CAPITOLO 3 (Parte 5)
E quando fu portato a Primestone (l'Albino) quella paura era più che viva. Edward con il trascorrere del tempo aveva imparato ad apprezzare alcune cose della cittadina, prima fra tutte l'assenza totale di cani. Che grande cofa! Verso maggio, un pomeriggio Ed si ritrovò solo. Chris e Leonard erano andati a giocare al Derrick, ma lui quel giorno non ne aveva voglia. A Edward piaceva la solitudine, non quella dei vecchietti lasciati soli nelle case di riposo, ma quella saltuaria che ti fa stare in pace con te stesso. S'inoltrò verso le enormi mura che dividevano la città quasi a metà, tagliando la Main. A volte era arrivato a toccarle per poi fuggire come se avesse voluto rubare dell'oro da una gioielleria. Ma lui andava in quelle zone perché adorava la Dock Street, sognava di abitare un giorno in una di quelle graziose villette, magari con una bella Lamborghini. Era indaffarato a osservare una serie di auto abbandonate poste nei vialetti. Ciò che lo colpiva più di tutto era la grande villa abbandonata quasi sul finire della strada. Non l'aveva mai esplorata e mai gli era venuto in mente, così come non aveva mai sentito di altri ragazzini che lo avessero fatto. Lo attiravano quell'enorme recinto ferrato e quel prato tosato in maniera sinistra, come se fosse stato tagliato di recente, così come l'imponenza della casa. Quel giorno, senza pensarci due volte, varcò il cancello d'ingresso sempre aperto e cominciò a esplorare il lato anteriore. Il prato era fulgido di luce, inondato dal chiarore del cielo primaverile e gli ricordava le giornate in campagna passate con il padre a coltivare i campi. Nonostante ciò, gli sembrava che ci fosse qualcosa di insolito. Quella casa, con le assi di legno penzolanti dalle finestre, gli appariva come un gigante morente sul punto di crollare da un momento all'altro. La villa era di pallida arenaria, con un tetto spiovente che sembrava più macchiato di rosso che tinteggiato. Poco più avanti, sulla destra della villa, notò una vecchia Rolls nera abbandonata. Guardò verso l'interno, attraverso quei vetri macchiati dall'umidità e fu sorpreso nel non trovare nessuno. Per forza, Ed, chi vuoi che ci sia!? Posò il suo sguardo poco più avanti e vide un piccolo cumulo di mattoni, come quelli che si usano per costruire i caminetti. Lo esaminò chino cercando di capire se quel mucchio riproducesse una qualche forma specifica. Ogni tanto soffiava una folata di vento. All'ennesima, sollevò lo sguardo e si accorse di essere arrivato sul lato posteriore. Guardo cosa c'è qui e poi me ne vado. Ma i suoi occhi caddero verso qualcosa che non si aspettava. Un piccolo cimitero privato, con delle croci di marmo cadenti. Con un brivido, Ed si ritrasse. Che paura, ci manca solo che ci sia un cane che piange la morte del padrone e siamo apposto, posso morire qui di crepacuore. Ed si avvicinò comunque, intento a trovare il tesoro dell'esploratore, come Indiana Jones!
Percorse il prato: sembrava che qualcuno continuasse a prendersene cura. Arrivato al piccolo cimitero, tra le croci notò una lapide, grigia come le nuvole che spesso solcavano i cieli di Primestone. Si stava avvicinando, frattanto, osservando alcuni detriti, stando attento a non tagliarsi. Ce n'erano parecchi ovunque. Quando fu abbastanza vicino, aguzzò lo sguardo perché notò che c'era una scritta in rilievo, decorata in oro. Ma perché non ci vedo bene, come se gli occhi si stessero appannando? Con il medio della mano destra, sollevò i suoi occhiali, pensando che fosse colpa loro quella foschia davanti agli occhi che gli impediva di vedere bene. Poi sussultò, come quando si scopre che un determinato posto è stregato. Sulla lapide c'era scritto, ricoperto da un sottile strato di muschio, ma ben leggibile:
QUI GIACE EDWARD KASPAROV,
UCCISO DALLA SUA PIU' GRANDE PAURA.
FORTUNA CHE, PRIMA DI FARLO, ABBIA BALLATO.
