CAPITOLO 3 (Parte 1)

L'ex municipio di Primestone appariva come un titano ancora dormiente alle prime luci di quella pallida e infreddolita giornata di dicembre. L'edificio si sviluppava su tre piani, all'ultimo dei quali si apriva una terrazza con una ringhiera bianca. Su di esso campeggiava un'enorme torre, che puntava verso il cielo come il dito di un bambino punta l'arcobaleno. Sulla sommità, un grosso orologio a fondo bianco e lancette di ferro battuto, enormi lance che producevano un sordo rumore metallico a ogni minuto e a ogni ora, scandiva il tempo. La torre era di un colore somigliante al marroncino del terriccio bagnato, mentre la facciata dell'edificio era un grosso e tozzo rettangolo, diviso con precisione millimetrica da otto enormi colonne di marmo a spezzare quel pallido color sabbia che dominava il resto. Anche quel giorno la cittadina era immersa nel pallore. Su di essa gravavano nuvole grigie e noiose, trasportate lentamente da un vento calmo, come un vecchietto che siede su una panchina e che non ha niente da fare, se non attendere il suo giorno. Sembrava però che nel cielo si stesse aprendo una ferita. Da quell'apertura, filtravano dei flebili raggi solari, che illuminavano il palazzo di un'opacità morente e riscaldavano i ragazzi radunati come ogni sabato sulla Piazza dei Caduti per dirigersi al laboratorio d'analisi. Tra questi c'era anche Jennifer, seguita a ruota da Taylor e Sophia. 

Ordinatamente, entrarono nell'edificio. I loro volti erano imbronciati e un po' tristi, una viva preoccupazione aleggiava sul viso di Jennifer. Il piano terra dell'edificio era un unico spazio aperto, diviso da grosse colonne color oro decorate con raffigurazioni di angeli, così come il soffitto e le pareti. Le colonne formavano un corridoio che i giovani mutanti attraversarono in fila, procedendo con ritmo funerario verso una porta in fondo alla sala. Come mossi da fili invisibili o dall'abitudine, i giovani camminavano, con le braccia lungo i fianchi, in religioso silenzio, come in un sentito e lungo pellegrinaggio. Il corridoio era sorvegliato da Guardie di Sicurezza con le loro scintillanti armature futuristiche e i loro "bastoni magici" (così venivano definiti dai ragazzini), mentre gli inservienti, vestiti di camicie bianchissime e pantaloni neri come il carbone, scrutavano quella fila ordinata come a cercare qualcuno in particolare. In fondo alla sala un uomo col camice (forse un medico, pensò Jennifer) reggeva una cartellina con un interminabile malloppo di fogli. Al primo della fila chiedeva il nominativo, scriveva qualcosa con la penna e poi lo faceva entrare. La porta venne aperta e così fu lasciata, ma tutto ciò che Jennifer riusciva a vedere era una parete grigia e una luce bianca. Lenta ma regolare, la fila si accorciava, e più si avvicinava a quella porta, più Jennifer veniva assalita dall'angoscia. Tremante, provò a voltarsi verso le sue compagne di stanza. Taylor, con il suo solito coniglietto di peluche, si guardava le scarpe, mentre il volto di Sophia appariva inespressivo. Jennifer la guardò, aspettando che dicesse qualcosa, ma Sophia non disse nulla, si capiva che era triste.

Jennifer si volse di nuovo e trasalì, poiché un inserviente le si era avvicinato. Aveva una cartellina con una serie di fogli e li osservava con minuziosa attenzione. Allo stesso modo poi osservò Jennifer. Le si gelò il sangue nel corpo e la pelle si accapponò, mentre il cuore batteva più forte. «Pittsburgh... Jennifer Pittsburgh, giusto?» chiese il giovane uomo, con uno strano broncio, come se avesse appena visto un alieno camminare in una fila di umani. «Sì», rispose timida la ragazza, con un tremolio sempre più vistoso e cominciando a strofinarsi il braccio sinistro, per la paura forse, o per il freddo di quella stanza dove il sole non batteva mai. «Bene, seguimi allora». L'uomo si mise di fianco e fece cenno con la mano di uscire dalla fila e di seguirlo. Per un attimo Jennifer credette che il respiro e il cuore le si fossero fermati. Aprì un poco la bocca e le sue pupille si dilatarono. Perché cercano me? Dove mi vuole portare? Perché solo io? Perché Sophia non mi ha detto niente? Jennifer avanzò con esitazione verso l'inserviente, che toccò con la cartellina la schiena di Jennifer, quasi a trascinarla e invitarla a darsi una mossa. 

