CAPITOLO 3 (Parte 3)
«Ora tocca all'ultima arrivata... ci mostri il tuo potere Jennifer?». Leonard disse quelle parole con tono lieve e delicato, come se avesse timore di offendere la ragazza in qualche modo. Jennifer sollevò la faccia, guardando Leonard per qualche secondo, perplessa. Poi fece un cenno affermativo con il capo. Si alzò e avanzò con i pugni chiusi sui fianchi e le gambe che quasi si strofinavano l'una contro l'altra, irrigidita come una candela nuova. «Forza, Jennifer» sussurrò Sophia per incitarla. La ragazza, giunta in posizione, deglutì un paio di volte prima di cominciare a parlare con voce tremolante. Tutti la osservano incuriositi, persino Sophia e Taylor che già conoscevano i suoi poteri. «Ciao... mi chiamo Jennifer e ho dodici anni... il mio potere consiste nel sollevare gli oggetti con la forza del pensiero, si chiama telecinesi...». I ragazzi a quelle parole sgranarono gli occhi, ma restarono in religioso silenzio, in attesa di una dimostrazione pratica. Jennifer fissò una pietra, corrucciandosi. Allungò un braccio verso di essa, aprendo il palmo, e tese le labbra. Dopo pochi secondi, la pietra volteggiava in aria, come tenuta da un filo invisibile. Tutti restarono sbigottiti in silenzio. «Questo è un tipico potere da supereroe» pronunciò Thomas. «Grande!» esclamò Leonard. «Tesoro, sei fantastica!» esultò Sophia, seguita da urla festanti di Taylor. Credo di essermi innamorato anche di lei pensò Chris, mentre Lucas la fissava in modo intenso, come perso nell'immensità di una luce celestiale. «Che bomba» disse Ed. Jennifer, ricevuti i complimenti da tutti i presenti, lasciò cadere la pietra e rilassò i muscoli del volto e il braccio. Accennò un inchino e tornò a sedere a passo svelto e con lo sguardo schivo. Tutti gli altri applaudirono e Jennifer si fece quasi cremisi dall'emozione, stringendo con una mano l'altra, chiusa a pugno, e sembrava volersi raggomitolare come un gattino impaurito.
Passarono alcuni minuti, durante i quali i ragazzi parlavano affabili tra di loro, nella calura di quella atipica giornata di dicembre che sembrava aprile. Leonard si sentiva appagato e in pace con sé stesso. Gli sembrava di vivere un sogno, un'immagine, perfetta all'interno della quale un gruppo di ragazzi, con cui chiunque avrebbe voluto convivere, trascorreva la propria esistenza. Nonostante tutto. Nonostante Primestone, quella città isolata e dimenticata dal mondo, dove un gruppo di scienziati aveva rinchiuso giovani anime come fossero animali o cavie, come piaceva chiamarle al dottor Brandt. Era tutto troppo bello e Leonard sapeva che non era reale, solo un'utopia, una bolla di sapone circondata da migliaia di aghi pronti a farla esplodere. Leonard desiderava in modo ardente che quel sogno, quella fantasia, quella finta realtà, non finisse mai, ma sapeva in cuor suo che quel mondo, forse, era peggiore di quello vero. Spostò lo sguardo su Chris, che teneva la sigaretta in modo impacciato e sputacchiava come se stesse masticando qualcosa di rancido. Era evidente che che gli faceva schifo. Vide il suo amico lasciar cadere la sigaretta a terra con un leggero gesto di stizza e ricoprirne il mozzicone con la terra. Chris rialzò la testa e vide che Leonard lo stava osservando. Provava a fare il figo, ma non aveva la naturalezza di Leonard e per questo provava vergogna e rabbia allo stesso tempo. Distolse lo sguardo, tra l'imbarazzato e l'amareggiato. Allora Leonard diede una rapida occhiata a Ed, che era seduto accanto a lui e stava fischiettando una canzone che risultò sconosciuta a Leonard. Poi guardò Sophia. Notò che la ragazza stava sbirciando Jennifer ed era preoccupata. Jennifer aveva lo sguardo perso nel vuoto. Gli era tornata quell'espressione spaventata, pensò Leonard. Sophia sollevò lo sguardo proprio verso il ragazzo e, come per telepatia, i due capirono che stavano pensando alla stessa cosa. Jennifer aveva qualcosa che non andava. Proprio in quel momento, spense la sigaretta schiacciandola a terra e fece un sospiro pesante, come se avesse qualcosa da espellere, ma non volesse uscire. Leonard avrebbe preferito distrarsi in quel momento, magari con una delle battutacce di Thomas, che per qualche misterioso evento paranormale se ne stava in silenzio, come in ascesi, a contemplare le sue scarpe. «Posso dire una cosa!?» strillò all'improvviso Jennifer, come se avesse visto una grossa blatta uscire dai suoi vestiti. Leonard sgranò gli occhi e i suoi pensieri cominciarono a fluire veloci come un treno.
