CAPITOLO 2 (Parte 4)

Quella sera a Jennifer Pittsburgh accadde una cosa terribile, come se essere rinchiusa in una città fantasma, anzi «deserta» (ricordando le parole di Sophia di quella stessa mattina, perché i fantasmi non esistono... forse), circondata da mura alte e invalicabili, costretta a orari rigidi, in mezzo a bulli tremendi e a strane guardie uscite da un film di fantascienza, non fosse già abbastanza distruttivo per la mente di una dodicenne. Se ne stava a fissare il pallido muro, mentre Sophia provava con le cattive a mettere a letto quella peste scatenata di Taylor, dopo un'autentica lotta per chi dovesse andare per prima a lavarsi in bagno. La loro porta era già ben chiusa e a momenti sarebbero scoccate le 22, l'ora del coprifuoco. Sophia l'aveva rassicurata che le luci del dormitorio sarebbero rimaste accese e la televisione della stanza funzionante. Solo le luci delle strade si sarebbero spente, gettando un'ombra nera su Primestone. Per la gioia di Sophia, Taylor si era messa a dormire con il suo coniglietto di peluche e la ragazza dai fiammeggianti capelli si accingeva a fare lo stesso. «Notte Jennifer, a domani» pronunciò Sophia sbadigliando. «Notte» rispose Jennifer con voce fioca. Le parole della compagna in quel frangente gli sembravano come provenire da un luogo lontanissimo e irraggiungibile. La stanza aveva quattro letti e, guardandola dalla porta d'ingresso, da sinistra verso destra, il primo era vuoto, sul secondo dormiva Taylor, sul terzo Sophia e l'ultimo era di Jennifer. Dalla parte opposta rispetto al letto di Jennifer c'era il bagno. Taylor aveva paura del buio, per questo Sophia era riuscita a farsi dare una piccola lucina arancione da attaccare alla presa di corrente vicino allo specchio. Emanava una luce opaca, abbastanza debole da non disturbare il sonno, ma abbastanza forte da permettere di vedere quando si scendeva dal letto per andare al bagno ed evitare che un malcapitato mignolo urtasse contro qualche spigolo. Jennifer fissava ancora la parete bianca, poco alla sinistra del televisore. Era seduta sulle pesanti coperte, con le gambe chiuse verso il petto. Aveva freddo e sudava... freddo. Non fissava la parete perché volesse davvero farlo, ma perché aveva la sensazione (alquanto bizzarra, ripeteva come un pappagallo nella sua testa) che fosse la parete a fissarla. Per tutta la giornata non le era mai passato quel formicolio alla schiena, quella sensazione di sentirsi spiata. Convintasi che non valeva indugiare ancora sul problema, decise di mettersi sotto le coperte e di chiudere gli occhi. Col senno di poi, non lo avrebbe mai fatto, almeno per quella sera, anche se per molte sere non avrebbe dormito.

«Toc, toc» sentì risuonare nella sua mente, come se qualcuno le stesse sussurrando nell'orecchio. «Per caso ti va di ballare?». Gli occhi le si aprirono con violenza tale che le palpebre vibrarono prima di assestarsi. Aveva le gambe paralizzate, ma allo stesso tempo tremanti, pesanti come ceppi bagnati. Il suo busto scattò in avanti come una molla e d'istinto fissò la parete poco sopra a sinistra del televisore, la stessa che stava fissando prima di addormentarsi. L'orologio posto sopra segnava le tre. Jennifer aveva ancora più freddo di quanto non ne avesse prima. Era come se qualcuno stesse riempiendo con dei cubetti di ghiaccio il suo materasso. Provò a pronunciare un suono, una parola, un grido, ma le sue corde vocali non rispondevano. Dalla porta socchiusa della stanza (ma non era chiusa?), una sinistra luce lunare proiettava una striscia sul pavimento, illuminando in parte i piedi del letto di Sophia, che intanto russava come un piccolo soffietto bucato. E, come nel peggiore degli incubi, una mano nera, ossuta, fece la sua comparsa aggrappandosi alla porta. Jennifer rimase paralizzata. La mano ruotò e sollevando l'indice, fece segno di avvicinarsi. Che pensa, che sono scema? Col cavolo che vengo da te! Ma Jennifer si accorse di essere già in piedi davanti alla porta. Ma come... perché sono in piedi? Perché sono qui?