Cominciarono a camminare a passo svelto (in realtà era Jennifer che seguiva l'andatura dell'uomo) e a quel duo si unì una guardia, che si posizionò alla sinistra della ragazza. Jennifer avvertiva dei brividi su tutto il corpo e si vedeva accerchiata in una situazione che le sembrava sempre più pericolosa. Guardò il resto della fila. Tutti i mutanti si voltarono verso di lei, per uno o due secondi, scrutandola con la coda dell'occhio di tanto in tanto. Eccola che va al patibolo! Chi è? Poverina. Odio essere spiata. In men che non si dica, la portarono verso una porta nascosta in fondo la sala, oltre una colonna. Era l'entrata di un ascensore. L'inserviente premette un pulsante, suonò un campanellino e le porte si aprirono. Mille pensieri balenarono nella testa di Jennifer. Ero così spaventata che non ho neanche più salutato Sophia e... Sophia lo sapeva che mi avrebbero chiamata? Dove mi stanno portando? Morirò oggi? L'ascensore scese di tre piani. La porta si aprì. 

A Jennifer parve di essere entrata in un mondo parallelo. Innanzi a sé si apriva un'enorme stanza (forse larga quanto tutta la pianta dell'edificio) con pareti metalliche e luci bianche da laboratorio, come in una sala operatoria. C'erano diverse postazioni con dei computer intorno al centro della stanza, lasciato libero per fare spazio a una vasca cinque metri per cinque, colma d'acqua. Alcuni uomini in camice bianco sedevano alle postazioni; altri quattro, insieme a tre donne vestite da infermiere, stavano in piedi intorno alla vasca, con delle cartelline in mano. Per diamine, hanno tutti delle cartelline in mano, ma cosa cavolo leggono! L'inserviente indicò alla ragazza di avvicinarsi al gruppo di adulti, mentre la guardia la scortava. Fu portata proprio davanti a uno dei quattro uomini. Gli altri tre, senza neanche degnarla di uno sguardo, andarono verso i computer, mentre le infermiere andarono dalla parte opposta, ma Jennifer non capì dove con esattezza. Tutta la sala era silenziosa, a tal punto che si sentivano solo i respiri ed era fredda, più fredda dell'esterno, notò Jennifer. L'uomo rimasto davanti a lei aveva dei batuffoli di capelli grigi ai lati, setosi, mentre era stempiato sul davanti, dove il cuoio capelluto luccicava. Portava degli occhiali squadrati con montatura nera e aveva uno sguardo assai severo. Jennifer rimase perplessa a contemplarlo, nell'attesa che dicesse qualcosa. E così fu.

«Tu sei Jennifer quindi, Jennifer Pittsburgh, interessante...». Alle parole dell'uomo, Jennifer rimase ammutolita, provando un senso d'imbarazzo, come se le avesse chiesto quando avesse avuto l'ultima mestruazione. «Io sono il dottor Richard Brandt, direttore di questa struttura... allora... tua madre era Alessandra Pittsburgh, nipote di Carol Pittsburgh, fondatore delle omonime industrie siderurgiche». La voce dell'uomo era piatta, come se stesse recitando una formula magica o stesse invocando una preghiera. E con la stessa voce fredda e priva di sentimento continuò nella sua disamina, come un robot programmato per andare avanti fino alla fine del programma. «Altezza centoquarantasette centimetri, peso trentatré chilogrammi, anni dodici... abilità mutante... psicocinesi... ho già avuto a che fare con mutanti con quel tipo di potere, ma il tuo...». A quel punto, l'uomo emise un fischio di stupore. «Per bacco figliola, hai la forza latente per poter uccidere con facilità un uomo, per fortuna che siete imbottiti di arsenico!» sentenziò l'uomo, lasciandosi poi andare a una fragorosa risata che risuonò per tutta la stanza. Nessuno degli operatori presenti emise un suono, come quasi in uno stato d'indifferenza. 