No, no, non dire niente occhioni verdi. Cazzo, cazzo! Dai Chris, dì qualcosa di stupido, oppure di imbarazzante, che ne so... urla ad alta voce che ti viene duro quando guardi le caviglie di Sophia, oppure il suo culo. O Thomas, certo, Thomas e le sue battute... parla di quella volta che Harris ti ha picchiato e che quando la Guardia di Sicurezza ti ha preso gli hai pisciato addosso e gli hai detto che ai vecchietti e alle loro prostate succedono quelle cose.
Ma gli sembrava che una vocina gli sussurrasse nell'orecchio qualcosa e gli vennero in mente le casette abbandonate giù a Garden Street che aveva visto in una delle sue esplorazioni. Perché vale la pensa esplorare una città deserta. Ti va di ballare Leonard? Ti piace ballare Leonard? E le orge ti piacciono Leonard? Hai mai fatto un'orgia? «Certo señorita, lei può dire tutto quello che desidera» ammiccò Thomas. Jennifer cominciò a balbettare (con grande soddisfazione di Leonard). Poi sembrò ansimare. Dai che schiatta. Poi aprì la bocca. «Avete mai avuto la sensazione di sentirvi osservati in questa città?». A quella domanda sul gruppo calò un'ombra mortale e soffocante. Gli sguardi di tutti (un po' meno quelli di Sophia e Thomas) divennero grigi e vuoti. «Però non dovete ridere... perché... io non le dico le bugie!». «Tesoro, perché dovremmo ridere di te? Non rideremo» promise Sophia. Taylor spalancò gli occhi, curiosa di sentire quello che avesse da dire la sorellona. Leonard restò impassibile, mentre Lucas, Chris ed Ed scossero la testa in segno di diniego. «Spara, bambolina» disse Thomas. Leonard avrebbe voluto invece dire: potresti anche chiudere quella boccaccia. Solo perché sei carina, e porca miseria se lo sei, anche con quei capelli rasati e il cappellino, non significa che puoi sparare tutte le cazzate che ti passano per la testa come quelle oche snob delle grandi e scintillanti metropoli. Magari se ti faccio vedere il durello di Chris scappi inorridita!