La porta, producendo un cigolìo acuto e fastidioso, si aprì del tutto. Oltre il corridoio era ben visibile la luna piena, alta nel cielo, che illuminava la piazza antistante al dormitorio. Jennifer mosse qualche passo in avanti, ritrovandosi nel bel mezzo del corridoio, rivolta verso le scale che portavano ai piani inferiori. Il suo corpo, la sua anima, erano come dominati da una forza invisibile. Perché? Perché? Non voglio avanzare, non voglio andare. Sopra la sua testa, una sola lampada era accesa, mentre le altre presenti nel corridoio erano spente. Davanti a lei, con sua grande sorpresa, le dava le spalle una figura umanoide, ombrosa e nera. Era sottile, con braccia e gambe lunghissime e spalle strette e minute. Era alta quasi fino al soffitto e la sua testa cambiava sempre forma, prima quadrata, poi a rombo, poi circolare e infine ovale. Sto impazzendo... sto senza ombra di dubbio impazzendo... «Andiamo Jennifer... ti stanno aspettando» sussurrò quella strana e indefinita figura, con una vocalità che prima le sembrava un ruggito, poi un grugnito, poi un barrito, un gracidìo e infine una voce umana. L'essere cominciò ad avanzare e, come per imitazione, come una marionetta, Jennifer avanzò allo stesso modo. Sentiva i suoi passi, i suoi nudi piedi calpestare il freddo linoleum, ma nessun suono proveniva dai piedi dell'ombra di terrore. Al passaggio della ragazza, una lampada del corridoio si accendeva, mentre quella dietro si spegneva. Sentì il mostro fischiettare, ma le parve subito strano. Si aspettava che il suono si propagasse come un'eco per tutti i piani. Invece era come se quello là fosse circondato da una bolla non visibile. Potevi sentirlo parlare, ma solo chi guardava poteva udirlo, perché il suo suono non andava oltre le curve taglienti del suo corpo. Urla Jennifer, urla! A costo di svegliare tutto il dormitorio, urla, che aspetti! Ci provò più e più volte, ma ogni tentativo fu vano.

E in men che non si dica, si ritrovò innanzi al grosso portone d'entrata della struttura che era già spalancato, nonostante gli addetti lo avessero chiuso appena tutte le ragazze erano rientrate dopo la cena. La luna pareva più grande, al punto che sembrava dovesse cadergli addosso da un momento all'altro. I raggi illuminavano le sagome dei palazzi circostanti, rendendoli ancora più inquietanti di quanto già non fossero. La ragazzina volse ancora lo sguardo su quell'essere indecifrabile, ma notò che la luce del satellite non lo colpiva. Era come se assorbisse la luce, senza rifletterla, come se i raggi si fermassero prima di toccarne il suo corpo. Quella bestialità ciondolava le spalle a destra e a sinistra e muoveva la testa allo stesso modo. Sembrava avesse le articolazioni molli e si muoveva come se gli mancassero delle ossa. Jennifer continuava a non sentire il proprio corpo, fatta eccezione per il freddo umido sotto i piedi.

Attraversarono la piazza costeggiando l'ex-municipio e salirono sulla collinetta retrostante. Il monte Sik, nel cuore della notte, pareva un gigante dormiente con la testa a punta; i palazzi di Primestone sembravano costruzioni giocattolo, impilate in modo casuale e inghiottite dal mare della notte e tenute a galla ancora una volta dalla luce riflessa della luna. Proseguirono il loro cammino ben oltre l'altura per circa venti minuti, che a Jennifer parvero vent'anni. Non avvertiva più alcuna sensazione, se non uno stato di confusione e paura che forse mai aveva avuto prima in vita sua. Le sembrava di non respirare da parecchio e che il suo cuore avesse smesso di battere. Percepiva appena il suo corpo come qualcosa di etereo e le sembrava di avere smarrito l'udito. Sentiva un aspro sapore di zolfo che le impastava la lingua, le narici e i bronchi. Alla fine, raggiunsero un boschetto che si trovava poco prima del fiume Derrick. Sembrava uno di quei luoghi che si vedono nelle fiabe con la strega che vive tra tetri alberi. Le gambe di Jennifer da ultimo si arrestarono, mentre l'essere sembrò essere inghiottito dall'ostilità del posto. La fanciulla guardò fisso quel meandro di orrori non descrivibili e un paio di figure, una più piccola e una più grande, si palesarono. Sotto il vestito bianco, la loro pelle appariva come cosparsa di minuscoli diamanti che riflettevano la luce della notte come stelle nel cielo. Erano una donna e una bambina che si tenevano per mano.