Un fremito gli si scatenò per tutto il corpo, costringendolo a sollevare lo sguardo. Si accorse che era circondato da una sottile foschia e che l'aria era impregnata di un maleodorante odore di feci, polvere, muffa e uova marce, di zolfo insomma, se solo lo avesse saputo. Decise che era ora di alzare i tacchi. Voleva voltarsi, ma qualcosa gli diceva di guardare alla sua sinistra, una vocina interiore. Doveva vedere. Poi, un bisbiglio: «Ed... ti va di ballare? Non te ne pentirai... qui balla tutto... è tutta un'orgia...». Come se una febbrile e infelice curiosità non lo lasciasse libero, si voltò alla sua sinistra. Appena oltre quella nebbia, vide due occhi brillanti di fucsia (che colore particolare!) e un ruggito a singhiozzi. Aveva il cuore che gli batteva nel petto come gli incessanti colpi di un cannone che vogliono abbattere un fortino inespugnabile. Annidato oltre la nebbia che si diradava piano piano c'era un cane, un barboncino per l'esattezza, ma non di quelli normali. Era alto al garrese quasi due metri e il suo pelo era ispido, arruffato e impolverato come un vecchio piumino, un grigio morto. Sbavava dalla bocca un liquido nero e appiccicoso come zucchero riscaldato. Quegli occhi fucsia divennero neri. Cerchiati e cupi come carbone e per un momento, prima che Ed cominciasse a correre come un disperato, il bimbo si vide riflesso in quegli occhi, profondi e desolati pozzi neri, intrappolato in una cella chiusa, senza serratura.
Con un grido cominciò a correre, tornando sui suoi passi. Ed sentì dietro di sé come il terreno affondare, come se qualcosa di pesante stesse premendoci sopra. Sentì un boato, un fruscio nell'aria che gli fece scompigliare i capelli. Quel brutto cane aveva caricato tutta la sua forza esplosiva nelle zampe ed era balzato in avanti come un treno in corsa. In una frazione di secondo, Ed si mosse verso destra e sentì come una ragnatela impigliarsi tra i capelli. Il cane gli era appena passato accanto con le fauci spalancate e lo aveva mancato per pochissimo. Si schiantò con le fauci dentate con una forza devastante sul mucchietto di mattoncini che Ed aveva notato prima, sminuzzandoli come se fosse latte in polvere per neonati. Dei frammenti lo colpirono in testa ma non cessò la sua corsa. Notò che il vetro posteriore della Rolls mancava. Con uno scattò degno di un centometrista, salì sul cofano e si proiettò nell'abitacolo. Sentì qualcosa di freddo sfiorargli la schiena. Udì un rumore come di enormi piastre di ferro che battano una contro l'altra. Si buttò in avanti e inciampò sulla leva del freno a mano, cadendo sul pomello del cambio che lo colpì tra le natiche. L'enorme cagnaccio aveva infilato la testa nell'abitacolo e le sue fauci erano a pochi centimetri da lui. Non ci provava nemmeno a scalciare, tutto ciò che poteva fare era urlare. Avvertiva il cervello come impantanato, come se al suo posto ci fosse un grosso e inutile masso. Intanto il mostro ruggiva feroce e sbavava saliva nera ovunque. Ed poteva vedere le sue gengive gonfie e ne sentiva l'odore putrido. La sua testa si era incastrata e premeva contro il soffitto dell'auto. Con le zampe anteriori premeva sul cofano per liberarsi, schiacciando il lato posteriore della Rolls come se fosse fatta di plastilina. Ed era in uno stato confusionale, come incastrato in un loop infinito di terrore e grida. Sopravvivi. Come hai sempre fatto. Sopravvivi. Sentì una scarica d'energia lungo tutto il corpo. L'alito fetido della bestia gli otturava le cavità nasali e lo costringeva a stringersi le narici tra il pollice e l'indice. Guardò verso il basso, a sinistra, in direzione dei pedali dell'auto. C'era un piccolo mattone. Tombola!
