CAPITOLO 2 (Parte 1)

Buio.

Occhi socchiusi. Soffitti. Soffitti sconosciuti. Dove sono? Non lo so. Cosa è successo? Non lo ricordo. Mal di testa. Cosa vedo? Soffitto. Un soffitto sconosciuto. Cosa sento? Nulla. Odori? Lenzuola pulite. Bucato pulito, come quello della mamma. La mamma. La mamma non c'è più, ma io non so dove sono e cosa mi sia successo. Sento un peso. Un peso sullo stomaco. Aspetta... ora sento una voce, una voce di bambina e sento un peso, un peso sullo stomaco...

«Svegliati, svegliati, bambina nuova svegliati!». Jennifer aprì gli occhi a rilento e vide una bambina bionda, col nasino schiacciato e due occhi azzurri, seduta su di lei. Indossava un vestito bianco a pois blu. Jennifer era distesa su un letto e si sentiva stanca e assonnata. «Taylor, ma è modo di accogliere i nuovi ospiti!?». Jennifer si volse verso la nuova voce. Capelli di un rosso vivo, come le fiamme di un'eterna passione, raccolti in una lunga coda tenuta grazie a un elastico viola. Piccole e graziose lentiggini le inondavano le morbide e curve guance. La ragazza dai capelli rossi afferrò sotto le ascelle l'altra bambina e la fece sedere sulle sue gambe. A sua volta lei si sedette sul letto accanto a quello dove era Jennifer. Quest'ultima si sollevò adagio e si tenne con una mano la testa. Si mise a sedere. «Dove sono?» chiese in modo timido Jennifer, avvertendo una fastidiosa fitta alle tempie. «Tranquilla, è normale sentire mal di testa la prima volta. All'inizio potresti non ricordare come sei finita qui... ma poi ricorderai anche quello» disse la ragazza dalla chioma rossa. «Io mi chiamo Sophia, Sophia Williams e ho dodici anni, mentre questa piccola peste dalla voce stridula si chiama Taylor Rosenthal e ha otto anni. Tu invece sei?». Jennifer scosse la testa, l'abbassò e chiuse per qualche attimo gli occhi. Li riaprì e fissò Sophia nel suo volto sorridente e poi guardò Taylor, che si trastullava col vestitino e con il dito sembrava contare il numero di pois. «Io mi chiamo Jennifer... Pittsburgh. Ho dodici anni». «Jennifer, che bel nome!» disse Sophia. «Anche a me piace un sacco!» continuò Taylor con voce così acuta che Jennifer ebbe un piccolo sobbalzo e le fischiò l'orecchio destro. «Taylor abbassa la voce! Comunque... Jennifer, benvenuta nella città fantasma di Primestone! Fantasma non perché ci sono i fantasmi, sia chiaro... cioè, forse ci sono, ma... lascia perdere, dicevo, questa è la città deserta di Primestone e ora sei in una delle stanze del dormitorio femminile. Prima era una scuola, poi tutto è stato abbandonato dopo il disastro alla centrale».

Le parole di Sophia fecero scattare nella mente di Jennifer dei ricordi, piccoli frammenti di memoria che provavano a organizzarsi, come pezzi di un puzzle. Ricordò che, quando andava a scuola, la maestra aveva parlato di un disastro avvenuto anni prima, negli anni ottanta, le sembrava di ricordare, in una centrale nucleare e il nome di quella città le sembrava familiare, forse era proprio quella a cui si riferiva la sua insegnante. I suoi pensieri furono interrotti dalla voce stridula di Taylor. «Qual è il tuo potere?». Jennifer ebbe un sobbalzo. Potere? Come fa a sapere che ho... un potere? No... forse si riferisce a un'altra cosa, senz'altro! «A co-sa ti riferisci?». «Il potere! Che potere hai!?» insistette Taylor. Sophia guardò gli occhi di Jennifer e le sembrarono come persi nel vuoto, puntavano in tutte le direzioni, ma in nessuna specifica. «Jennifer... tutti i bambini e i ragazzi che vengono portati qui a Primestone sono mutanti». In seguito alle parole di Sophia, Jennifer, stupefatta, fece un grosso sospiro. «Ho capito... io posso... posso... ora te lo mostro!».