«Ciao Jennifer» disse la donna. «Ciao sorellina» proseguì la bambina, con un grazioso sorriso. «Mamma? Jaimie? Ma voi... ma voi siete...». «Non dirlo, tesoro caro». La donna le indicò di fare silenzio, con dolcezza, amorevole come solo una mamma sa fare, quando vuole placare un figlio che non riesce a darsi pace. «Vuoi venire a ballare con noi?». La vocina della bambina era irresistibile. «A ballare?» chiese timorosa e spaventata sempre di più la ragazza dai capelli corvini. «Sì, tesoro della mamma, a ballare... vedrai cose mai viste, cose che vale la pena vedere. Vedrai la Stanza e vedrai il Giusto. Vedrai cos'è la menzogna e cos'è la Verità. E ballerai... oh, sì che ballerai... sarà una danza senza fine. Qui è tutta un'orgia Jennifer, è tutta un'orgia e la Stanza gira... qui gira e balla tutto Jennifer... non credi alla tua mamma? Sciocchina, la mamma non ti mentirebbe mai...». «È tutta un'orgia, è tutta un'orgia!» urlò festante la bambina. Ma una voce nell'animo di Jennifer, nell'angolo più nascosto e remoto, picchiava forte, così forte che anche da lontano se ne potevano avvertire le vibrazioni. Orgia? Ballare? No... non sono mamma e Jaimie... la menzogna è davanti a me... questo è solo un sogno, il mio sogno di rivederle in vita... ma la realtà è un'altra...

Fissò la madre e la sorella, poi spostò lo sguardo su un punto appena sopra la testa di sua mamma, nell'oscurità del bosco. Acuì la vista e, come in un'apparizione improvvisa, vide galleggiare in aria due palline fucsia fosforescenti. Tali luci provenivano da una sfera che, nonostante il buio, appariva in tutti i suoi contorni. Un ghigno minaccioso segnava quel volto amorfo, una bocca enorme con una fila di denti infinita, serrati come chiodi in un pezzo di legno, aguzzi aghi gialli e sporchi, ricoperti di macchioline di sangue, melma e feci. Jennifer lo fissò per qualche secondo. Dal volto della bestia svanì lesto quel ghigno e a Jennifer parve che sollevasse un sopracciglio, un sopracciglio che non aveva. Un'espressione di stupore sembrò colpire il mostro, come uno schiaffo inaspettato.

«Ma Co-M'È Possibile... Come Fai A Ve-Der-Mi Contro La Mia Vo-Lon-Tà? Una Scim-Mia Non Potrebbe... No-Te-Vo-Le... Jennifer, Sai Co-Sa Succede Quan-Do Capiamo Che I No-Stri So-Gni Non Si Realizzeranno? Semplice... Diventano Incubi!!!».

L'ultima parola del mostro fu così carica di rabbia che la terra sotto i piedi della ragazza tremò. Jennifer, come quando viene rotto un incantesimo, tornò alla normalità delle sue funzioni e tutti i suoi sensi le sembravano fossero tornati a funzionare, ma non c'era tempo per festeggiare. Un odore pestilenziale pervase l'aria. Zolfo, terra bagnata, cadaveri in decomposizione e letame. La sorella di Jennifer cadde a terra come una statua di sabbia e fu spazzata via dal vento. L'ombra della madre invece gettò la testa all'indietro, così tanto che la schiena quasi sfiorava il terreno, e dilatò la bocca in maniera smisurata, come un grosso boa che cerca d'ingoiare la sua preda. I muscoli di Jennifer si erano paralizzati. Scappare le sembrava l'unica opzione, ma le gambe ancora una volta non rispondevano ai suoi comandi. La bocca della donna vestita di bianco si era allargata a tal punto da coprire tutto il volto. Ne uscì un braccio e poi una testa, poi l'altro braccio ancora e infine tutto il corpo. Era un grosso uomo, nudo, ricoperto di una spessa bava bianca, con un enorme pancione e una barba folta. Cadde di schiena producendo un pesante tonfo. La madre di Jennifer esplose come un palloncino, producendo una miriade di filamenti neri, simili a fili di lana, che si posarono a terra con delicatezza. Intanto l'uomo si sollevò e mostrò alla ragazza uno sguardo minaccioso, con i suoi occhi neri.