Afferrò l'oggetto e cominciò a picchiare contro il parabrezza anteriore. Intanto il mostro, notando che indietro non poteva più andare, cominciò a spingere con la testa in avanti. Le sue fauci si chiudevano come tenaglie (Fedot Usimov detto Pincer, pensò Ed). Il vetro cominciò a frantumarsi formando un piccolo foro, ma Ed si accorse che stava procedendo con troppa lentezza e che prima o poi il mostro gli avrebbe tranciato un arto. Lasciò cadere il ruvido mattone che gli aveva escoriato la mano, che sanguinava. Notò che la puzza di uova marce si era fatta ancora più forte. Schizzi di fredda saliva nera lo colpirono sulle guance. Ebbe un conato di vomito. Si mise la mano sulla bocca e si voltò verso la portiera sul lato del passeggero. Intanto il cane ruggiva con tale forza da spingere Ed contro il cruscotto dell'auto, come se si stesse scatenando un ciclone nell'abitacolo. Poi i suoi occhi si focalizzarono su un dettaglio. La maniglia! No dai, non può essere aperta... la mano di Ed vi si era già posata e avvertì un click. Dalle profondità del suo animo gli venne spontanea come uno starnuto un'esclamazione: «ma vaffanculo!». Ed spinse con le mani la portiera e ruzzolò a terra. Riprese a correre a perdifiato e il cuore che gli pulsava nei polsi come se volessero esplodere. Si voltò un attimo. Il cane demoniaco gli sembrava un coltello che cerca di sollevare il coperchio di una scatoletta di tonno. In quegli attimi, il barboncino infernale sollevò la testa scoperchiando il tetto dell'auto con un inquietante rumore di lamiere che si accartocciano. Diede un ruggito così forte che Ed poté sentire in modo nitido i vetri della grossa villa vibrare e i timpani fischiare come se il clacson di un tir gli fosse stato sparato nel condotto uditivo. Era quasi arrivato al cancello e stava per svoltare a destra. Sentì qualcosa di duro fare resistenza alla punta del piede. Inciampò su una pietra e fece un paio di capriole. Sentì le enormi zampe del cane pompare sul terreno come delle travi che cadono. Quando sollevò la testa, il muso della bestia era a pochi passi da lui. Il sangue gli si gelò a tal punto che gli sembrò colla nelle vene. Ma il barboncino aveva smesso di ringhiare. Faceva solo dei versi sommessi, come se volesse piangere. Ed allora guardò prima a destra e poi a sinistra. Notò che aveva appena varcato la soglia del cancello. La bestia si era fermata. Solo il cielo sa cosa sarebbe successo se non si fosse fermato. Per qualche motivo, il barboncino non poteva andare oltre, nonostante i muscoli così grossi che sembravano pompati da chili di steroidi. Ed sentì un calore scendergli lungo i pantaloni e poi come del liquido inzuppargli i calzini e le scarpe. Si era fatto la pipì sotto. Si alzò e fissò ancora una volta il cane negli occhi. Lacrimava sangue nero e denso come catrame fresco. Respirava a fatica e gli sembrò che gli sussurrasse con voce simile a quella umana: «sei stato fortunato oggi, Ed. Oggi non ballerai, ma prima o poi tutti balleranno. Anche tu ballerai».
La bestia si voltò, apparentemente placida. Il tempo per Ed sembrava essersi fermato. Vide scomparire la sua paura dietro l'angolo di quella enorme villa senza che emettesse alcun suono, oltre la Rolls che era coperta dall'ombra di quella casa che ora sembrava a Ed un castello medioevale, con un prato spoglio e tosato sul davanti. Ed corse via e quella notte, per ovvi motivi, non chiuse occhio.
«Ma certo! – ironizzò Thomas – Barboncini dopati, la versione di Freddy Krueger ancora più cattiva, la nonnina pervertita con le bambole, esseri neri che appaiono dai boschetti e che ti invitano a ballare... tutto molto ovvio!». Thomas aveva gli occhi al cielo e si dava delle arie come se fosse l'unico sano di mente in quel gruppo. Notò però che tutti lo guardavano con aria severa. Anche il suo amico Lucas lo guardava allo stesso modo. Dapprima ne fu imbarazzato, poi si fece coraggio e riprese a parlare. «State tutti sognando! Anche tu, Leonard, stai sognando...». Leonard lo stava fissando con aria turbata e quasi ostile. Thomas si rese conto che poteva fare l'idiota quanto gli pareva e poteva scherzare con tutti, ma se Leonard era serio, era ben diverso: Leonard era il capo. Lo era prima e lo era ora, ora che tutti e otto si erano riuniti. Nessuno lo aveva mai dichiarato, ma per tutti era ovvio che fosse così. Leonard trasmetteva un senso di affidabilità e responsabilità tipiche di un adulto e in un mondo dove gli adulti li avevano costretti a una vita di paura e sofferenze, lui era come una guida spirituale, un angelo a cui affidare le proprie preghiere nei momenti di difficoltà. Thomas e gli altri notavano questa luce in lui. Ma allo stesso tempo solo lui (e forse anche Leonard) aveva notato che Jennifer aveva qualche altra cosa, qualcosa di ancora più importante.
