CAPITOLO 3 (Parte 4)
Jennifer aveva appena finito di fumare un'altra sigaretta, così come Thomas e Sophia. «Porca vacca Leonard, perché non me lo hai mai detto?» chiese rattristito Chris. «Vefo Leonard, noi fiamo amifi, pefché non ce ne hai paflato?» chiese a sua volta Ed. «Non lo so» rispose l'amico con tono calante. «Sophia, passami una sigaretta». La ragazza annuì e gliene porse una per poi accendergliela. «Non è che forse vi siete sbagliati tu e Jennifer?» domandò Lucas all'improvviso. Leonard e Jennifer scossero la testa all'unisono. «Non è un sogno, è reale, un sogno reale... non so spiegarlo, ma... è vero» disse Jennifer con sguardo basso. Chris aspirò un paio di volte. Leonard lo guardò impaurito. «Prima Leonard ti ho chiesto perché non me lo avessi detto... sono stato un'ipocrita... anche io non ti ho detto niente». Oh cazzo, pensò Leonard. Oh no, pensò Jennifer. E prima che se ne rendesse conto, Chris stava raccontando la sua storia come un fiume impetuoso, come in un sogno a occhi aperti, rantolando e singhiozzando più e più volte.
Chris era rimasto orfano a sette anni. Fu portato in orfanotrofio, ricordava ancora gli insulti degli altri bambini, che lo prendevano in giro perché zoppicava, per la sua gobba e per quella piccola gemma che aveva in petto. Per anni i genitori avevano provato a curarlo portandolo da vari medici in giro per il Paese, in cerca di un responso e di una cura, prima di essere ammazzati da un ladro in una rapina andata a male in un supermercato. Erano convinti che le sue difficoltà motorie fossero dovute a quella pietra al petto. Alcuni medici arrivarono a ipotizzare che fosse un nuovo tipo di tumore e che di lì a pochi anni Chris sarebbe morto. Quando si resero conto che anche la scienza medica non potesse fare niente a riguardo, si misero l'anima in pace e decisero di non portare Chris più da alcun medico. Durante la sua permanenza all'orfanotrofio, una sera mandarono in onda un film, A Nightmare on Elm Street, il cui protagonista era un certo Freddy Krueger, un uomo dalla pelle bruciata con un guanto artigliato. I gestori dell'orfanotrofio spensero la tv, ma non abbastanza in fretta. Il più terrorizzato era Chris. Ci vollero quasi due settimane, prima che il suo sonno tornasse alla normalità.
Un giorno di aprile come un altro, Chris era appena uscito da scuola, con un vivace sorriso sulle labbra. Era riuscito a portare a termine un paio di esperimenti chimici e ne era rimasto soddisfatto in maniera smisurata. Stava tornando a casa percorrendo la Purple Street, un'altra delle miriadi di strade perpendicolari alla Main lungo la quale si snodava la città, con il venticello che soffiava tra i capelli, saltellando in modo goffo, come saltella una scimmia grigia per le strade dell'India. Il cielo quel giorno era meno grigio del solito e di tanto in tanto qualche raggio di sole colpiva la sua testa, riscaldandola come un uovo in padella. Poco dopo il venticello era diventato un vento severo, che martellava contro di lui, come se volesse fermarlo a tutti i costi. Gli sembrava che il vento che lambiva quelle case abbandonate e soffiava tra le lamiere delle auto arrugginite producesse un grido umano e provava paura, ma allo stesso tempo esaltazione, perché si sentiva come l'ultimo dei sopravvissuti della specie umana. Si stava ormai immettendo sulla Main e da lì, percorrendo un centinaio di metri, avrebbe deviato verso la sua abitazione, sulla Yellow Street, dove ad