«Jennifer, la vedi quella vasca alle mie spalle?». La ragazzina mosse la testa di poco verso destra, a osservare quel tetro stagno d'acqua, immobile e silenzioso, che sembrava celare un coccodrillo affamato. «Quella, Jennifer, è una vasca di deprivazione sensoriale, è perfetta per chi ha poteri simili ai tuoi. Faremo un test con quella oggi. Sai a cosa serve?». Jennifer fissò l'uomo e appena oltre i suoi occhiali vide quegli occhi di ghiaccio, inespressivi come in un ritratto cubista. I peli su tutto il corpo le si drizzarono. «No, signore». «Non chiamarmi signore, Jennifer, chiamami Doc». Jennifer fece un cenno affermativo con il capo. «Comunque... una vasca di deprivazione sensoriale serve a portare la mente di una persona in uno stato di coscienza alterato, fuori dalla realtà, per così dire. In particolare, questa vasca è stata raffreddata con ghiaccio secco ed è riempita con sali di magnesio e un mix di funghi allucinogeni...». Il dottor Brandt utilizzò una serie di interminabili termini tecnici che a Jennifer parvero come un antico e incomprensibile linguaggio perduto nel tempo. Si isolò dal mondo al punto che le parole di Doc le parvero sempre più distanti, come un treno in stazione che si allontana. Il suo flusso di pensieri, un miscuglio di ansie, paure e preoccupazioni, fu interrotto da due uomini del laboratorio. «Bene Jennifer, ora spogliati». Jennifer guardò il dottor Brandt con aria d'imbarazzo e viva preoccupazione. «Tranquilla Jennifer, non devi metterti nuda. Avrai l'intimo addosso, ma solo quello». Jennifer, tremolante, cominciò dalle scarpette. Restò solo in mutande e con un toppino rosa a coprirle il piccolo seno. Doc la fissava come quando qualcuno vede un animale esotico dal vivo per la prima volta. Animale. Cavia.

Tutti i suoi indumenti furono raccolti dagli uomini ai suoi lati, che lasciarono poi lo spazio a tre infermiere, che nel frattempo avevano posizionato alle spalle della ragazza un lettino e un carrello di metallo, con sopra una serie di strumenti, tra cui dei lacci emostatici, una serie di siringhe e piccole boccette di vetro con liquidi sconosciuti all'interno. «Somministratele del dimercaprolo, meglio abbondare, tanto questi stronzetti hanno dei corpi formidabili. Poi le fate un paio di prelievi di sangue e infine una biopsia del midollo... forza, forza, non abbiamo tutto il tempo del mondo!». Le infermiere fecero sedere Jennifer sul lettino e seguirono con gran precisione e determinazione tutte le indicazioni che erano state fornite loro. Prima le somministrarono uno strano liquido giallognolo ("DIMERCAPROL" riportava l'etichetta), poi le prelevarono del sangue, prima al braccio destro e poi a quello sinistro. Jennifer sbiancò e distolse lo sguardo puntando i piedi. Le due infermiere la presero per le braccia e Jennifer si spaventò. 