«Quindi a te, Thomas, non è mai successo nulla di brutto?» gli domandò Sophia tremante. Thomas ci rifletté per un attimo, poi fece uno sbadiglio e rispose: «No! Vado al bagno tutti i giorni con regolarità, dottoressa. E a lei invece? Intendo, se vede anche lei i mostri, non se va al bagno!». Sophia guardò un attimo perplessa per terra, corrugò la fronte e rispose sollevata a sua volta: «No, niente... e per fortuna direi!». Poi alzò lo sguardo e guardò il volto pallido e cadaverico di Lucas. Le sembrava che fosse diventato ancora più pallido ed etereo. Il ragazzo notò che Sophia lo stava fissando e parlò come preso da una fretta inspiegabile. «Io non ho visto nulla, quindi è inutile che me lo chiedete, la mia vita è noiosa». Lucas si voltò e si mise a fissare in direzione del ruscello. Jennifer sentiva che era turbato e spaventato. «Dai, tesoruccio della mamma, dì al papà quello che hai visto o ti prendo a badilate!» gli gridò Thomas contro, in un misto tra la Mammina Apprensiva e il Padre Padrone, due personaggi di sua invenzione. «Finiscila Thomas, non ne ho voglia!» gridò Lucas contro l'amico che tornò a sedersi sul tronco. «Se non vuole raccontarci niente, non deve farlo per forza» disse Jennifer con una vocina dolce come lo zucchero. Lucas la guardò di sfuggita e arrossì. Forse era già rosso per la rabbia. O per la paura. Poi sembrò balbettare qualcosa, come se volesse iniziare a parlare, ma fu interrotto dalla vocina stridula di Taylor e dal suo pianto. «Taylor, che hai ora?» chiese sconsolata Sophia, che aveva ormai la gamba addormentata a causa del peso della bambina. «Anche io ho visto il mostro cattivo, lo stesso che ha visto Jennifer!». Alle parole di Taylor, Jennifer ritrasse la testa indietro in segno di stupore. «Taylor ma che dici?» chiese frastornata Sophia. «Il mostro che h-ha visto Jennifer... è quello che ha ucciso il mio fratel-l-lino Donald... se... se quella notte avessi urlato, forse lui sarebbe ancora vivo... ecco perché urlo sempre... ho avuto troppa paura l'anno scorso... però o-ora non farà più del male a nes-ssuno perché Jennifer lo ha sconfitto...». La bambina sembrava emettere dal volto una luce di gioia. Sorrise e le lacrime cessarono di scendere. Tutti furono colti da un nodo alla gola e sembrava che volessero piangere. «Grazie, Jennifer» ringraziò singhiozzando la bambina. Jennifer si mise a piangere asciugando le piccole gocce di lacrime con l'indice. «Figurati piccola» rispose.
I gemelli Donald e Taylor Rosenthal erano stati portati a Primestone nell'estate del 2004. Orfani fin dalla nascita, erano cresciuti in un orfanotrofio gestito da suore. Venivano seviziati e maltrattati in continuazione, oltre che malnutriti. La pratica preferita dalle suore di quell'orfanotrofio era quella di piombare nel cuore della notte e spaventare i pargoli, picchiandoli con dei battipanni. A volte qualcuno ci lasciava le penne per lo spavento. I corpi venivano portati in uno scantinato e nessuno sapeva che fine facessero. I gemelli vissero nell'incubo dei "mostri della notte", figure nere affamate, odiose e violente. Nonostante tutto, il loro legame era incrollabile. Non era solo un legame biologico, ma qualcosa di più profondo, come se fossero la stessa cosa, come se fossero uniti nello spirito. Stanchi dei continui abusi, un giorno i gemelli decisero di fuggire dall'orfanotrofio, dopo che Taylor era stata picchiata con una bacchetta di legno ai fianchi e in faccia dalla suora che gestiva la struttura, Madre Albany, perché la bambina durante la cena aveva fatto cadere a terra il piatto con la zuppa di ceci e versato il contenuto sul suo pavimento, «sprecando il cibo che Dio ci dona ogni giorno». I due gemelli, di cui Donald era il più vispo e intraprendente, utilizzarono per la fuga il cornicione della finestra della loro stanza da letto. Ci camminarono sopra per poi scendere a terra utilizzando la grondaia. Una volta scappati, vissero per molte settimane in strada, venendo accuditi da un gruppo di barboni a Marshville. Una mattina però si svegliarono a Primestone. Fin da subito i due gemelli strinsero un forte legame con la compagna di camera, Sophia. Anche se Donald era un maschietto, i gestori della città decisero di non separarli, almeno fin quando non fossero cresciuti troppo. Fu proprio Sophia a portarli in un negozio di giocattoli abbandonati all'angolo tra la Main e la Yellow Street e a donargli due coniglietti di peluche identici. Poi arrivò il novembre del 2004.