E come un fiume in piena Jennifer raccontò tutto. Raccontò di quello che era successo la sera prima, della strana creatura, degli occhi fucsia fosforescenti, della madre e della sorella, del padre e di essere entrata nella mente di quello là, che la stessa cosa era successa nel laboratorio con il dottor Brandt. Fu un monologo infinito e doloroso, intervallato da copiose lacrime, un terribile ansimare, gridolini e toni isterici prima e balbettanti poi. Quando ebbe finito il discorso, guardò tutti, a uno a uno. Nessuno sembrava sorpreso. S'erano ammutoliti e le espressioni sui volti erano le stesse: paura. Pura, semplice, orrida e maledetta paura, il più primordiale degli istinti, dopo la fame e la sete. Leonard provò un impulso rabbioso, voleva scagliarsi contro Jennifer e gridarle: ma che cazzo vai dicendo? Vorresti farci credere che esiste un demone che chiede ai ragazzi di ballare? Di fare orge? Un demone che mangia la gente, puzza come un maiale e che tu, sì proprio tu, uno stecchino che trema come una foglia e che ha paura della sua stessa ombra, sia capace di entrare nella sua mente e parlargli? E chi cazzo sei, il Professor X? Ma Leonard non disse nulla, perché sapeva benissimo che ciò che raccontava Jennifer era vero, mostruosamente reale. Tutti, a eccezione di Sophia e Thomas, avevano la stessa espressione persa e pensierosa. O almeno così a lui parve. Esperienze. Stesse esperienze, come agli alcolisti anonimi. Leonard, lo vuoi un biscottino? È fatto con pura carne umana! E se ti piacciono, potrai fartici una sega sopra. Ti aiuta la nonnina a farti una sega, anzi ti aiuteremo io e le mie bambole. Poi balleremo tutti insieme, oh sì se ballerai, e alla fine sarà tutta un'orgia. Un'orgia senza fine. Giù a Garden Street c'era una serie di casette a schiera abbandonate. Una in particolare, ormai distrutta dalle intemperie, aveva un prato sommerso dalle sterpaglie con sopra decine e decine di gnomi di ceramica. E c'era anche uno scivolo ribaltato, con i piedi di plastica bucati e il ferro del piano arrugginito. A sinistra della porta d'ingresso inchiodata c'era un vetro opaco sporco di terriccio che dava sulla cucina. A fine settembre, Leonard vi aveva visto una vecchietta seduta, con la testa che sporgeva appena, la vestaglia rosa e i capelli cotonati con i bigodini.
Talvolta, la domenica mattina quando Chris ed Ed dormivano ancora, Leonard si svegliava di buon'ora per fare un giro di esplorazione in città. Non aveva un motivo particolare, gli piaceva e basta. E tutto era reso ancora più magico da quel silenzio ovattato e fragoroso e dal quel generale stato di abbandono che sembrava proiettare quella città indietro nel tempo, in un preciso momento del passato in cui tutto si era fermato. In particolare, l'anno prima, Leonard aveva scoperto un quartiere che si estendeva lungo la Garden Street. Per arrivarci percorreva tutta la Run Street, passando proprio all'incrocio con la Summer, la strada dove aveva sede l'ex scuola superiore che il suo amico Chris tanto adorava. A un certo punto la Run si biforcava: una strada continuava fino a congiungersi con la Dock Street, mantenendo il nome di Run, mentre la seconda strada proseguiva verso una piccola vallata e prendeva il nome di Garden Street. Prima che esplodesse la centrale nucleare era un quartiere popolare, costituito quasi del tutto da casette indipendenti tutte uguali, in genere con tetti bianchi e di un azzurro chiarissimo. Ci abitavano soprattutto pensionati, reduci di guerra, famiglie di galeotti, insomma persone con difficoltà economiche più o meno gravi. Quelle graziose casette (a Leonard piacevano, nonostante lo stato di degrado in cui ormai si trovavano) avevano dei costi d'acquisto o di affitto molto bassi ed erano facili da mantenere. La Garden si estendeva per circa un chilometro e mezzo, terminando con una piazza circolare, larga circa quaranta metri. Adesso c'erano delle telecamere all'incrocio tra la Garden e la Run e per trecento metri più in là; oltre non ve n'era più traccia. Forse gli amministratori di Primstone ritenevano che i ragazzi non si sarebbero addentrati fino alla fine della strada e che se anche lo avessero fatto, sarebbero comunque tornati. E a Leonard questa cosa non poteva che piacere. Spesso si fermava a metà strada a giocare con un pallone da basket che era riuscito a farsi dare dagli inservienti dopo estenuanti trattative e tentativi andati a vuoto. Ci giocava quasi sempre con Chris ed Ed in una piccola piazzetta vicina al loro attuale appartamento, dove c'era un canestro. Ma la domenica mattina il pallone era tutto suo e lo tirava nei canestri sul retro di quelle casette lungo la strada, oppure davanti, sul vialetto, in genere in corrispondenza dei garage.