attenderlo c'erano di sicuro Leonard ed Ed. Guardò verso sinistra, dove c'era la centrale nucleare scoppiata anni prima, poco distante dal Derrick. A un tratto però, l'istinto lo fece fermare. Si voltò: vide un'ombra nera con due palline che sembravano occhi fucsia fosforescenti. Chris aveva osservato e aveva pensato che non potesse essere un'ombra. È forse una Guardia di Sicurezza che sta venendo verso di me? Poi gli sembrò che quell'ombra fosse diventata una persona, ma gli appariva strana e inquietante. Già il fatto che fosse adulta e che non avesse un camice o un'armatura argentata fece suonare in lui un campanello d'allarme. Era vestita di nero, con un grosso cappello trilby verde scuro. Il suo volto era coperto da una stoffa bianca e spessa con dei merletti. Era alquanto alto, sarà due metri o più, pensò Chris guardandolo da lontano. Aveva le braccia dietro la schiena, messe in modo da formare due angoli acuti ai suoi fianchi, ma il ragazzo notò subito un particolare: i gomiti sporgevano di quasi un metro oltre il corpo di quell'uomo. Ma possibile? Quanto cazzo sono lunghe le sue braccia? Il vento ora soffiava alle spalle di Chris e avrebbe dovuto soffiare contro lo strano uomo. Avrebbe dovuto. Chris non riteneva possibile che un vento così forte non gli facesse svolazzare l'abito e non gli scompigliasse i capelli. Eppure era quello che vedeva. Ciuffetti di capelli neri fuoriuscivano dal cappello e restavano immobili anche sotto il vento forte. Qualcosa lo induceva a pensare che era dalla centrale nucleare che provenisse quella là. Quella figura anomala cominciò all'improvviso a parlare con voce malefica e orribile, interrompendo i suoi pensieri di terrore.
«Chris, io lo so che tu odi la gemma che hai al petto... ma io posso aiutarti... sono un medico e ho portato con me una medicina... se tu la berrai, quella cosa che tanto odi al centro del tuo petto svanirà per sempre... camminerai bene, Chris, e nessuno ti prenderà più in giro... potrai ballare Chris, finalmente potrai ballare...». Chris voleva fuggire, ma sentiva le scarpe come inchiodate al terreno e avvertiva un desiderio recondito di avvicinarsi, ma non ce ne fu bisogno. L'entità si avvicinò. Chris dapprima provò a convincersi che la voce che aveva sentito fosse solo un sogno (Freddy Krueger...), un miraggio e che quell'essere non esistesse. Ma in pochi secondi l'entità misteriosa era già arrivato a dieci metri da lui e aveva allungato il suo braccio destro, lungo quasi quanto tutto il suo corpo. Aveva un guanto nero con tre artigli sopra. Rivolgeva il palmo verso l'alto e reggeva un boccettino di vetro con delle tarantole morte. Chris aveva il terrore dei ragni. Nonostante la paura, provava un desiderio fortissimo di bere quella poltiglia di carni di ragno putrefatte. D'altronde, qualcuno gli stava proponendo di liberarsi del suo più grande problema, nessuno lo aveva mai fatto prima. Desiderava con ardore quell'orrida medicina, tanto tutte le medicine fanno schifo. E poco importava se a offrigliela fosse una versione ancora più spaventosa del personaggio del film che lo aveva terrorizzato da bambino. E nessuno al mondo avrebbe mai saputo cosa sarebbe successo se nel preciso momento in cui il ragazzo aveva allungato la mano per afferrare la medicina, un boato non lo avesse fatto rinsavire. Un bang sonico, prodotto da un caccia militare che passava di lì. Chris conosceva quel suono, ma non lo aveva mai avvertito nei pressi di Primestone.