Donald Rosenthal fu la prima vittima di una serie di interminabili omicidi inspiegabili, in cui alcune giovani vite vennero spezzate come ramoscelli. In totale, da allora e fino a dicembre dell'anno successivo, altri ventiquattro tra ragazzi e bambini persero la vita. La sera in cui Donald morì, la stessa creatura amorfa che avrebbe tentato di uccidere Jennifer oltre un anno dopo aprì la porta della camera da letto, svegliando i due gemellini. Con l'indice ossuto aveva intimato in modo ipnotico di seguirli. Donald non ebbe alcun cenno di paura e quasi corse tra le braccia del demone, mentre Taylor fu fortunata. Batté con il mignolo del piede contro uno dei sostegni di ferro battuto del letto. Si svegliò da quello stato di assopimento facendo un piccolo grido di dolore e fu assalita dalla paura. Vide un ghigno pieno di denti affilati come lame di rasoi prima sorriderle, poi imbronciarsi come per delusione e sentì una voce distorta sussurrarle all'orecchio: «per questa notte ballerà solo tuo fratello... un'altra notte ballerai tu». Il mattino seguente furono avviate le ricerche. Il dottor Brandt provò a interrogare Taylor, ma ogni volta che ci provava la bambina entrava in iperventilazione e piangeva disperata. Dopo tre giorni, furono ritrovati nel boschetto dietro l'ex municipio le braccia, le gambe e il busto del bambino, dissanguato e privo di quasi tutti gli organi interni, che invece furono ritrovati mangiucchiati nei pressi del ruscello Derrick a meno di mezzo chilometro dalla centrale nucleare dismessa. Della testa del bambino e del suo peluche non c'erano tracce. Le telecamere di sorveglianza quella sera non funzionarono, come se qualche interferenza avesse impedito le registrazioni.
Taylor stava ancora singhiozzando quando ebbe finito di raccontare ciò che aveva visto quella sera. «Certo che siamo proprio sfigati... dovremmo chiamarci "gli Sfigati"!» sentenziò Chris. «Concordo» disse a bassa voce Leonard. Quelle parole sapevano di conferma, quasi come di comando. Da quel giorno, quello sarebbe stato il nome di quel gruppo di ragazzini, gli Sfigati. «Ragazzi, devo mostrarvi una cosa!» pronunciò esaltato Chris, come se si fosse ricordato di una cosa di vitale importanza. Poi proseguì. «Sapete cos'è un contatore Geiger?». Gli altri ragazzi fissarono Chris come se stesse parlando sumero. «Un contabombe Ga-cosa!?» chiese Thomas sbigottito. Chris fece una smorfia, sbuffò e si mise le mani in testa. «D'accordo, provo a spiegarvelo nel modo più semplice possibile. Le centrali nucleari funzionano con l'uranio oppure col plutonio. Queste sostanze sono radioattive, significa che liberano delle particelle, come... immaginateveli come dei raggi invisibili... ora, questi raggi sono pericolosi, perché quando colpiscono le cellule, le distruggono». Leonard fece una smorfia e si grattò il capo. «Credo di aver capito... se non erro qui esplose la centrale, giusto?». «Esatto, – proseguì Chris – nel 1986. Il punto ora è questo. L'aria dovrebbe essere radioattiva e il contatore Geiger serve a misurare quanto lo è». Tutti guardavano Chris incuriositi e quegli sguardi lo mettevano a disagio, ma allo stesso tempo gli davano un senso d'importanza. Sollevò lo zainetto che aveva avuto tutto il tempo accanto ed estrasse una scatoletta nera. Premette un piccolo pulsante rosso sul davanti. «Mi sono fatto dare delle pile dall'insegnante. Ora dovrebbe funzionare». Passò qualche secondo e dalla scatoletta si sentì provenire un clic.