C'era stato un sabato pomeriggio di fine settembre in cui Leonard era stato poco bene e aveva deciso di non seguire i suoi compagni di stanza giù al Derrick. Fortuna volle che quel pomeriggio, che si prospettava in solitudine, arrivarono Lucas e Thomas, due ragazzini di un anno più piccoli che Leonard aveva conosciuto solo due settimane prima. Thomas entrò nell'appartamento come un tornado che cerca di abbattere un palazzo e aveva mostrato a Leonard con occhi brillanti delle riviste che aveva trovato in casa sua. Erano riviste per adulti, «riviste per fieri sporcaccioni» aveva ululato entusiasta Thomas. Le aveva mostrate a Leonard con la stessa fierezza di un anziano marinaio che racconta a suo nipote di quanti squali ha ucciso in vita sua. «Stai attento Leonard, rischi di bruciarti la mano» gli aveva detto Thomas imitando la voce roca di un padre. «Piantala, Thomas» gli aveva intimato il ragazzo. «Non sai neanche come si fa». «Ah, ah, non sai neanche come si chiama» disse ridacchiando l'amico. «Certo che lo so» si stizzì Leonard. «E allora dillo». All'ennesima esortazione, Leonard urlò con tono squillante: «sega». Thomas, soddisfatto, gli fece un sorriso e gli passò (era ora, aveva pensato Leonard) tutte quelle riviste con seni e donne nude. Quella sera, quando Lucas e Thomas se ne furono andati e Chris ed Ed erano rincasati, Leonard gli mostrò le riviste, dicendogli però di averle trovate nell'armadio dell'appartamento accanto. Ed rimase fino a poco prima di coricarsi a fissare quelle immagini e di tanto in tanto chiedeva a Leonard: «ma sono davvero cofì le donne? Cioè fono... donne vere?». E ogni volta Leonard, sbuffando, gli dava risposta affermativa. Chris invece si era rintanato nel bagno, restandoci per quasi un'ora, a tal punto che Leonard fu costretto a intimargli di aprire, altrimenti avrebbe buttato giù la porta, anche se fosse stato con il pene di fuori. La risposta di Chris fu alquanto eloquente. «Leonard... credo stia succedendo qualcosa...». «Ti sta venendo duro» disse con tono rassegnato Leonard. «Di quello me ne sono già accorto, solo che... ho come una sensazione... che devo fare?». Leonard rimase quasi inorridito oltre la porta chiusa a chiave, mentre Ed aveva distolto lo sguardo dalle riviste e con viva curiosità esclamava «che intende per fenfazione?». «Ed, non ti ci mettere anche tu, l'anno prossimo capirai!» sentenziò Leonard. «E tu Chris, stai tranquillo, è tutto ok, è normale, però fammi un favore... usa la carta igienica, raccogli tutto, butta al centro e scarica... non ti azzardare a sporcare!». Dalla porta non proveniva più alcun suono. Sembrava che Chris fosse sparito. Poi una voce tremolante riprese a parlare. «Leonard... l'ho toc-c-cato più volte e... sta uscendo qualcosa... oddio Leonard sta uscendo qualcosa, aiutami!». Leonard si era messo a imprecare, portandosi le mani in faccia. Quella sera Chris aveva avuto il suo primo durello e Leonard aveva dovuto spiegargli delle cosucce. Anche Ed ascoltò, ma gli parve tutta così surreale quella discussione che se ne dimenticò ben presto.