Chris sgranò gli occhi e vide quell'uomo deforme sussultare e fare due passi indietro. Lasciò cadere la medicina che si frantumò a terra, liberando un fumo nero e denso, dissolvendo la schifezza immonda che prima era presente. Chris sentì un odore pungente di carne morta, feci e di un'altra cosa che non aveva mai sentito prima: zolfo. Nessuno dei ragazzi protagonisti di questa storia aveva mai sentito prima l'odore di zolfo. Solo anni dopo avrebbero imparato a riconoscere il suo acre tanfo. Quell'essere spalancò le fauci strappando il tessuto che copriva il suo volto. Il suo palato sembrava bruciato, pieno di pustole, e aveva denti aguzzi e ricurvi a centinaia, come aghi di siringhe, ma molto più spessi. Chris diede un urlo così forte che avrebbe voluto atterrare il mostro con quello. Si voltò e cominciò a correre a perdifiato. Sentì qualcosa di metallico vibrare nell'aria, come una freccia che fende l'aria e qualcosa gli sfiorò la punta dei capelli. I suoi artigli mi hanno quasi colpito! Chris sentiva rumore di grosse scarpe calpestare e un bruito simile a quello di una tigre. Poi un urlo bestiale sembrò fargli esplodere i timpani. Accelerò ancora di più il passo. In tempo record giunse sulla Main con il cuore in gola, ma quel respiro malefico e quei passi non accennavano a fermarsi. Deviò sulla sinistra imboccando la Yellow. Casa sua distava soltanto cinquanta metri. «Leonard, Ed aiutatemi! C'è una specie di Freddy Krueger che mi sta inseguendo!» urlò il povero ragazzo, quasi sfinito. Spalancò la porta di casa e la richiuse subito dietro di sé. Pensava di essere al sicuro, quando delle punte scintillanti per poco non gli colpirono gli occhi, arrestandosi un palmo prima. Gli artigli avevano trapassato la porta, per poi ritrarsi quasi subito, producendo uno stridulo rumore di legno tagliato. Chris cadde con il sedere a terra e fissò inorridito le tre fenditure che avevano lasciato gli artigli malevoli. Vide una macchia fucsia fosforescente coprire uno dei tagli e una voce sentì bisbigliare: «alla fine ballerai Chris, tutti ballano alla fine e anche tu farai parte dell'orgia».
Quella sera Chris notò con enorme stupore che né Ed né Leonard potevano vedere i tagli nella porta e non li avrebbero visti neanche nei giorni seguenti. Solo lui li vedeva ogni volta che varcava la porta di casa e di ciò non si capacitava. Quella sera si mise nel letto pensando che da un momento all'altro quel mostro avrebbe graffiato con i suoi artigli il vetro della finestra della stanza, un antico demone con occhi luccicanti come piccole gemme, come la gemma che aveva al centro del petto quando veniva esposta al sole. Occhi vuoti e profondi, colmi di misteri ancestrali e di paure primordiali. Qui balla tutto Chris, vieni a ballare. La stanza balla tutta e qui è tutta un'orgia. E, ovviamente, il giorno dopo fu convocato dal dottor Brandt che gli disse che le telecamere di sorveglianza lo avevano visto correre e urlare. Il ragazzo non disse nulla a Doc, dicendo di essersi confuso, che gli sembrava di aver visto a distanza i bulli e di essersi spaventato. Il medico lo guardò con aria severa, sapendo che mentiva. Ma Doc non gli fece nulla, se non ammorbarlo e terrorizzarlo con una delle sue solite ramanzine.