«Cofa è ftato Chrif?» chiese Ed perplesso. «Quando il contatore fa questo rumore, significa che una particella radioattiva è passata al suo interno». «Oddio, allora siamo in pericolo!» gridò Sophia. Tutti furono presi dal panico e cominciarono a gridare. Thomas salì sul tronco e cominciò in modo isterico a saltellare e fare versi scimmieschi, mentre Leonard alzava le mani come un direttore d'orchestra per cercare di calmare gli animi. «State tranquilli, è normale» disse Chris. Si sentì un secondo clic. «Moriremo tutti, salvate i bambini e le donne!» urlò Thomas. «Ragazzi ascoltatemi – proseguì Chris – il numero di clic che sentite è molto basso. Sono quelli tipici di un'atmosfera pulita, non siamo in pericolo, è tutto ok». «Meno male» disse Ed rasserenato. Tutti si acquietarono. Chris li guardò a uno a uno e nessuno sembrava aver capito cosa significasse. Se ne accorsero e abbassarono il capo come per l'imbarazzo. L'unico che resse lo sguardo di Chris fu Leonard, che dichiarò: «forse ho capito... visto che è esplosa la centrale, l'aria dovrebbe essere più... malata, diciamo». «Radioattiva, – lo corresse Chris –però il contatore ha suonato poche volte, è come se... come se qualcosa avesse assorbito tutte le radiazioni!». Restarono tutti in silenzio a riflettere per qualche secondo. «Comunque, non è detto che sia un mostro». «Che intendi?» chiese Jennifer, curiosa. «Mi ha detto la signorina Gruwell che hanno fatto degli esperimenti sugli umani, li chiamano "mutanti" o "potenziati". In pratica, tramite un liquido particolare, riescono a trasformare in mutanti alcune persone che nascono senza poteri. Mi ha detto anche che la loro caratteristica è avere gli occhi fucsia fosforescenti». «Come quelli di quello là» notò Leonard. «Non può essere» dichiarò all'improvviso Jennifer. «Perché dici una cosa del genere?» fu la domanda che gli rivolse Chris. «Perché, io lo sento... è difficile spiegarlo, ma grazie al mio potere... io so distinguere un umano, da un mutante o da un animale... e vi posso assicurare che... non è niente di tutto ciò. È del tutto diverso ed è... assai più pericoloso». A quelle parole, il panico tornò a far capolino sul volto dei ragazzi e calò di nuovo il silenzio. «D'accordo, per oggi basta così» sentenziò Leonard. Torniamo a casa, direi che oggi abbiamo parlato abbastanza. Non ci siamo divertiti, ma era importante sfogarsi». Tutti annuirono, tranne Thomas e Lucas che invece sembravano imbambolati.
Più tardi gli Sfigati stavano percorrendo la Summer Street. I ragazzi camminavano con più svogliatezza e osservavano Jennifer, Sophia e Taylor camminare e saltellare in modo allegro davanti a loro, come piccoli canguri. I ragazzi notarono soprattutto il ciondolare dei fianchi delle due ragazze. Tranne Ed, furono tutti assaliti da una vampata di calore, in quella giornata già abbastanza calda. Chris si smosse il colletto dell'abito, perché in quel momento gli sembrava troppo stretto. «Che bello, Jennifer, prima non lo avevo notato». Jennifer smise di sorridere e con sguardo perplesso notò che gli occhi di Sophia erano puntati su un braccialetto di nove perline rosse, fatto con più fili di spago intrecciati, che aveva al polso destro. «Grazie... me lo regalò mia madre... purtroppo non c'è più...» rispose timida, con una punta di tristezza. Sophia provò a consolarla: «tranquilla... tutti abbiamo perso qualcuno, hai sentito gli altri, no?». Jennifer annuì e sembrò accendersi una luce più viva sul suo volto. «Ho un'idea!» gridò Leonard tonante come un ruggito. Tutti si fermarono e lo fissarono. «Jennifer è riuscita a sconfiggerne uno... o meglio, una delle forme del mostro... questo significa che è battibile!». «No, no, no, no, no... Leonard cosa ti sta frullando per la testa in questo momento?» disse Chris sollevando le mani. Avrebbe voluto strozzare l'amico in quel momento. Prima si fa dei nuovi amici e non mi dice niente, poi conosce Sophia e non mi dice niente... e ora che gli passerà per la testa? «Jennifer, secondo te, se sconfiggiamo tutte le forme del mostro, alla fine dovrebbe morire, giusto?». Jennifer ebbe un sussulto. Guardò gli occhi di Leonard pieni di speranza in quel momento, come brillanti incastonati nel sole. Sentì come un gorgoglio allo stomaco, come degli animaletti camminarle dentro. Era una sensazione nuova, ma piacevole. Arrossì. Carino.