«Sta tranquilla tesoro, ti facciamo solo un'anestesia locale. Non sentirai più le gambe, ma tranquilla, passa in pochi minuti. Ti preleviamo un po' di sangue dal midollo e poi ti mettiamo distesa, ok?» disse una delle infermiere con voce calma e rassicurante. Jennifer annuì, ma iniziò a sudare freddo. Un'infermiera alle spalle di Jennifer le piantò un ago nella parte lombare della schiena. L'ago non faceva male, ma le procurava fastidio, tanto che Jennifer dovette stringere i denti. Nel giro di un minuto, sentiva le gambe leggerissime, come fatte di gas, poi perse del tutto la sensibilità. Si agitò un po'. «Ora ti facciamo il prelievo» disse l'altra infermiera. Alle sue spalle sentì entrare un secondo ago, poco più in alto di prima. Ma questo era più grosso, le fece un po' male e le dava una sensazione di fastidio così forte che provò leggeri conati di vomito. Si irrigidì tutta, strinse il lenzuolo del lettino con entrambe le mani e gonfiò il petto. «Stai calma» cercò di rassicurarla una delle infermiere. Terminato il prelievo (Jennifer sentì in modo distinto il liquido che le veniva prelevato), avvertì un tampone d'ovatta che le veniva applicato con delicatezza per pulire la ferita e fu fatta distendere. Le due infermiere la aiutarono a sollevare le gambe del tutto paralizzate.

«Benissimo, in genere questa anestesia dura trenta minuti, ma a te basteranno quindici minuti Jennifer... dimmi quando senti le gambe» le disse il dottor Brandt, con la sua solita voce fredda e robotica. Passarono appena cinque minuti, ma Jennifer già era in grado di muoverle. In quell'interminabile intervallo di tempo aveva tenuto con costanza e preoccupazione le mani sulle cosce, nel timore che non le tornasse più la sensibilità. «Doc... posso... muovere le gambe». L'uomo guardò la minuta ragazzina stupita, l'orologio con il cinturino di cuoio che aveva al polso e poi fissò gli altri medici e le infermiere con un cenno di stupore e soddisfazione. «Cinque minuti, che mostri!» sussurrò Doc, parole che arrivarono a Jennifer come un farfuglio non comprensibile. «Riesci a camminare, Jennifer?» chiese uno dei medici. «Credo di sì» rispose la ragazzina con voce bassa. Jennifer si alzò e poggiò i piedi a terra. Sentiva le gambe tremolanti e calde, ma riusciva a camminare. «Perfetto Jennifer, ora ti farò una domanda e tu dovrai rispondermi in modo corretto. Cosa sei?». Jennifer fissò stranita Doc. Cosa sei? Forse vuole dire chi sono? Ma lo sa già chi sono. La ragazza fu assalita da mille dubbi e un'esitazione tremenda le pervase la mente e tal puntò che cominciò a balbettare. «P-p-p-può rip-p-petere la do-o-omanda?». «Ti ho chiesto cosa sei, Jennifer». Quelle due parole, pesanti e tetre, furono caricate di una sottile ma ostile enfasi. «Io... sono... Jennifer». La ragazzina pronunciò il suo nome così a bassa voce che a stento Doc riuscì a percepirlo. «Hai detto che sei Jennifer? Piccola... ti ho chiesto cosa, non chi... eppure mi sembri una bimba sveglia... mi dispiace, ma la risposta è errata». Il volto di Doc fu solcato da un sorrisetto malvagio, carico di soddisfazione, un piacere macabro nel conoscere ciò che sarebbe successo di lì a pochi secondi dopo. 

«Procedi!». Alle parole del dottore seguì uno schiocco nell'aria. Jennifer cacciò un urlo di dolore. Avvertì un bruciore e un dolore forte alla schiena. Una Guardia di Sicurezza l'aveva colpita con una frusta, provocandole una ferita. Jennifer cadde in ginocchio. Impallidì e cominciò a piangere. «Riproviamo Jennifer... cosa sei?». La ragazza fu assalita dal panico. Cosa devo rispondere, cosa devo rispondere? «Non conosci la risposta Jennifer? Allora... procedi!». Un secondo schiocco fece vibrare l'aria e un'altra frustata colpì Jennifer, che finì a pancia sotto sul pavimento gelido. Aveva la pelle d'oca su tutto il corpo e cominciò a battere i denti a causa della temperatura e dal dolore. «Jennifer, perché non rispondi alla domanda? Cosa sei!?». Jennifer si sentì affogare dalla paura e urlò, presa da una disperazione che cresceva come un piccolo male. «Non lo so! Credo una persona, ma non lo so!!!».