Chris si riprese con un'esclamazione strozzata al termine del suo racconto. I suoi occhi lacrimavano e a stento riusciva a trattenersi dal piangere. Calò un silenzio imbarazzato. Leonard ed Ed corsero ad abbracciarlo. Lucas si avvicinò per dargli una pacca sulla spalla. «Tranquillo Chris, è tutto ok» lo consolò Lucas. Jennifer aveva lo sguardo perso, mentre Sophia, rattristita, teneva abbracciata Taylor. «Dai ragazzi, non fate così... vi sarete senz'altro sbagliati» sentenziò Thomas e provò a ironizzare usando una punta di miscredenza. «No, non fi ftanno fbagliando, io ci credo. Anche io ho vifto quello là» pronunciò Ed con voce calante. Tutti sussultarono, stupefatti. «Mi è successo lo scorso maggio, nella grande villa abbandonata lassù, alla fine della Dock Street...». Questa volta toccò a Ed raccontare la sua folle ma purtroppo vera storia. Fece moltissima fatica. Più volte fu costretto a fermarsi per riprendere fiato, ansimando come se i suoi polmoni si fossero rimpiccioliti. Al termine del racconto, aveva consumato un'intera bottiglia d'acqua. E nonostante il suo problema di comunicazione, riuscì a portare a termine il racconto, facendosi capire da tutti. Non ricordava di aver mai fatto un discorso così lungo, senza quasi mai essere interrotto (se non quando si impantanò con una raffica di oltre venti secondi di "f", ma in quel caso fu Leonard a terminare la frase) e senza provare imbarazzo.
Edward Kasparov era figlio di due contadini di uno stato delle MiddleLands, chiamato Volvodina Occidentale. Sua madre si chiamava Agata Kasparov, suo padre Gedeon Kasparov. Avevano un grosso appezzamento di terreno in un piccolo villaggio rurale, Pristina. Sul finire degli anni novanta, la Volvodina Occidentale fu colpita da una grave crisi economica e a risentirne furono soprattutto i contadini, a causa anche di una carestia che si verificò in quegli anni. Edward ricordava con enorme piacere la sua casa d'origine in campagna. Ogni anno, qualche settimana dopo il giorno dell'equinozio di primavera, la fattoria Kasparov si svegliava dal sonno invernale. Ed si accorgeva che la primavera era arrivata quando suo padre tirava fuori dal fienile un trattore arrugginito arancione vecchio di almeno trenta anni. Se ne stava sommerso sotto al fogliame per tutto il periodo invernale, poi, a metà aprile, il padre di Ed lo tirava fuori dal fienile borbottando. Quel vecchio trattore a volte ci metteva anche mezz'ora per accendersi. Ogni primavera Gedeon prometteva a sé stesso di comprarne uno nuovo, ma ogni anno quel vecchio trattore Lamborghini era ancora lì. Ed amava quel trattore e amava salirci sopra muovendo il volante e facendo finta di guidarlo. «Figlio mio, spero che tu un giorno possa comprarti una Lamborghini, ma non un trattore, un'auto!» diceva sempre il padre. Ed lo guardava sempre con occhi colmi d'ammirazione, vedendo nel padre una figura mitologica, un eroe. Gedeon era solito far salire suo figlio sulla gamba per poi portarlo in giro con l'aratro attaccato sul retro del trattore a solcare il terreno. A volte scendevano giù in paese con il trattore, col carretto dietro, su cui mettevano uova e galline da vendere. Ed amava alla follia quel mezzo, il borbottio del motore diesel, il cigolio degli ingranaggi, i suoi fumi densi e oleosi e amava la sua famiglia più di ogni altra cosa. Quello era il suo mondo, il mondo di un bambino di campagna nella Volvodina Occidentale. Quelle primavere che ormai Ed ricordava a stento terminarono nel 2002.