«Credo di sì... potrebbe funzionare... anzi, sono convinta che funzionerebbe!». E Jennifer lo era davvero. Aveva avuto il sentore che se avessero affrontato quel mostro (la Signora Gentile) tutti insieme sarebbero riusciti a eliminare quella minaccia. «Sei contenta, Taylor? Vendicheremo il tuo fratellino!». Alle parole di Sophia, il volto della bambina si illuminò di gioia e si lasciò andare a un grido di esultanza: «Evviva!!!». «Bene, anzi benissimo! Domani però è troppo presto, ci vuole più tempo per organizzarci. Facciamo così: domenica prossima andremo a Garden Street e sconfiggeremo la nonna cattiva!» esclamò Leonard con il pugno chiuso e lo sguardo fiero, come un soldato pronto a dare battaglia e a buttarsi nella mischia. Le ragazze annuirono. I ragazzi invece sembravano perplessi e confusi. «Nessuno ci ha consultati» sussurrò Lucas. «Vabbè, se dobbiamo proprio farla questa cazzata!» esclamò Thomas rassegnato. «Io feguirò Leonard f-f-fino in capo al mond-d-do» disse Ed provando a convincere sé stesso più che gli altri e sputacchiando come un cammello. Chris restò invece muto. Ma tu guarda che mi tocca fare, affrontare l'uomo con gli artigli? Col piffero!
Le ragazze tornarono al dormitorio, mentre i ragazzi avevano convenuto che abitare sullo stesso pianerottolo a Yellow Street fosse la scelta migliore, in quanto più grande e più abitabile e che soprattutto stare tutti insieme da quel momento in poi fosse molto più sicuro. Prima andarono a casa di Thomas e Lucas, un appartamento in un quartiere poco distante dalle mura interne di nome Violet Market, per prelevare le loro cose. Poi tutti insieme, prima che si facesse buio, arrivarono alla porta che permetteva di salire su fino al primo piano di quella casetta con due appartamenti. Prima di avvicinarsi alla porta però, Ed e Leonard fecero cadere i pacchi e caddero all'indietro per terra, tutti tremolanti. «Ragazzi che vi prende?» urlò spaventato Chris. Leonard puntò contro la porta l'indice tremante, come preso da una scossa elettrica. «L-l-l-la por-r-r-r-ta... ci so-o-no dei...». «Ci fono dei t-t-tagli nella porta!» concluse Ed strillando. «Certo che ci sono dei tagli nella porta, io è da allora che... o porco cane, li vedete anche voi ora!?» chiese Chris incredulo, sbarrando gli occhi. Leonard ed Ed annuirono. Lucas sbiancò, mentre Thomas disse: «cazzo... ragazzi anche io li vedo... e a giudicare dal pallore del mio amicone qui, direi che anche lui li vede... non ci state prendendo in giro, vero?». Ed, Leonard e Chris scossero la testa all'unisono. Poi si levò una folata di vento, che portò con sé un odore di marcio e parole cariche di morte e odio in note pesanti come il tono di voce di un gigante. «Non vincerete mai! Non potete sconfiggermi... alla fine, ballerete tutti e prima o poi... vi ucciderò!!!». Tutti sentirono quella voce, anche Thomas, che era passato in un solo pomeriggio dal più profondo scetticismo al dubbio e dal dubbio alla certezza. Tutti si precipitarono alla porta d'ingresso con la pelle accapponata. Entrarono in fretta e furia e la richiusero battendola così forte che le pareti attorno tremarono. Quella notte, nessuno dei ragazzi dormì.
FINE PRIMA PARTE
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