Il mattino seguente, Leonard si era diretto verso la Garden Street per giocare a basket. Ma quella mattina era diverso. Provava uno stato d'ansia che non aveva mai provato a Primestone e si sentiva come... osservato. Un piccolo pensiero come un verme che cerca di scavare una buca, si stava insinuando nella sua testa. Arriva fino alla fine della strada, lì ballerai. E come mosso da un'energia inebriante e ipnotica, corse come un forsennato verso la fine della strada, dove non era mai arrivato. Ma perché tutta questa fretta? Leonard si era sentito come spinto e nella sua mente gli era sembrato che fosse stata la via a muoversi sotto i suoi piedi. Che assurdità, aveva pensato. Si ritrovò al centro di una piazza, circondata dalle stesse casette azzurrine e dai tetti bianchi, tutte uguali, con giardini diventati piccole foreste, con strati densi di foglie morte, cianfrusaglie di ogni sorta ricoperte di luridume vario e odore d'immondizia vecchia chissà di quanti anni. Ma un'abitazione in particolare attirò la sua attenzione. Aveva notato un'altalena rovesciata e degli gnomi di ceramica nell'erba incolta. Gli ricordò la casa dove era cresciuto insieme alla nonna, la signora Ana Star, nella città di Port City. Leonard era figlio di una ragazza madre di nome Donna Star, che per anni era stata maltratta dal padre biologico di Leonard (un certo Matt Star) prima e dai fidanzati successivi poi. Per problemi economici, alla madre fu negato l'affidamento del figlio quando lui aveva sei anni. Così fu affidato alla nonna paterna, il parente più prossimo che si potesse occupare del bambino. Leonard ricordava ancora il giorno in cui un uomo e una donna dei servizi sociali si erano presentati a casa sua, seguiti da un agente di polizia e lo avevano strappato dalle braccia di sua madre, che disperata urlava di non portargli via la sua unica ragione di vita, con i vicini di casa affacciati. L'ultimo ricordo di sua madre era questo: lei, carponi, che urla, con gli occhi gonfi di lacrime e di costernazione.
Gli assistenti sociali credettero in buona fede di aver fatto un favore al bambino, di aver fatto il loro lavoro, allontanandolo da una persona pericolosa. Senza saperlo, avevano affidato il pargolo a un mostro camuffato da brava signora. La nonna di Leonard era ancora giovane, poco sopra i cinquanta anni. Era una signora giovanile, dai fianchi pronunciati, il seno abbondante e i capelli di un biondo luminoso. Nonostante l'età, non aveva una ruga. Era solita vestirsi con abiti costosi, addobbarsi con gioielli da regina e un rossetto rosso visibile a chilometri di distanza. La sua ricchezza era dovuta ai potenti uomini con cui intratteneva relazioni e che le elargivano lauti regali, soprattutto in denaro. Il suo primo marito, il nonno di Leonard, era morto dodici anni prima in un incidente stradale. Tre cose ricordava Leonard della nonna: i capelli cotonati con i bigodini, il suo alito rancido di sigarette e bourbon e la sua sterminata collezione di bambole, che occupavano un'intera stanza, sistemate su mobili a parete marrone scuro che sapevano di legno antico. Leonard provava terrore ogni volta che dava un'occhiata a quella stanza: pareti e pareti di occhi morti e immobili, come cadaveri imbalsamati. Infine, oltre a picchiarlo, lo toccava sempre, in punti che lui non apprezzava. Ricordava il suo alito caldo sul collo. Ricordava quando facevano il bagno insieme, la sua pelle rugosa e cadente (ben diversa da quella del viso) che strofinava contro la sua. Leonard, quando sarai grande sarai un uomo forte e attraente. E coraggioso. Un vero principe. La