Quando arrivò settembre e per il secondo anno di fila la raccolta era stata molto scarsa, il padre di Ed decise che non era più possibile continuare a vivere in quelle condizioni di povertà. C'erano sere in cui Gedeon doveva privarsi del suo pane o del suo purè di patate per darlo al figlio, perché non sopportava ascoltare il brontolio del suo piccolo pancino. «Ce ne andiamo nelle WesternLands, a Grand North City!». Quella esclamazione ormai risuonava come un inno invocato nei confronti di una divinità sconosciuta ed Ed lo ricordava ancora nitido nella sua mente, come se suo padre fosse ancora lì a rammentargliela. Appena arrivò l'autunno quell'anno, la famiglia Kasparov si trasferì (senza averne i requisiti legali) nelle WesternLands. Trovarono un piccolo appartamento in un quartiere d'immigrati, condividendo la casa con un'altra famiglia di quattro persone, padre, madre e due bambine. Gedeon trovò lavoro come scaricatore di porto al molo distante un paio di chilometri dal loro quartiere. Spesso e volentieri faceva i turni di notte. Tutti gli immigrati che giungevano al distretto sette erano costretti a pagare la pigione a un certo Fedot "Pincer" Usimov. Si poteva affermare senza errore che il distretto fosse suo, comprese le attività del molo. E così tutte le attività illegali, gestite da lui e dai suoi scagnozzi. Era riconosciuto per la sua estrema durezza e violenza. I suoi sottoposti venivano chiamati "No Fingers", perché molti di loro non avevano alcune dita delle mani. Fedot era solito tagliare uno o due dita con delle tenaglie a chi non rispettava i suoi ordini o falliva in qualcosa; da lì il suo soprannome, Pincer. Anche il padre di Ed doveva lavorare per Fedot. Purtroppo i Kasparov ebbero delle difficoltà economiche perché Edward aveva dei problemi di salute, costringendo il padre a ritardare alcuni pagamenti dell'affitto. Ciò era inammissibile. Più volte a Gedeon era stato intimato da alcuni scagnozzi di saldare immediatamente il proprio debito. Erano arrivati anche a pestarlo quasi a morte davanti agli occhi del piccolo Ed. Papà ma non era meglio in campagna? Non ti piaceva più il trattore o il cinguettio degli uccellini a primavera? Il figlio si era coricato sul padre insanguinato per aiutarlo. «Va tutto bene Ed, va tutto bene» gli ripeteva, ma anche se era un bambino, capiva benissimo che non andava affatto bene, lo sentiva.
Un giorno, nel cuore della notte, un uomo entrò nell'appartamento dei Kasparov uccidendo con una pistola silenziata i genitori di Ed. Ricordava ancora di aver sentito le urla sommesse della mamma e del papà nella stanza accanto. Già il giorno prima il padre aveva avuto un presentimento, quando la famiglia che viveva con loro fu spostata da un'altra parte. Ed quella notte non riusciva a prendere sonno, presentendo anche lui qualcosa. Fissava la porta della sua camera con gli occhi sbarrati, sapendo che di lì a poco sarebbe entrato qualcuno. Mamma e papà sono morti. Ora morirò anche io. A stento riusciva a trattenere le lacrime. La porta cigolò e nell'ombra una figura avanzò così silenziosa che Ed non riuscì a percepire alcun rumore; ma dalla finestra filtravano fioche le luci delle strade, che gli permettevano di vedere un uomo che si avvicinava al suo letto. Aveva due occhi enormi, come perle bianchissime immerse nell'oscurità di un pozzo senza fondo, come luci di speranza nella notte più triste. Speranza. Ed provava una sorta di sollievo, pur trovandosi di fronte all'uomo che nella stanza accanto aveva appena ucciso i suoi genitori. Sentiva la puzza di polvere da sparo della pistola ancora fumante e un odore di sangue che proveniva dagli indumenti dell'uomo immerso nel buio. Almeno andrò in cielo con mamma e papà, non saremo mai soli. Mi basta chiudere gli occhi ed è finita. Ed strinse gli occhi, serrandoli come quando si chiude una porta alle spalle e la si tiene con tutta la forza per evitare che il cattivo entri. Sentì la canna dell'arma fredda e metallica sfiorargli la piccola fronte calda dalla paura. Poi quella sensazione di freddo passò e una voce lo fece svegliare da quello stato di premorte, una voce atona, come se a parlargli in quel momento fosse un robot. «Hai l'espressione di chi desidera la morte... mi fai paura bimbetto, neanche gli adulti hanno tutto questo coraggio... ma sei sfortunato, oggi non rivedrai i tuoi genitori... vedi, lasciarti vivere è una punizione assai più grande e poi... io ho un codice d'onore, niente bambini e ragazzi... le donne sì, perché sono pericolose quanto gli uomini, e ucciderle è una forma di rispetto per l'altro sesso per me... ma bambini e ragazzi no...».