Doc rimase in silenzio per qualche attimo e con voce severa pronunciò per l'ennesima volta la parola che Jennifer stava imparando a odiare: «procedi». Un terzo colpo la raggiunse. Stremata dal dolore si distese al suolo. La schiena le bruciava come se dei tizzoni ardenti la stessero tormentando. Un fiume di lacrime le sgorgava e il singhiozzo bloccava la sua gola, mentre il moccio le colava dalle narici. «Potevi dirlo fin da subito che non lo sapevi... allora te lo dico io cosa sei, Jennifer, tu e tutti gli altri... siete animali, per la precisione cavie... cavie, Jennifer... hai capito ora? Ripeti insieme a me... io sono una cavia... ripetilo!». Jennifer sollevò il capo di quel tanto che bastò per riuscire a guardare i piedi dell'uomo perfido che le era di fronte. «Cavia...». «Alza la voce Jennifer, non ho sentito!». «Cavia». «Jennifer, maledizione, dimmi cosa sei!». «Cavia!». «Più forte!». «Cavia!!!». «Di più Jennifer!». «CAVIA!!!». «...esatto figliola, voi non siete umani, ma cavie. I vostri genitori, i vostri parenti erano o sono bestie, ladri, assassini, ricettatori, stupratori, pedofili, tossici, alcolizzati e vi hanno trattato come rifiuti. Se non fosse per noi, a quest'ora sareste in un orfanotrofio a mangiare spazzatura e a farvi torturare, oppure sareste in mezzo a una strada a morire di fame, tra le merde come voi, o morti e i vostri corpi portati a marcire in qualche obitorio di periferia, dimenticati dalla burocrazia e dal mondo. Ma noi vi abbiamo dato una funzione... nonostante quello che la società e i vostri stessi parenti pensano di voi, noi abbiamo visto del potenziale, dell'utilità. Come dice un uomo che conosco, "la conoscenza è l'arma più potente del mondo". Grazie ai vostri doni, potete ancora dare un contributo al mondo, a quello stesso mondo che vi ha rifiutati. Perché? Voi avete ricevuto un potere, ma quel potere ha un prezzo, deve essere messo al servizio degli altri e questo è il vostro scopo, lo scopo che noi vi abbiamo concesso... noi vi diamo il permesso di vivere e voi fate da cavie per la prosperità della razza umana, non mutante, umana...». Dopo quelle parole, l'atmosfera sembrava ancora più gelida. Jennifer si sentì mancare e avvertiva il calore del sangue fuoriuscire dalle ferite aperte scorrerle fino al fondoschiena e macchiare le sue mutandine. «Bene, bene... ora che abbiamo fatto la lezione a Jennifer, medicatela e iniziate i preparativi con la vasca».

Passò qualche minuto. La schiena di Jennifer era tappezzata di grossi cerotti che le coprivano quasi del tutto la pelle. Le sue lacrime erano svanite, ma il suo viso paonazzo mostrava ancora i segni del recente pianto e piccole rughe di dolore. Stava seduta su una sedia scintillante alla luce del laboratorio. Le avevano fatto indossare una cuffia con dei piccoli elettrodi tondi che poggiavano direttamente sul cuoio capelluto, poiché le avevano appena rasato i capelli. Si sentiva come privata di una parte del suo corpo. Non mi guarderò mai più allo specchio. Intanto, nella parte posteriore della vasca, al centro della sala, era stata portata una piccola gru su ruote. Jennifer fu fatta alzare e le fu messo in testa un grosso casco, simile a quello dei palombari, ma trasparente. Le ricopriva tutta la parte superiore del busto ed era molto pesante, al punto che le spalle le facevano male. 