Jennifer si guardò intorno. Notò tra i due letti un piccolo comodino a due cassetti color rovere, molto vecchio e trascurato. Sopra c'era una lampada da scrivania nera, un bicchiere con un filo d'acqua sul fondo e un cucchiaio. Jennifer afferrò la posata, la portò davanti al naso e la fissò con attenzione. Abbassò le sopracciglia e acuì lo sguardo. Piccoli tremolii le pervasero la testa e le vene sulle sue tempie pulsavano con ritmo, come la batteria in una band. Tutto il suo viso divenne rosso e anche il polso le cominciò a tremare. Sophia e Taylor osservavano la ragazzina con vivo interesse. Passarono alcuni secondi. Jennifer trattenne il respiro. La sua bocca era serrata e le labbra erano diventate strette, bianche. All'improvviso il cucchiaio, come sospinto da una forza misteriosa e invisibile, si piegò di colpo verso sinistra di circa tre centimetri. Sophia e Taylor fecero un sospiro di stupore.

«Telecinesi!» disse Sophia. «Wow!» fu l'espressione di Taylor. Jennifer riprese fiato. Ansimava e prendeva veloci, ma decisi respiri. Di un colorito più rosato tornarono le sue labbra e i muscoli del volto apparivano ora rilassati. «Diamine... non ho mai fatto tutta questa fatica per piegare una posata... ». Sophia notò una punta di delusione nelle parole della nuova arrivata, come una chitarra non accordata. «Non te la prendere, è normale. Mal di testa, perdita di memoria e difficoltà nell'usare i poteri... è colpa dell'arsenico». «Arsenico?» chiese allarmata Jennifer. «Sì, arsenico. Di sicuro te lo hanno iniettato in laboratorio mentre eri incosciente. Qui lo mettono ovunque, nell'acqua, nel cibo, in tutto». «Ma non è un veleno?» chiese Jennifer sempre più perplessa. «In teoria, se lo assumesse una persona normale, anche in piccole quantità, morirebbe, ma non ci avvelena. Danneggia i tessuti, ma noi ci rigeneriamo. Serve solo a rendere più debole il nostro corpo e quindi non ci fa usare al massimo le nostre abilità». «Ora ti mostro le mie abilità!» urlò la piccola Taylor, che scese dalle gambe di Sophia e si posizionò di fronte ai due letti. Jennifer la seguì con lo sguardo. La bambina divaricò appena le gambe battendo i piccoli piedi scalzi sul pavimento di linoleum, si afferrò il polso e tese l'altro braccio verso il basso a mano aperta. Cominciò a gridare. «Si sta per trasformare in super saiyan?» chiese Jennifer a Sophia provando a trattenere le risate. Sophia gonfiò le guance, emettendo risolini a strappi, mettendo la mano davanti alla bocca. Taylor continuò a urlare per quasi venti secondi, ma alla fine, stremata, cessò nell'intento e si accasciò a terra. I suoi occhi divennero lucidi e un principio di pianto la pervase. Sophia si sollevò dal letto di scatto, l'abbracciò e la prese in braccio. «No, piccolina, stai tranquilla! Non fa niente, sarà per la prossima volta. Domani ci riproverai e farai vedere a Jennifer cosa sai fare, va bene?». Taylor singhiozzò e si asciugò le lacrime con le mani, mentre Sophia estrasse un fazzoletto dalla tasca dei suoi pantaloni marroni e aiutò l'amica a pulirgli il visino. Si sedette di nuovo sul letto, liberando Taylor dal suo amorevole abbraccio, mentre la biondina si soffiò il naso con il fazzoletto appena passatole e osservò il moccio con un entusiasmo surreale.