nonna ti vuole tanto bene... e ora fatti fare una sega. Un lunedì pomeriggio Leonard si trovava in bagno, nudo, con la sua giovane pelle esposta agli occhi maliziosi di sua nonna che come sempre era già lì, nella vasca da bagno, ad attenderlo, immersa in quell'acqua tiepida e ferma, come uno stagno. Quella vasca era diventata per Leonard come un rituale, una purga spiritica fastidiosa e sbagliata, una sorta di risarcimento che la vita ti chiede per lasciarti vivere. Inerme come solo un fanciullo può essere, si era avviato con calma inquietante e con fare sconsolato nelle fauci di quella signora all'apparenza tanto buona. Il ragazzo ricordava alla perfezione il suo sorriso, quel canino appena accennato che lo faceva sempre trasalire. Ma quel pomeriggio era diverso. La signora Ana portò la sua mano sul suo seno raggrinzito e lamentò un forte dolore al petto, come oppressa da una morsa. I suoi occhi sembravano piccole mongolfiere luccicanti che avevano volato troppo vicino al sole. Boccheggiò come se fosse in apnea e diresse la mano, raggrinzita tanto quanto il seno, verso Leonard e con un filo di voce gli disse: «cuore... ambulanza... chiama nove-uno-uno...». Il bambino guardò la nonna perplesso. Non si rendeva conto che la donna stesse avendo un infarto. Quando lo capì, la testa della signora era già sprofondata sotto l'acqua stagnante della vasca da bagno. Leonard sentiva il gorgogliare delle bollicine prodotte dal respiro subacqueo di sua nonna, che si sforzava di sopravvivere. Alla fine, Leonard andò verso il telefono. Nove-uno-uno era il numero da digitare sulla tastiera. «Ricordati Leonard, quando c'è una situazione di emergenza o vedi che una persona cattiva vuole farti del male, chiama il nove-uno-uno». Quando Leonard arrivò a metà del corridoio che separava il bagno dalla cucina, ebbe come un'illuminazione, un'idea tanto meravigliosa da non sembrargli possibile che fosse lui a pensarla. Riusciva ancora a sentire le bollicine che risalivano e picchierellavano la superficie dell'acqua, piccoli scoppi sommessi d'aria. Leonard si voltò. In quei momenti sembrò dimenticarsi del tutto del telefono.
Tornò indietro sui suoi passi, per verificare di persona la situazione. Era terrorizzato dall'idea che la nonna uscisse dalla vasca da bagno come un mostro delle paludi e lo cominciasse a rincorrere per tutta la casa, rimproverandolo per non aver chiamato il 911. Ma l'idea di vedere il mostro delle paludi, la donna proprietaria di quelle bambole inquietanti, sparire sott'acqua lo allettava, come quando sai di infrangere una regola, ma lo fai comunque perché ritieni che sia divertente, anzi... liberatorio. Quando Leonard guardò nella vasca, la nonna aveva già smesso di respirare. Il mostro era morto. Tutto ciò che vedeva era un'immagine scompigliata, luce rifratta dal passaggio dei fotoni tra due sostanze diverse. Una figura rosata in una coltre di liquido trasparente che non sembrava più acqua, ma una materia miracolosa, in grado di sconfiggere i cattivi. La nonna me l'ha detto: se vedi una persona cattiva, chiama il nove-uno-uno. Ma la nonna dice sempre che mi vuole bene, quindi perché avrei dovuto chiamare la polizia? Ma nonna è morta, era in una situazione d'emergenza. Perché non ho chiamato il nove-uno-uno? La nonna era cattiva... il bambino restò per ore a fissare la signora di mezza età nella vasca, priva di vita. Provava un senso di beatitudine all'idea di aver sconfitto la nonna. Non l'avrebbe mai più picchiato, mai più toccato. La polizia giunse solo un paio di giorni dopo, allarmata dai vicini dal pianto interminabile del bambino.
