffio solleticarle il naso. Meno era la distanza e più sembrava che tra i loro sguardi si accendessero delle scintille. «Mi sto avvicinando, stai tranquilla, va tutto bene» le sussurrò Sophia. La ragazza emanava una fragranza di rose e i suoi capelli fiammeggianti sembravano essere la fonte di quell'odore. Sophia guardò prima le labbra della ragazza e poi la fissò di nuovo negli occhi. Jennifer di riflesso fece altrettanto.
«Quando starai per baciarlo, ricordati di inumidire le labbra, non averle secche o screpolate, altrimenti lui penserà di baciare della sterpaglia». A quelle parole, Jennifer s'infiammò come una torcia olimpica alle guance e sentì le pupille dilatarsi, come quando s'era immersa nella vasca di deprivazione sensoriale nel laboratorio d'analisi. Ebbe un tremolio lungo la schiena e deglutì un fiotto di saliva. Sophia si leccò le labbra e con lo sguardo sembrò dirle di fare altrettanto, una sorta di lettura mentale, ma Jennifer non stava usando i suoi poteri. Era il puro e semplice istinto a portarla avanti. In parte, l'idea di baciare Leonard la stuzzicava parecchio e la imbarazzava, ma forse quel bacio con l'amica avrebbe potuto aiutarla. D'altronde che male c'è, sto baciando un'amica, è solo un bacio. Se mai dovesse capitare di baciare un vero ragazzo (tipo Leonard), poi ci penserò. Anche Jennifer si leccò le labbra, mentre Sophia le fissò ancora una volta le labbra, abbassando lo sguardo, per poi rialzarlo con flemma, con un dolce movimento delle ciglia, civettuola. Jennifer sorrise e lo stesso fece Sophia. Le ragazze piegarono di poco la testa e chiusero gli occhi. Le loro labbra si toccarono. Jennifer era più tremolante e la sua tensione muscolare era più marcata. Avvertiva la morbidezza e il calore delle labbra di Sophia. Poi sentì la bocca dell'amica aprirsi di poco. Ebbe l'istinto di aprire gli occhi e allontanarsi, ma non lo fece. Sophia allora strinse il labbro inferiore di Jennifer tra le sue labbra e con un movimento rapido e morbido lo sfiorò con la lingua. Si accorse che Jennifer tremava, ma decise di andare avanti lo stesso. Sophia fece scivolare la lingua con lentezza e toccò quella dell'amica. Jennifer si limitò ad assecondare i movimenti di Sophia dapprima, poi avanzò anche lei. Provò sensazioni nuove, difficili da comprendere per lei. Provava un continuo formicolio allo stomaco e le mani iniziarono a sudarle. Credeva che sarebbe stato poco piacevole, invece non le dispiacque affatto... Puttanella! Risuonò quella parola nella sua mente, con la voce del padre.
Jennifer sfilò la lingua dalla bocca di Sophia con un piccolo scatto, poi riassestò il movimento e allontanò il volto, riaprendo gli occhi. Sophia fece lo stesso. Si scambiarono una rapida occhiata. Sophia sorrideva, ma Jennifer notava che aveva qualcosa di diverso. Non era il solito sorriso dolce dell'amica, era di soddisfazione, come se avesse raggiunto il suo scopo. Jennifer ritornò nel suo stato di confusione precedente al bacio. La piccola Taylor intanto sembrava imbambolata. Stava impastando l'indice in bocca e guardava con interesse la scena, in silenzio e attonita, ignara di ciò che stavano facendo le due ragazze. «Ti è piaciuto, vero?» chiese Sophia con voce atona. Jennifer annuì, ma in maniera poco convinta. Non era sicura della risposta che avrebbe dovuto dare, a maggior ragione visto il sorrisetto enigmatico della rossa, che riprese a parlare, questa volta con un tono di voce colorato con una punta di sdegno e odio. «Uno già l'hai baciato, Lucas, no? Poi immagino toccherà a Leonard... e poi chi bacerai? Prima Thomas? O prima Chris? Poi magari bacerai anche Ed e gli spiegherai cos'è un rapporto sessuale. Lo slinguerai vero, come ti ho insegnato io questa sera, anche se a me in realtà non è sembrato che tu fossi davvero inesperta. Con chi hai fatto pratica, Jennifer? Quanti ragazzi ti sei fatta da quando sei arrivata in città?». «Sophia, smettila! Perché ti comporti in questo modo? Perché mi dici queste cose!?» strillò Jennifer, alquanto offesa. Taylor si alzò in piedi sul letto e con gli occhi lucidi e preoccupati disse: «perché litigate? Non dovete litigare, fate la pace! Vi siete pure baciate!». «Ohhhh, ecco che viene fuori la finta santarellina con quello sguardo tutto timido, da gatta morta... ti ho capito fin troppo bene Jennifer, fin troppo! Sei un'arpia! Fai tutta la dolce, poi appena è il momento giusto ti butti fra le braccia del primo maschietto che ti attiz...» Sbam!