«Bene, ora ci siamo calmate... adesso ti mostro il mio». Jennifer guardò Sophia con attenzione. Sophia sollevò il dito indice della mano sinistra, portandolo verso gli occhi e corrugò la fronte. Passò qualche secondo. Taylor intanto fissava l'amica sussurrando «vai, vai», mentre Jennifer il dito di Sophia, aspettandosi qualcosa. All'improvviso, il dito di Sophia s'illuminò di rosso, d'arancione e infine di giallo. «Sì, sì!» gridava Taylor. Una piccola fiamma gialla e rossa avvolte il dito di Sophia. «La mia pelle produce una specie di cera che a contatto con l'aria s'incendia. Una volta fatto ciò, posso controllare le fiamme con la mente. Si chiama "pirocinesi". Ancora non riesco a incendiare gli oggetti a distanza con la sola forza del pensiero, ma secondo i dottori potrei riuscirci. Abbiamo poteri mentali entrambe, visto?». Alla spiegazione di Sophia, Jennifer annuì e sorrise, provando un senso di ammirazione nei confronti della ragazza. La piccola fiamma sul dito di Sophia si spense in pochi attimi del tutto. «Bene, sono le quattro e mezza» affermò Sophia. «Ho promesso ai ragazzi che ci saremo incontrati giù al fiume Derrick. Se andiamo a passo svelto, in quaranta minuti saremo lì. Forza andiamo, così ti mostro la città e ti dico un po' di cose!».

Sophia afferrò per la mano Jennifer e la sollevò di forza dal letto. Indicò alla ragazzina dai capelli corvino dei vestiti piegati con accortezza su un mobile basso di legno. «Quelli sono i tuoi. Te li hanno portati di sicuro gli inservienti, mentre noi eravamo a lezione. Noi ti abbiamo trovata già qui che dormivi quando siamo rientrate. C'è tutto: scarpe, calzini, mutandine, pantaloni, canottiera, maglione di lana, guanti, sciarpa, cappello e cappotto. Ti porteranno anche altro intimo e un altro cambio di vestiti, tutti ne abbiamo due... forza Taylor anche tu, vestiti!». Jennifer con pigrizia si incamminò verso i vestiti e li prese con delicatezza. Sophia le indicò il bagno. Chiuse la porta dietro di sé e guardò nello specchio poco sopra il lavandino. Solo in quel momento si accorse che era vestita solo di un camice di quelli che usano i pazienti negli ospedali. Ma che sto facendo? Perché sono qui? Chi mi ha portata qui? Cosa devo fare qui? Papà... l'Albino... Jaimie... Jaimie... e cos'è questa strana sensazione che provo? Paura? Inquietudine? Tutte e due... osservata... mi sento come osservata... c'è qualcuno che mi sta guardando. Un rivoletto di lacrime percorse le piccole guance della ragazzina. Frastornata dalle immagini che vedeva nella sua mente e la colpivano come piccoli martelletti di gomma, si asciugò il volto, si vestì di quei panni puliti ma che avvertiva come alieni e uscì dal bagno.

Lei e le sue due nuove compagne uscirono dalla stanza e cominciarono a percorrere un lungo corridoio. A sinistra c'erano delle porte di altre stanze tutte uguali. A destra invece vi erano delle ampie finestre a intervalli regolari che davano su una grande piazza con altri edifici intorno. Al centro di essa c'era un monumento dedicato ai caduti in guerra, una spessa colonna di marmo quadrangolare a tre livelli e sulla sommità una statua di bronzo, con un soldato che reggeva un compagno d'armi morente. Tutta la struttura era alta quanto un palazzo di tre piani. Il corridoio che stavano percorrendo era tinteggiato di grigio e si sentiva odore di candeggina e intonaco vecchio provenire dal pavimento e dalle pareti. Percorsero due rampe di scale. Non c'era anima viva. Non si sentivano rumori, se non qualche lontana parola provenire oltre quelle porte di legno laccate tutte uguali. L'ingresso dell'edificio era un grosso portone grigio a due ante, che era già spalancato. Varcata la soglia, un gelido e sottile venticello le ricordò che era dicembre. L'aria era secca e il cielo coperto da nuvole grigie. Del sole non c'era traccia. Jennifer si sentì prendere per la mano. Era Sophia che con l'altra mano teneva la piccola Taylor, che aveva portato con sé un coniglietto di peluche. Un simpatico cappellino con una pallina rossa sulla sommità le copriva il capo e la faceva somigliare a un piccolo elfo. Le tre compagne si ergevano sopra la scalinata del dormitorio. Sophia cominciò a parlare.