Quel giorno di fine settembre, Leonard, come sospinto, si avvicinò nuovamente a quella casa alla fine di Garden Street, attraversando le alte sterpaglie che erano cresciute intorno alla stradina lastricata di pietre che portava dal marciapiede alla porta d'ingresso. Vide un'anziana signora che lo guardava dalla finestra. Lo fissò per un attimo, poi svanì come in un trucco di magia. Pochi secondi dopo la porta d'ingresso si aprì all'improvviso, sbattendo con violenza e producendo un cigolìo inquietante, disintegrando le assi che la incerottavano. La vecchietta di prima si ergeva appena oltre la soglia. Le ricordava controvoglia sua nonna, quello sguardo di malizia che per anni aveva allenato per ammaliare gli uomini e farli finire nella sua ragnatela di seduzione. Glielo ricordavano in modo terribile le sue forme, il suo seno prosperoso e quei bigodini enormi. Però aveva due sostanziali differenze: era molto più vecchia (e con i capelli bianchi) e gli occhi avevano qualcosa di anormale. Gli occhi soprattutto, come cosparsi di un denso liquido nero, cadente a gocce sulle guance, come un trucco troppo pesante che cola dopo un lungo pianto. «Leonard, lo vuoi un biscottino? È fatto con pura carne umana! E se ti piacciono, potrai fartici una sega sopra. Ti aiuta la nonnina a farti una sega, anzi ti aiuteremo io e le mie bambole. Poi balleremo tutti insieme, o sì che ballerai e alla fine sarà tutta un'orgia. Un'orgia senza fine...». Leonard fu colto da convulsioni senza freno, dai piedi fino alla testa. La gola gli si era seccata e un nauseante odore di feci, panni impregnati da anni di fumo, bourbon e zolfo gli stavano bruciando i bronchi, costringendolo a colpi di tosse grassa, come se si fosse incastrato un piccolo bolo che non aveva più intenzione di uscire. Immobilizzato da quella visione e dal terrore più cupo, vide fare capolino dalla gamba di quell'anziana signora una bambola che gli era familiare. I suoi occhi si sgranarono e con un filo di voce disse: «Chucky...». Non gli era mai passata la fobia delle bambole. Una sera, Chris, Ed e Leonard avevano deciso di guardare un film. In camera loro avevano un videoregistratore e un vecchio televisore ancora funzionante, anche se non si vedeva alcun canale, ma non era colpa della tv. A Primestone non arrivava più il segnale da tempo ormai. Erano riusciti a farsi dare un film dell'orrore dagli inservienti, dopo settimane di preghiere da parte di Chris: Child's Play. Leonard non aveva idea che il protagonista fosse una bambola assassina di nome Chucky. Ed rimase per quasi tutto il tempo con il lenzuolo in testa, mentre Chris rideva a crepapelle. Leonard restò ammutolito a guardare il film.
Quella notte non chiuse occhio, per timore che Chucky potesse sbucare da sotto il letto e che lo potesse accoltellare. Cazzo Leonard, hai dodici anni ormai, come diamine fai ad avere paura delle bambole? Delle stupide bambole! «Ehi, Leonard, ti ricordi di me? Che ne dici di farti fare una sega da tua nonna? Se vuoi posso aiutarti io! Dai, vieni a ballare con noi Leonard, qui dentro casa è tutta un'orgia!». Leonard tremava così tanto che vedeva la casa vibrare tutta. Si diede uno schiaffo in faccia così forte che gli sgorgò una lacrima. Diede un urlo così forte che si convinse che si fosse sentito fin dentro il laboratorio nel monte Sik, da dove arrivavano tutti i medici, gli inservienti e le Guardie di Sicurezza. Fuggì a gambe levate, battendo così forte i piedi che sentiva il contraccolpo nella testa come un martello e sentiva i muscoli dei polpacci contrarsi e rilassarsi in modo frenetico. Sentiva i passi svelti e piccoli della bambola che provava a inseguirlo. «Leonard dove scappi? Non puoi fuggire, non c'è modo per fuggire!» urlò la bambola tenebrosa alle sue spalle. Leonard diede ancora più vigore alla sua corsa, con il cuore che gli doleva dalla fatica. A un tratto, non sentiva più alcun passo, ma risuonò una vocina: «una sega Leo, solo una sega». E sentì la risatina isterica della bambola. Non si fermò mai, fino a quando non tornò a casa, dove trovò Ed e Chris che stavano mangiucchiando degli snack presi al distributore. Guardò oltre la finestra, ma nessuno lo stava inseguendo. Ciò che vedeva era la solita atmosfera di abbandono della città. Quella notte, rigido come una lastra di ferro, con gli occhi schizzati verso la porta della camera, gli parve di udire una voce bisbigliare: «alla fine ballerai Leonard. Alla fine dei tempi, tutti balleranno».
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