L'uomo abbassò l'arma e si voltò in modo sinuoso, come a voler assecondare la sua calma interiore con i muscoli del suo corpo. Ed sgranò gli occhi, osservando quell'uomo sparire oltre la soglia della porta. Nel farlo, un sussurro gli arrivò all'orecchio. «Edward Kasparov... non dimenticherò mai il tuo nome, fin quando avrò vita. Tu ricordati il mio... Igor Timochenko». Ed non lo rivide mai più. Igor era un assassino mercenario ingaggiato da Usimov per le esecuzioni. Bazzicò nel distretto per qualche mese, per poi sparire come la luce di una lampadina fulminata che abbandona una stanza buia. Si diceva che fosse il più piccolo di tre fratelli (si diceva che il maggiore fosse morto), un famigerato trio di assassini. Per ironia della sorte, dal giorno dopo la morte dei suoi genitori, Edward andò a vivere giù al molo del distretto, in un capannone industriale dove viveva Usimov. Il piccolo crebbe nell'incuria più totale e dimenticato dal mondo. Gli scagnozzi di Fedot lo vedevano come un piccolo ratto. Si era costruito una cuccia all'interno di un tubo d'acciaio e di tanto in tanto rubacchiava gli avanzi del cibo dagli operai del porto. Qualche uomo di cuore gli portava vero cibo e delle coperte. Sia d'estate che d'inverno, vestiva di soli pantaloncini, lerci e strappati. Era arrivato ad avere il nero dello sporco fino alle rotule e poteva lavarsi solo rubando delle bottiglie d'acqua e del sapone dagli scagnozzi di Usimov, sempre se non lo prendevano e lo percuotevano. Di notte guardava dalla fessura del tubo, all'interno del quale viveva, le navi attraccare al porto sotto le fulgide luci dei potenti lampioni e poteva sentire le urla e le imprecazioni dei lavoratori che di notte pullulavano come lupi nel bosco. E, proprio una di quelle notti, vide portare all'interno del capannone delle casse di legno con alcuni fori. Quelle casse tremavano ed Ed poteva sentire qualcosa graffiare il legno liscio dall'interno come lame di coltelli e un ringhiare di bestia affamata e assetata di morte. Più tardi capì che si trattava di cani da combattimento.
Usimov aveva deciso di aprire una nuova attività nel distretto, proprio nel suo capannone: combattimenti tra cani. La sera successiva Ed, barcollante e morente di fame a tal punto che le sue piccole dita erano inzuppate della sua saliva e piene dei segni dei suoi denti, si inoltrò all'interno del capannone. Notò che in fondo c'era una porta di metallo sbarrata. Seduto accanto alla porta, c'era un uomo di colore, con un grosso teschio tatuato sulla pelata e le enormi braccia poggiate su un tavolino. Era un certo Calvin "Big Belly" Jackson, uno scagnozzo famoso tra i suoi colleghi per il suo appetito pantagruelico e perché si vociferava che una volta fosse riuscito a staccare la testa di un uomo dal corpo a mani nude. Aveva una pancia così grande che un rotolo di grasso gli premeva come una pressa contro il bordo del tavolino e lo copriva per quasi un quarto della superficie. L'uomo si stava ingozzando di ali di pollo fritte e guardava un incontro di boxe su un piccolo televisore portatile, color verde acqua. Ed, attirato dall'odore di miele fritto come un topo dal formaggio, si avvicinò all'uomo battendo i suoi piccoli piedini scalzi e Calvin lo sentì. Il grasso delle ali gli colava sul mento e sul collo che non aveva e, a ogni concitato morso, grugniva come se stesse mangiando qualcosa di afrodisiaco. Edward lo fissò come se vedesse del cibo per la prima volta in vita sua. Non ricordava di aver mai mangiato della frittura, ma sapeva com'era fatta. Calvin si sentì osservato e smise subito di mangiare. Gettò l'ala di pollo, alzò lo sguardo e vide un piccolo bimbetto scalzo e a petto nudo, sporco di un sottile strato di fuliggine nera fino alle guance, con i capelli scompigliati e irti, bagnati come se fossero stati immersi nell'olio, con alcune foglioline nel mezzo, come perline su un abito malmesso. Aveva la bocca semiaperta, della saliva gli colava sul piccolo mento, come un neonato che si sbava. Aveva l'indice e il medio in bocca e li succhiava come se avesse un ciucciotto. I suoi occhi erano gonfi di lacrime e arrossati alle palpebre, coperti da grossi occhiali (troppo grossi per la sua età) spaccati a metà, ma tenuti insieme con del nastro adesivo nero. Nonostante apparisse come un uomo rude e violento, e così voleva che gli altri lo vedessero, Calvin aveva in fondo, molto in fondo, un cuore tenero.
