CAPITOLO 12 (Parte 2)
Telepatia. Che razza di poteri ha Jennifer? Un minuto dopo Sam si accorse, scrutando tra i resti della città semidistrutta che, sotto alle lamiere d'auto accartocciate da alcuni massi di cemento, sbucava una chioma nera e impolverata che si scuoteva come un cagnolino dopo la pioggia e due occhietti verdi brillavano come diamanti in un anello nuziale sotto il chiarore lunare. «Caccola!» esclamò festante l'uomo, inarcando un sorriso che si spense subito per via della stanchezza. Strabuzzò gli occhi e corse verso quelle braccine allungate nella sua direzione. «Stai bene caccola, sei ferita?». Jennifer fece un gesto di diniego con la testa, mentre i suoi occhi si inumidivano. L'uomo la trascinò fuori e lei si avvinghiò in un abbraccio tremante a lui. Sentì l'alito di lei, caldo e flebile, condensarsi sul suo collo e lacrime bagnarlo. «Ho avuto paura, Sam!» piagnucolò lei, mentre lui le diede dei colpetti consolatori sulla schiena. La sua mano destra stava ancora fumando, ma aveva fatto appena in tempo a ricomporsi dopo l'ultimo attacco.
L'uomo fece scendere Jennifer, che ora sembrava essersi calmata. Si strofinò il naso con il dorso della mano, asciugandosi del moccio che le colava, poi, con l'altra mano, si stropicciò gli occhi e seccò le sue lacrime. I loro sguardi poi s'incrociarono. «Allora, tutto ok?». Jennifer annuì e disse: «quello era solo il suo animaletto credo... ora dobbiamo andare da quello là in persona». Sam non rispose, né abbozzò un gesto con il capo. I suoi nervi erano tesi e fermi, ma non per la fatica precedente che si stava ancora ritirando, quanto per un sentore d'inadeguatezza che gli fece freddare la pelle e la testa. Mai confessò a Jennifer che non aveva alcuna possibilità di vittoria se davvero quell'essere di prima era solo il suo "animaletto". Tale era il bene che provava per quella ragazzina, conosciuta pochi mesi prima, che avrebbe preferito morire piuttosto che farla sprofondare in un mare di orrore ancor più grande di quello che già provava. E se non fosse stato per lei, che si voltò di spalle e s'incamminò tra acquitrini e grumi di polvere stagnanti verso il Derrick, Sam da lì non si sarebbe mai schiodato. La paura lo aveva incatenato e stretto in una morsa invisibile.
Ripresero il loro viaggio verso sud, nella malsana palude che era diventata la zona del Derrick. Jennifer, aggrappata alla schiena dell'uomo come un destriero sul suo cavallo, coperta fino alla testa dal giubbotto di pelle dell'uomo, lo guidò nella parziale oscurità di quel labirinto d'acqua bassa ristagnante e canneti morenti e appesantiti dall'umidità per un'ora, forse anche un'ora e mezza. Sotto la pioggia che stava riprendendo vigore, meravigliata, si rese conto di quanto fosse diventato difficile addentrarsi in quella zona, un tempo così familiare a lei, come il negozio di dolciumi preferito. Credeva di essersi persa e un brivido di spavento la scosse. Ma fortuna per lei, il suo inconscio la guidava verso la meta designata, la centrale nucleare dismessa di Primestone, covo del demone finale. Sentivano il suono sommesso del rombo dell'acqua che fluttuava in piccoli fiumi sotto i loro piedi e intorno a loro, rendendo le caviglie di Sam cedevoli come morbida argilla. Davvero fredda era l'acqua. E l'acustica di quel luogo lo rendeva caotico anche agli occhi, tutto uguale, sempre la stessa immagine di vegetazione folta e arruffata, non importava quanto l'uomo camminasse.
E mentre lui si fidava ciecamente di lei, Jennifer si oppose a un panico opprimente che si faceva forza per soverchiarla. Riuscì a respingerlo, seppur a fatica. In agguato, aspettava solo il momento giusto per attaccare. Ancora una volta, come una bestia che non si arrende ai morsi della fame e tenta in tutti i modi di sopravvivere. «Caccola... sai dove stiamo andando?» chiese Sam, che sembrò nascondere una punta di preoccupazione. Jennifer non comprendeva perché l'uomo potesse avere paura di perdersi. Mal che andava, avrebbe potuto spiccare il volo e orientarsi e... «Sam, salta!». «Come?». L'uomo sgranò gli occhi, incapace di dare un senso a quell'esclamazione improvvisa della ragazzina. «Salta, oltre la vegetazione, così riesco a orientarmi meglio!».