Un operatore aprì una piccola botola sulla sommità del casco e collegò uno spinotto della cuffia di elettrodi a un altro spinotto. Questo fuoriusciva da un tubo nero, di un materiale simile alla plastica, del diametro di circa cinque centimetri, parecchio lungo, e collegato a un grosso carrello verde acqua, che aveva una serie di quadranti, pulsanti e leve ed era circondato da grosse bombole d'ossigeno. Il tubo poi le fu avvitato alla sommità del casco e le fu assicurata al busto e alla vita un'imbracatura grigio scura con una serie di strappi per tenerla ancorata al corpo. La piccola gru si mosse con estrema lentezza e fu abbassata verso Jennifer. Fu agganciata a un gancio sulla schiena. Doc le si avvicinò.

«Jennifer, prima di procedere con il test devo farti una domanda... ieri sera le telecamere a infrarossi ti hanno ripreso uscire nel cuore della notte e ti hanno vista dirigerti verso la collinetta alle spalle di questo edificio. Dove sei andata? Sembrava... che stessi seguendo qualcuno». Jennifer rabbrividì. Aspetta, se hanno visto me hanno visto anche quello là. Ma perché non ne parla? Perché mi chiede chi stessi seguendo? È una domanda a trabocchetto?

«Vedi, la cosa strana è che quando camminavi le luci si accendevano per poi spegnersi subito dopo il tuo passaggio... ti abbiamo vista poi correre verso il dormitorio... per caso hai visto qualcuno o qualcosa Jennifer?». La ragazzina fissò l'uomo negli occhi e restò immobile per qualche secondo. «No Doc... non ho visto nessuno. Vede, io soffro d'insonnia e quando ho capito dove mi trovavo, mi sono spaventata e sono corsa via». Doc la guardò con aria rigida, poi all'improvviso le sorrise. «Capisco... va bene, cominciamo con il test». Non se l'è bevuta, lo so, l'ho capito dal suo sguardo. Eppure non ha insistito. Cosa voleva sapere? Sa qualcosa forse?

Fu tirata su dall'argano. Jennifer si sentì di nuovo sopraffatta dalla paura, accentuata da quel senso di vertigine. Fu fatta muovere fino al centro della vasca. La carrucola poi cominciò ad abbassarsi. Il Doc la osservava scendere incuriosito e parlava a un suo collega. «Le frustate servono anche a far innalzare il loro livello di stress, in questo modo avremo dei risultati migliori sulle prestazioni della nuova vasca di deprivazione sensoriale». Quelle parole arrivarono anche a Jennifer, ma ovattate e per lei avevano ben poco significato. Non appena le dita dei piedi furono immerse, brividi di freddo le corsero lungo il corpo seminudo e tremò a tal punto che sembrava avesse le convulsioni. Ma la gru non si fermò, immergendola del tutto. Le sembrava le mancasse il respiro e che dovesse svenire da un momento all'altro. Il corpo le si era irrigidito come una tavoletta d'argilla, ma i suoi sensi furono interrotti da una voce che le parlava dagli altoparlanti dentro al casco. «Jennifer, sono il dottor Brandt. So che hai freddo, ma è importante che tu chiuda gli occhi e ti rilassi. Gli allucinogeni presenti nella vasca faranno effetto e ti faranno perdere la percezione della temperatura». La ragazzina notò che quella voce così malvagia le sembrava ora serena e si tranquillizzò. Chiuse gli occhi e un senso di euforia crebbe dentro di lei. Si sentiva libera e leggera come un gabbiano che sorvola un mare piatto e cominciò a ridacchiare. Non avvertiva più neanche il dolore alla schiena e nemmeno il peso del casco. «Bene, ora le stimoleremo specifiche aree del cervello e vedremo come reagisce».

Buio. Di nuovo. Oscurità. Mondi antichi, sconosciuti e perduti si estendono al di là della mente, al di là di ciò che si vede e di ciò che si crede. Presenze nere, che si annidano e strisciano come serpenti, nell'assenza di luce, e crescono, come spore, infettando, mangiando voraci e ballando senza sosta, antichi sogni e pestilenziali incubi assecondano cose che a questo Mondo non esistono e mai dovrebbero esistere.