Quella volta non poté fare a meno di sentirsi in colpa di ingozzarsi mentre quel topolino lo fissava con quegli occhietti tristi e affamati. «Ehi, topolino, la vuoi un'ala di pollo?» disse Calvin con voce potente e profonda. Ed ebbe la sensazione che a parlare fosse stato una sorta di santone, un salvatore venuto a liberarlo dalla condizione in cui versava. Scosse il capo con tale frenesia che quasi si morse le dita che ancora giravano e s'inzuppavano nella copiosa saliva. Fece uno scatto rapido verso l'uomo che lo sollevò prendendolo per la nuca, come si fa con i cuccioli di gatto. Ed si fece un po' male, ma l'idea di addentare quelle succulente ali di pollo lo fecero resistere. Si sentì come sollevato da una gru. Calvin lo fece sedere sul tavolino e gli porse il contenitore di plastica con le ali di pollo. Quel guazzetto di olio e grasso appariva a Ed come una poltiglia celestiale, qualcosa capace di donare la felicità eterna. Si tuffò con tutte e due le piccole braccia, affondando le mani nel grasso e nella salsa barbecue. Prese un paio di ali e cominciò a ingozzarsi. Nel farlo si mise a singhiozzare e a lacrimare. «Ammazza, deve essere parecchio che non mangi... attento agli ossicini però...». Ma quelle parole arrivarono alle orecchie del bimbo come il brusio delle foglie trascinate dal vento d'autunno. Aveva la bocca così piena e impastata che non sentiva più la saliva e doveva respirare allargando le narici più che poteva. Se avesse potuto avrebbe mangiato anche le ossa, ma si limitò a mangiucchiarle e a succhiare i pezzetti di grasso e carne che restavano attaccati. Cinque grosse ali di pollo, un'autentica scorpacciata per il suo piccolo pancino. Quando terminò, la salsa e l'olio gli ricoprivano quasi interamente il viso.