Jennifer le mollò un ceffone sulla guancia sinistra. La testa di Sophia descrisse un angolo ottuso e si bloccò come tenuta da un freno. «Sei una stronza» disse strozzata Jennifer con le lacrime agli occhi. Sophia avvertì prima un calore alla guancia, poi un tremolio e poi come tanti pizzicotti. Poggiò la mano sulla guancia e guardò Jennifer adirata e le rispose: «disse la puttana». Sophia si voltò e andò a rinchiudersi nel bagno, sbattendo la porta con vigore. Sentì Jennifer singhiozzare e poi urlarle: «puttana ci sarai tu!», mentre Taylor osservava impaurita la scena. Cosa sarebbe stato di lei se le due sorellone avessero litigato di brutto e si fossero separate? Con chi sarebbe dovuta andare? Lei non sarebbe stata in grado di scegliere, come quando uno ti chiede se vuoi più bene alla mamma o al papà. Sophia si guardò allo specchio e si rese conto, oltre che del rossore sul suo volto, che ci sarebbe stato tanto in quella notte insonne su cui riflettere. Riflessioni sgradevoli sull'amicizia, un'amicizia rovinata da uno stupido ragazzo, seppur carino, riflessioni su quella città che la teneva prigioniera, riflessioni su ciò che ne sarebbe stato della sua vita ora che il suo sogno di fuggire con Leonard era svanito. Tutti odiano le gabbie, ma spesso ci si abitua. A volte viviamo in gabbie che chiamiamo società, crediamo che siano grandi spazi aperti dove poter fare qualsiasi cosa, senza renderci conto che è solo un artificio, innaturale e pieno di regole, alcune scritte, altre ovvie, altre insulse. Ipocrisia. E se non sei all'interno di quegli schemi, sei fuori, gli altri ti sbattono via a calci nel sedere, o ti rinchiudono in una cella, dipende. Una gabbia... la stessa in cui Sophia era stata rinchiusa da suo zio quando era solo una bambina. Fissò in modo morboso il suo riflesso nello specchio. Neanche io ho mai baciato qualcuno. Sophia aveva mentito.
Sbottonò i tre bottoni posti più in alto della sua camicetta da notte. Si soffermò a contemplare il petto, cercando di stabilire quanto fosse cresciuto negli ultimi mesi. Lo controllava ogni giorno della settimana. Le ghiandole avevano cominciato a ingrossarsi già da quando aveva dieci anni. Sei una bambina bellissima Sophia, la più bella della famiglia. Di tanto intanto le capitava di provare un po' di dolore, ma durava poco e poi le passava. Rispetto all'estate del 2004, quando era arrivata a Primestone, i suoi seni erano cresciuti molto. Prima erano solo due piccolissimi pomi, ora invece erano ben più pronunciati e sembravano due piccoli meloni gialli. Ok, non proprio meloni, ma sono almeno raddoppiati, anzi triplicati! Ormai era una donna a tutti gli effetti e si stava avviando verso l'età adulta. Diventerò una modella, o una stilista. Magari un architetto! Sorrise alla sua immagine riflessa, mentre si portava una mano dietro alla testa. Tolse l'elastico blu e sciolse la sinuosa coda di cavallo. Li spinse verso l'alto e protese il petto in avanti. La chioma le cadde sulle spalle a formare una cascata di fuoco e i suoi occhi blu sembravano avere vita propria. Sono più bella di Jennifer, Leonard sarà mio. Le sfuggì un risolino spontaneo, una sincera risata da ragazza, forse più da donna, mentre ammiccava allo specchio. Poi d'incanto le passò la voglia di ridere. Ma che sto facendo? Ho chiamato puttana la mia migliore amica solo per un ragazzo? Per uno stupido ragazzo? Che idiota!
All'improvviso sentì un bisbiglio risuonare all'interno del bagno, ma era come se fosse lontano e sembrava aleggiare sospeso come portato dalla brezza: «Perché sei una puttanella Sophia, sei una puttanella come Jennifer...». Sophia scosse la testa e si raddrizzò. Si sentiva... spiata. Provò a schiarirsi la mente scuotendo ancora una volta la testa. Le era parso di sentire ancora un bisbiglio, questa volta incomprensibile. Poi si sentì accarezzare i capelli, la lunga chioma fiammeggiante cadente sulle sue spalle. Un tocco perverso. Si voltò di scatto verso la vasca da bagno, adornata con una tendina rosa scolorita e ninfee. Poi un mormorio e un respiro gelido le solleticarono il padiglione auricolare destro e una voce sadica le disse: «bugiarda. Ti sei dimenticata di tuo zio che ti baciava con la lingua? Cosa c'è, volevi riprovare quell'emozione? Perché non vieni a ballare con me piuttosto... puttanella!». Sophia si coprì d'istinto con le braccia il seno. Le mancò per qualche secondo il fiato e avvertiva caldo e freddo allo stesso tempo. Una puzza di vecchi copertoni bruciati e uova marce (zolfo) le fece arricciare il naso dallo schifo. Ma la cosa che la fece più preoccupare era la voce... una vera voce... era... quello là. Caricò i polmoni con tutta la forza che aveva, riempiendoli di aria umida e fredda. Non era stato frutto della sua immaginazione, né potevano essere le altre ragazze nelle camere accanto. C'era qualcuno in bagno o qualcosa, un'entità che non vedeva, ma c'era. Diede l'urlo più forte che avesse mai dato in vita sua.
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