«Ciao puttanella, ti sono mancato!?». Papà! L'incubo peggiore di Jennifer, suo padre. La ragazzina a quel punto scagliò un urlo fortissimo. Si voltò e cominciò a correre. Sentiva il cuore alla gola e il fiato fuoriuscire come un compressore. «Dove vai Jennifer, ti devo castigare!? Ti piace fare la puttanella!? Allora falla con tuo padre!». L'uomo cominciò a inseguire Jennifer. La fanciulla attraversò la collinetta in direzione del dormitorio, veloce come un ghepardo. All'improvviso chiuse gli occhi, in un impeto di coraggio. Non può essere vero, non può essere vero. Sentiva i pesanti passi del padre avvicinarsi sempre di più. Le gambe le dolevano, indolenzite dal freddo e dalla tensione. Mi prenderà, mi prenderà... no... non accadrà. È solo un incubo, non è reale, lui non può essere qui... io sono padrona della mia mente e questo è il mio Dominio... questo è il Dominio della Mente, qui nessuno può farmi del male, nessuno, neanche mio padre e nessun mostro è peggiore di lui, sono al sicuro... Dominio della Mente... Dominio della Mente... Dominio della Mente. Jennifer sentiva i piedi bagnati, come immersi in uno strato d'acqua gelida. Aprì gli occhi. Era ferma e intorno a sé era buio. Riusciva a vedere il suo corpo, ma null'altro. Non un suono, non un rumore, non una sensazione. Questa non è la mia mente. Questa è la mente di quello là, anzi una parte della sua mente, quella più in superficie. Si voltò dietro, un dietro che non esisteva. Due grosse sfere fucsia si stagliavano in quel mondo oscuro, senza il sotto e senza il sopra, senza la sinistra e senza la destra, come due piccole lune.

«Il Tuo Po-Te-Re È Impressionante... No-Te-Vo-Le... Una Scimmia Che Rie-Sce Ad Ar-Ri-Va-Re Fin Qui... Nessuno C'era Mai Riuscito... Nessuno... Spe-Cia-Le...»

«Chi sei?» chiese convinta la ragazza, ma nessuna risposta arrivò. «Cosa vuoi?». Ma neanche a quella domanda fu data risposta alcuna. Jennifer si arrabbiò e il suo sguardo si fece cupo. «Se non mi vuoi rispondere, bene, non mi interessa! Ma lasciati dire una cosa: smettila di osservarmi di nascosto, non entrare nei miei sogni e non dare fastidio agli altri ragazzi! Se c'è una cosa al mondo che non riesco a sopportare è quando qualcuno mi osserva in quel modo malevolo, come fai tu! Smettila di guardarmi! Smettila di osservarmi! Non te lo ripeto più! La devi smettere, la devi smettere, basta!!!»

Gonfiò il petto, allargò le braccia e strinse gli occhi così forte da farsi male. Un vento come di uragano alle sue spalle accompagnò il suo grido liberatorio. Quella immonda oscurità fu spazzata via, lasciando al suo posto un bagliore fortissimo e accecante, una luce bianchissima e avvolgente.

«IMPOSSIBILE!».

Riaprì gli occhi. Si ritrovò sulla collina, in direzione del bosco, con il vento che le soffiava tra i capelli, sotto il flebile bagliore della luna piena, con il petto gonfio e le braccia aperte come per stringere a sé una persona cara. Di suo padre neanche l'ombra, così come sua madre e sua sorella. Il mondo sembrava essere tornato alla normalità, ma non indugiò ancora. Riprese a correre a perdifiato e in men che non si dica varcò la porta d'ingresso del dormitorio. Incrociò le braccia e la porta si chiuse impetuosa, producendo un boato acuto. Salì le scale tre alla volta, illuminate dalle vecchie lampade dell'edificio. La porta della sua camera era semichiusa. Entrò nella stanza e chiuse la porta con delicatezza e con un lieve cigolìo la serratura fece il suo lavoro. La piccola luce arancione del bagno era accesa e Taylor e Sophia stavano ancora dormendo. L'orologio segnava che da poco erano passate le quattro. Quasi si lanciò nel letto e, tremante ancora per l'adrenalina in circolo nel corpo, si mise sotto le pesanti coperte, lasciando al freddo solo il naso, gli occhi e la fronte. Credeva che addormentarsi fosse impossibile e si mise a fissare il soffitto, lo stesso che vide per la prima volta a Primestone, quando il peso di Taylor sul suo stomaco l'aveva svegliata. Aveva ancora la pelle accapponata e una specie di fagiolo alla gola le ostruiva il respiro e avrebbe voluto ancora gridare, ma nulla più usciva. Non mi sento più osservata... no, non lo sono più. Nessuno più mi spia, con sguardo malevolo. Soffitti. Soffitti sconosciuti. Nonostante tutto, la stanchezza dopo poco prese il sopravvento. E si addormentò.

Spazio autore

Termina così il primo giorno di Jennifer a Primestone. Il prossimo capitolo si svolgerà il giorno dopo. 

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