«Devi vedere a gennaio e a febbraio che freddo che fa! E c'è tanta neve... comunque... piccola lezione per Jennifer: questa è la Piazza dei Caduti ed è la parte terminale della Main Street, la strada principale, che attraversa tutta la città di Primestone. L'edificio a destra è una ex scuola, proprio come il nostro dormitorio, ma ancora adesso si fa lezione». «Si fa lezione?» chiese Jennifer perplessa. «Esatto, tutti quanti, maschi e femmine fanno lezione dalle otto del mattino fino alle tre del pomeriggio in quella scuola. Lo so, è una noia, ma se ti assenti le Guardie di Sicurezza ti vengono a prendere e ben che vada ti fanno una ramanzina». «Guardie di Sicurezza?» chiese con timore sempre più crescente Jennifer. «Guardie di Sicurezza! La città è disseminata di telecamere. Fuori città non ce n'è traccia, ma oltre le mura non si può andare perché da qui non si esce...». «In che senso?». Jennifer era sempre più timorosa nelle sue domande. Aveva la sensazione di stare infastidendo Sophia, ma non poteva fare a meno di chiederle. «Vedi la città è fortificata. Muri rinforzati alti sei metri circondano Primestone. Nessuno può scappare. C'è poi un altro pezzo di muro che divide il resto della città da due quartieri periferici, tagliando la Main dall'altra parte e circondando la Dock Street e la Paper Street. Comunque, dicevo... si fa lezione dal lunedì al venerdì. Sabato mattina ci si reca a quell'edificio, che è l'ex municipio, quello con la guglia a punta. Lì c'è il laboratorio dove ci fanno i test». «Che test?». Non seguì alcuna risposta da parte di Sophia. «Immagino che ti starai chiedendo dove sono i maschi...». Jennifer fece cenno affermativo con il capo, pur non essendo una sua priorità impellente. «Vedi, prima dormivano dove dormiamo noi oggi, ma mi hanno detto che ci furono dei problemi... delle ragazze rimasero incinte, per questo decisero di separarli... sai come nascono i bambini Jennifer, vero?».