A quel punto, tutto fu più chiaro. L'uomo caricò la sua forza nelle gambe e, leggiadro come un uccello in decollo, si staccò dal suolo distendendosi verso l'alto per quasi una decina di metri. Quattro volte l'uomo ripeté l'operazione, ma non videro nulla, a causa di una fitta nebbia che era calata nella zona. Jennifer avvertiva un formicolio alla testa, una larva malefica e indefinita che le premeva tra le meningi. Si rassegnò a quell'idea e, affranta, disse sottovoce: «non si vede nulla, però... credo che quella sia la direzione giusta» indicando. Sam ebbe l'impressione che in quella esitazione si nascondesse qualcosa, come un ronzio fastidioso il cui suono sommesso inquieta l'animo. Qualcosa stava cominciando a infestare l'aria con la sua sola presenza e non si trattava del solito cattivone di turno, ma era qualcosa di ben più trascendentale. Jennifer provava la stessa sensazione, ma c'era anche altro che ora l'angustiava: stava crescendo. Non nel corpo, ma nella mente. Sentiva la fiamma nebulosa della sua giovinezza tremare e affievolirsi sempre di più. Per alcuni attimi, credeva che si fosse del tutto spenta, ma subito dopo riprendeva ad ardere, come un cuore che non vuole arrendersi a pulsare. Ma ciò le provocava una sensazione di malessere. Aveva già affrontato il demone alieno ed era stato orribile. Ma ora la situazione si era rovesciata rispetto a un paio di mesi prima: quello là era stato privato della sua arma più potente, cioè quella di assumere la forma delle paure altrui, imitandone le immagini mentali, ed era ormai costretto a mostrarsi nella sua vera forma. Ciò lo costringeva a palesarsi nella sua più tremenda forma fisica. Anche lei adesso era stata privata dell'arma che l'aveva aiutata a sconfiggere il demone con i suoi amici innumerevoli volte: la fantasia infantile.
Restava solo da spezzare l'ultimo anello e, a quel punto (se mai sopravvivrò al secondo scontro mentale), l'abominevole luce assente acquattata ai confini del muro del Caos si sarebbe mostrata vivente, spaventosa e mostruosa in tutta la sua titanica essenza primordiale e assassina. Il fatto inquietante che la sua fanciullezza si stesse disperdendo come foglie d'autunno sotto il venticello fresco la faceva sussultare. Un panico crescente ora le bruciò il cervello. Doveva sconfiggere per la seconda volta la mente dell'alieno al fine di poterlo poi annientare nella realtà terrena. In pratica, liberare la bestia per poi ammazzarla.
Alle due e dieci del pomeriggio, il vento aveva già ripreso a soffiare da parecchi minuti, sferzando pioggia a una velocità di settantacinque chilometri orari con punte di novanta. Un anemometro posto ai confini tra la contea di Kintor e quella di Primestone segnò centodieci chilometri orari di velocità di una folata, prima di essere sradicato dal terreno e spazzato via da un alito ancora più forte. Quando i dati furono inviati via wireless ai centri di controllo del Servizio Meteorologico Nazionale, gli addetti al meteo crollarono dalla sedia per la meraviglia. Dopo quel dato, le stazioni radio e le antenne dei tre Stati della zona si spensero, lasciando nel silenzio fino alla tarda sera milioni di persone. E nella bocca dell'uragano c'erano due persone, Sam e Jennifer, che con tutte le loro forze cercavano di non sbandare, ma quella più in bilico era la ragazzina. Affondò le dita nella schiena d'acciaio dell'uomo, mentre lui piegò le ginocchia in avanti e con le braccia strinse le gambe della ragazzina più forte. Jennifer era compressa con l'addome sulla schiena dell'uomo, con occhi chiusi e denti stretti. Quello che dapprima sembrava impossibile divenne probabile e poi certezza. Il sistema temporalesco, che sembrava essersi generato da una depressione atmosferica improvvisa e irragionevole, si stava estendendo per decine di migliaia di chilometri quadrati, spingendo cascate di pioggia e vento in direzione radiale verso l'esterno del suo cupo corpo ventoso.