«Aspetta topolino, che ti pulisco». L'uomo estrasse un fazzoletto dal piccolo mazzo che aveva poggiato sul tavolo e con la sua enorme mano arrivò a pulire Ed. Era così grande che il bimbo per qualche secondo non riuscì a respirare visto che aveva tappati sia bocca che naso e agitò le braccia al cielo. La sua pelle divenne rossa e non solo per la salsa, ma anche per lo strofinio del fazzoletto. All'improvviso un suono metallico percosse l'aria. La porta alle loro spalle si era appena aperta. Un uomo, con una camicia a fiori sbottonata e un ciuffetto di peli arruffati sul petto, fece intravedere metà del suo corpo sporgendosi. «Big Calvin, abbiamo un problema, un tizio sta dando i numeri, sbattilo fuori!» esclamò preoccupato l'uomo. Calvin strisciò la sedia all'indietro, che stridette sul pavimento, spinse in avanti con la sua enorme pancia il tavolo su cui stava seduto Ed, che perse l'equilibrio e batté con la testa per terra. Nonostante la sua mole, Calvin si alzò con uno scatto degno di un atleta e corse oltre la porta, quasi travolgendo l'altro uomo. Ed, ripresosi dallo scossone, sentendo urla e grida d'incitamento, imprecazioni varie e cani abbaiare, decise di dare un'occhiata. Fece un piccolo salto e passò prima sulla sedia (ancora tiepida grazie al sedere di Calvin) e poi con un altro saltello piombò sul freddo pavimento e, sospinto da un'irrefrenabile curiosità, si diresse verso una folla di uomini di spalle. In lontananza, tra quelle urla pazze, sentiva alcuni guaiti. Forse un cane non si sente bene? Passò in mezzo a quelle gambe, che gli sembravano come alti arbusti di una foresta tropicale e in mezzo a quella frenesia venne urtato molte volte. Ma il desiderio di guardare cosa stesse attirando quegli uomini, con così tanta attenzione, lo fece avanzare come un esploratore che deve trovare le rovine di una città perduta. Arrivò infine all'ultimo muro di gambe.
Schiacciò la schiena e il suo pancino (gonfio a causa delle ali di pollo che stavano fermentando nel suo stomaco) contro un paio di polpacci e nello sfilarsi cadde a terra, evitando di battere di nuovo la testa, proteggendosi con le mani. Si alzò e fissò lo sguardo in avanti. Lo spettacolo che gli si palesò di fronte era macabro. Gocce di sangue che cadevano e un occhio penzolante; denti aguzzi, colanti di un liquido cremisi e biancastro; respiri rabbiosi e sordi ruggiti. Un cane aveva appena strappato al suo rivale un occhio, che ora dondolava come un'altalena fra i suoi denti. L'altro cane era chiazzato di rosso e aveva un grosso foro color porpora dove prima c'era l'occhio. Ansimava a terra, disteso su un fianco. Si vedeva il ventre sollevarglisi e poi abbassarsi come un martello pneumatico che picchia sul cemento. Edward fissò quell'immagine per qualche secondo. Attorno a sé non esisteva più nulla, se non lui e quei due cani, come in un mondo chiuso e ovattato. Ed avvertiva il sudore e il testosterone di tutti i presenti e i loro aliti fetidi di sigarette e alcol. Il tempo riprese a scorrere. I circuiti del suo corpo, che si erano bloccati per qualche secondo, ripreso a funzionare in modo sbagliato. Aveva i muscoli tremanti e gli sembrava che il cuore battesse in ogni parte del corpo. Si coprì gli occhi e corse verso l'uscita. Dovette attraversare di nuovo quella selva di gambe, ma uscì più in fretta di com'era entrato. Sudava freddo e voleva urlare di terrore. Poi sentì una grossa e calda mano afferrarlo all'improvviso per l'elastico dei pantaloncini. Fu sollevato e la sua testa fu spinta contro un enorme petto. Qualcuno lo stava abbracciando. Ed sollevò lo sguardo e vide il volto di Calvin, severo ma dolce allo stesso tempo. «Topolino, questo non è un posto per te... andiamo, questa sera dormirai in un vero letto e farai un vero bagno». A quelle parole, Ed scoppiò in lacrime e affondò la testa nel petto di Calvin che lo cinse forte a sé. Provava sia gioia, che paura. Gioia perché qualcuno, dopo tanto tempo, aveva mostrato nei suoi confronti un minimo d'affetto. Paura perché l'immagine di quel cane che uccide l'altro non gli sarebbe mai più scomparsa dalla testa. Da quel giorno Ed ebbe la fobia dei cani. Ogni volta che ne vedeva uno, anche uno piccolo e inoffensivo, si irrigidiva e si andava a nascondere dietro la gamba di Calvin.
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