La ragazza divenne rossa in faccia, ma ancora una volta fece cenno affermativo con il capo. «Li porta la cicogna, vero Sophia, li porta la cicogna!». Il volume della voce di Taylor sembrò quasi far tremare l'aria intorno alla piazza. «Sì, Taylor, li porta la cicogna» rispose Sophia seccata. Jennifer si fece paonazza. Sophia proseguì: «allora, stavo dicendo... visto che ci furono dei problemi, i maschi furono spostati in un palazzo al centro della città. In realtà quasi più nessuno dorme lì, a causa dei bulletti... purtroppo ci sono anche qui. Ora i ragazzi vivono nelle case sparse per la città. Fortuna che sono tutti una manica d'idioti, i più grandi hanno quindici anni e non si avvicinano al dormitorio delle ragazze, anche perché se lo facessero, li incenerirei!». Sophia, a quella esclamazione, chiuse la mano a pugno, mentre Jennifer rise di gusto. «Bene, per concludere... a scuola c'è anche la mensa. Lì servono il cibo a pranzo e la sera per la cena alle diciannove e trenta. Chi tarda, si attacca! Per colazione ci danno della frutta o dei cornetti vuoti appena entriamo in classe. Il bucato si fa da noi, quindi ora che ci sei tu dovremo stabilire nuovi turni. Per il resto, possiamo fare quello che vogliamo e il sabato pomeriggio e la domenica sono liberi! La mensa è chiusa, ma ci sono dei distributori di cibo pronto in barrette, come quelle degli astronauti. Però ricorda queste regole! Mai saltare le lezioni. Mai saltare le analisi al laboratorio il sabato mattina. Di sera, alle dieci, la porta d'ingresso del dormitorio viene chiusa, e tutte le luci della città vengono spente, quindi mai rimanere fuori durante il coprifuoco. Se non rispetti le regole, le Guardie di Sicurezza ti verranno a cercare e ti puniranno. E se resti sola di notte, quello non sarebbe neanche il peggiore dei problemi... è scontato dirti che non puoi uccidere. Ultimo consiglio, questo te lo do io: non avvicinarti alle mura interne della città, non farlo mai! Tutto chiaro?». Jennifer annuì. «Bene, e ora... Girls power!» gridò Sophia, agitando il pugno chiuso in aria. Taylor la seguì a ruota. «Forza Jennifer, dillo anche tu!». Jennifer restò perplessa per qualche secondo, poi però fece un sorriso e, seppur esitante, sollevò il braccio e con pugno saldo urlò al cielo a occhi chiusi: «Girls... Girls power!». Tutte e tre le fanciulle risero di gusto.

Scesero poi la gradinata davanti alla porta d'ingresso del dormitorio e attraversarono svelte la piazza. Un silenzio spettrale echeggiava nell'aria, ma la compagnia di Sophia e Taylor rincuorò Jennifer, che notava con stupore quel senso di sicurezza e abitudine che traspariva dalle sue nuove compagne. Quei momenti le fecero dimenticare la stranezza di tutta la situazione, del perché e del come fosse finita lì. Provava un senso di forza nel sapere che altre persone avevano poteri come lei, un potere che per anni aveva tenuto nascosto, che solo sua sorellina Jaimie conosceva e che in una lontana, maledetta notte era stata costretta a usare con tutte le sue forze. Ecco, ora inizio a ricordare. No, meglio non farlo, mi basta sapere che non ho perso la memoria. Forse era meglio il contrario, ma per ora va bene così, l'essere lontano da lui, da mio padre, vale tutta la felicità del mondo.

La piazza che stavano attraversando in quel momento era deserta, così come il resto della città. Vecchie auto arrugginite, dalle gomme sgonfie e dai finestrini rotti non facevano altro che dare ancora più enfasi a quella tetra immagine di quella tetra cittadina. Delle piante rampicanti si aggrovigliavano e si contorcevano come un male sui muri e sui vetri di quei palazzi abbandonati da uomini che ora non c'erano più. Jennifer notò la grande montagna alle spalle della città. «Che bel monte!» esclamò ammirando la bellezza rude di quelle tonnellate di antica roccia. «Quello è il monte Sik, il più alto di tutta la contea. Certe volte manda un'ombra che copre tutta Primestone. È lì che c'è il laboratorio da dove vengono tutti gli addetti, i medici, gli inservienti, gli insegnanti e le Guardie di Sicurezza. Tutto dentro alla montagna. Ora però sbrighiamoci. I nostri amici ci stanno aspettando!»

Spazio autore

Inizia così il lunghissimo racconto di Jennifer, di come sia arrivata a Primestone e di come poi ne sia uscita. Oltre ad essere introdotti due nuovi personaggi, Sophia e Taylor, viene presentata la cittadina "deserta" di Primestone, che tanto deserta non è. Si tratta di un vero e proprio laboratorio all'aperto in cui bambini e ragazzini dalle particolari abilità vengono trattenuti in una sorta di esperimento sociale oltre che clinico. Questa è la prima di quattro parti che raccontano il primo giorno di Jennifer a Primestone. 

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