Jennifer aprì gli occhi e si ritrovò ancora al buio. Galleggiava sospesa nello spazio vuoto, avvertendo la sua presenza ma non il suo corpo. Dopo qualche secondo di assordante silenzio sentì i piedi poggiare su un sottile strato d'acqua fredda. L'aria diventò pestilenziale, permeata da un tanfo di zolfo e una lieve luce fucsia proveniva da un punto non precisato di quel buio infinito. Oh, no!

Jennifer sentiva qualcosa, il masticare in lontananza. Sembrava impastare qualcosa di morbido, viscido e flaccido e un grugnito si sentiva arrivare. In un attimo si trovò ai piedi di una collina, illuminata da quella luce diventata più forte, circondata da fusti di metallo scoperchiati e che sembravano vuoti. Emanavano un odore di vomito, sterco e zolfo. Jennifer si tappò la bocca e dovette usare tutta la sua forza di volontà per non rimettere. Vide qualcosa rotolare dalla cima della piccola montagna e avanzare verso di sé. Si avvicinò titubante a quell'oggetto che si era fermato a pochi passi da lei, come frenata dal suo stesso istinto, che le implorava di non proseguire. Diede uno sguardo ed ebbe un sussulto. Era un teschio umano, cosparso di vermi e blatte. «Che schifo!». Quel masticare cessò. Un grosso essere sbucò dalla montagna, con respiro affannato. Solo la parte davanti si poteva vedere, illuminata da quella luce psichedelica. Enormi zampe anteriori, lunghe e affusolate, quasi ossute, terminavano con tre enormi artigli, uno dei quali più lungo degli altri. I gomiti della creatura sporgevano verso l'esterno a formare un angolo acuto. Della testa invece non si vedeva nulla, eccetto un'indistinta macchia nera e due sfere fucsia fosforescenti, la fonte di quella luce.

«Cosa Ci Fai Qui Jenniferrrr? Co-Me Hai Fat-To Ad Andare Così In Profondità? Questo È Il Mio Do-Mi-Nio, Non Il Tuo... Sparisci!»

La creatura spalancò delle enormi fauci, prima assenti, strapiene di denti aguzzi, enormi costole ricurve e sporche. Un gorgo. Un punto nero. Cos'è quel tunnel in fondo alla sua gola. Primestone? La città di Primestone è nella sua gola?

Jennifer tornò alla realtà. La strizza l'assalì e lanciò un urlò di spavento. L'acqua della vasca cominciò a formare grosse bolle e a gorgogliare. «Che succede?» disse il dottor Brandt con stupore e preoccupazione martellanti. «Sollevatela presto! Quali aree del cervello le avete stimolato!?». «La corteccia cerebrale!» rispose uno dei medici. Jennifer fu sollevata ed emerse. Aveva gli occhi chiusi e urlava in preda al panico. «Presto, portatela a terra!». Ma non ci fu tempo. Il casco andò in frantumi come un bicchiere di vetro, così come l'imbracatura, mentre un vento di tempesta si scatenò dalle membra di Jennifer. I suoi occhi erano illuminati di una luce celestiale, bianca, così vigorosa da illuminare a giorno l'intera stanza. A confronto, le lampade sembravano lucciole nella notte più buia. La gru cominciò ad allontanarsi a causa della forza del vento che spezzò il cavo che teneva appesa Jennifer, ma la ragazza restò comunque sospesa in aria. Quel turbine spazzò via i computer e le scrivanie e scaraventò a terra tutti i medici e le guardie presenti in sala. Il dottor Brandt fece tre capriole prima di restare disteso al suolo, spiaccicato dall'immane forza di quell'uragano di forza mentale. «Mostruoso, mostruoso! Magnifico, magnifico!». L'urlo di Jennifer faceva tremare l'aria e le pareti come un terremoto violento. L'intero ex municipio cominciò a tremare dalle fondamenta alla torre, creando piccole spaccature e frantumando i vetri. All'improvviso smise di gridare e cadde in acqua da sei metri, priva di sensi. «Presto, recuperatela!».

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