In un paio di ore, i principali fiumi della macroregione strariparono come ingrossati da cascate invisibili che misteriosamente erano state aperte, allagando i centri delle più importanti città locali e dei piccoli paesini. Frane e smottamenti coinvolsero i villaggi di montagna. Kintor fu la più devastata. A fine giornata la città si era trasformata in un lago di case galleggianti. Una delle immagini satellitari avrebbe fatto il giro del mondo, quella di una grossa macchia nelle WesternLands settentrionali, un immenso lago puzzolente e stagnante, decine e decine di ruscelli, affluenti e fiumi straripati per ettari ed ettari quadrati. Il verde degli alberi e delle piante era diventato un azzurrino-grigio sporco d'acqua. I danni furono incalcolabili, le vittime una decina di migliaia.
Sotto quel diluvio universale, Jennifer e Sam, poco prima delle tre, finalmente raggiunsero la bocca della tana del demone, l'edificio sventrato dell'ex centrale. Saltellando, l'uomo varcò l'oscura soglia, riparandosi dal vento e dalla pioggia sferzante, immergendosi a cavallo tra la luce soffusa del giorno che appena s'irradiava oltre le nuvole densissime e l'oscurità di quel palazzo che ricordava più una grotta. Così pesto era il buio, che nemmeno un bagliore o uno scintillio erano visibili a pochi metri dai loro piedi. Jennifer, avviluppata dalla paura, con il sangue che le pulsava nelle vene come i fiumi che stavano straripando in quel momento, scese dalla schiena di lui e, frenata, avanzò di un paio di passi verso l'oscurità. Sam, frattanto, fissava quel muro privo di luce innalzarsi davanti a lui come se fosse solido. Ma la cosa che più lo inquietava era il tanfo improvviso che come un pugno si fiondò sulle narici. Uova marce e carne in putrefazione. Insopportabile. Sam cominciò a tossire, mentre Jennifer fece una fatica immane a non vomitare. Rovesciò dei rivoletti di saliva e rantolò tre volte prima di arrestare la nausea.
«Dio santo, che puzza!» esclamò l'uomo e lei rispose: «Sam, non sento niente e non vedo niente... tu senti o vedi qualcosa?». L'uomo, con la mano premuta sulle labbra, scrutò con vista aguzzata di nuovo verso il buio. Avvertiva in lontananza un punto sfocato e tremolante al centro del suo campo visivo. Prima ancora che potesse pensare a cosa fosse, una flebile esclamazione della ragazzina gli bloccò la mente: «ora sento qualcosa!». Non passarono più di cinque secondi di silenzio tombale, che un risucchio, seguito da un possente singhiozzo metallico, fece tremare l'aria fetida e malsana. Un polverone si sollevò e cosparse i corpi dei due. Jennifer trasalì e la sua schiena divenne una tavola di ghiaccio, mentre Sam cominciava ad avvertire un tremore alle caviglie. Ora sentiva qualcosa anche lui e non era solo il terrore. Era una presenza. Pura malvagità.
Un fruscio improvviso, dapprima indefinito, si trasformò in una debole luminescenza che pian piano si separò in due sferette, poste a decine di metri d'altezza e ad altrettanti di distanza dai due mutanti. Dannatamente minacciosi erano quei bagliori, che divennero troppo fastidiosi per via della loro luminosità. Sam e Jennifer, frastornati dall'inquietudine, indietreggiarono, avvertendo alle loro spalle il vento che all'esterno continuava a musicare con foga e tormento. Mai nella vita Sam riuscì a spiegarsi come fosse possibile che all'improvviso avesse visto un ghigno. Non c'era, eppure era convinto di aver visto un sorriso malato e omicida nelle buie tenebre demoniache. Quando un rombo meccanico e distorto stridette nell'aria, sussultò più di Jennifer, fin troppo abituata a quella voce che ora, disgustata e colerosa, sputava invettive contro i due intrusi. Era una voce pesante, come di (titano) un essere enorme che, con corde vocali spesse quanto il cannone di un carrarmato, pungeva l'aria di sommessi boati.
«Eccoli qua i due piccoli e valorosi umani che pretendono di sconfiggere un dio... Lo sapete che ora siamo in una situazione di stallo, vero?».
Sam non ricordava di aver mai avuto in vita sua una sensazione di così malsano e trasudante terrore. Quella voce (aliena) infernale sembrava volesse rompergli i timpani e la sua mente si rifiutava di ascoltate un simile scempio. Non lo accettava e i sensi ultrasensibili del suo corpo mutato gli intimavano e gli supplicavano di fuggire. Per un attimo, ebbe l'idea che morire in quel momento, forse, sarebbe stata una scelta auspicabile.
«L'idiota e la puttanella, insieme contro di me... che scenetta patetica... Jennifer, avresti fatto bene a imbambolare la sua testa, a fuggire con lui e a scopartelo, vivendo per sempre felice e contenta con un uomo che la tua mente limitata crede essere il padre che hai sempre desiderato ma non hai mai avu...».
«Piantala stronzo!» lo apostrofò la ragazzina, mentre Sam non aveva recepito una sola parola di quel discorso, frastornato dai rombi tonanti di quella voce grave e appestata che prendeva a pugni il suo cervello. Per qualche secondo calò il silenzio, per poi essere rotto da una sghignazzata che per poco non fece rovesciare gli occhi di Sam.
«Sai bene, Jennifer, che ora come ora io non posso far fuori te e tu non puoi far fuori me... due sono le opzioni... o restiamo così e io continuerò ad alimentarmi stanziando in questo limbo e prosciugando tutto il pianeta fin quando non lo inghiottirò, oppure dobbiamo scontrarci sul piano mentale...».
«Oppure mi trascinerai nel Caos e mi ucciderai» lo interruppe Jennifer, con i pugni stretti sui fianchi e fiamme di coraggio negli occhi.
A quelle parole, seguì un lungo e solo vagamente definibile e convulso sferzare d'ilarità, qualcosa che sembrava un misto tra eccitazione, estasi, trionfale gioia e macabra ira. Per quanto fossero palesi le intenzioni di quello là, Jennifer sapeva che le opzioni erano davvero quelle. Non aveva scelta. Le cose devono andare esattamente come devono andare. Animata da un coraggio che non credeva nemmeno lei di avere, una forza interiore fino ad allora insondabile, avanzò lenta ma decisa verso il buio. Sam, resosi conto dal pallore dei suoi occhi che la ragazzina stesse avanzando senza remore verso il buio, gridò il suo nome allungando il braccio verso la sua schiena, che in un attimo fu inghiottita nel buio. La paura gli aveva interdetto i movimenti. Provò a biascicare il suo nome, ma tutto quello che uscì dalla sua bocca fu un sibilo strozzato. Non poté far altro che sperare. Dio santo, Jennifer devi vincere, non mollare caccola, sei l'unica al mondo che può farlo fuori. Se perdi tu, io non sono altro che un omuncolo di troppo sulla faccia del pianeta. Spazzerà via me e tutto il resto come se nulla fosse. Vinci Jennifer, ti scongiuro... vinci!
Jennifer si ritrovò nel vuoto. Non un odore, non un suono, non una sensazione olfattiva. Volteggiava leggera come se il suo corpo fosse etereo. Ma la sua vista, proiezione della sua mente, era più che attiva e meravigliata di una conoscenza nuova, brillava nel vedere gemme colorate incastonate in una volta a tutto tondo. Non riusciva a decifrare quale fosse la destra e la sinistra, l'avanti e il dietro, il sotto o il sopra. Ma di una cosa era certa. Quello sfavillante luccichio erano galassie, ammassi di stelle che nel vuoto cosmico facevano eco con la loro luce, inondando il suo animo di uno stato di gioia quasi reverenziale. Pian piano, sempre più vicine, apparirono. Il suo stato di contemplazione e indefinita estasi si protrasse fin quando le sue orecchie non squillarono di uno stridio fastidioso, un accavallamento di segnali sparati in tutte le direzioni, fasci energetici che nelle sue orecchie risuonavano con sillabe di lingue sconosciute, ma nella sua mente sferzavano di una chiarissima limpidezza.
*«...Kodrak in avanzamento nei pressi delle porte di Shindrad. Colonna toith si dirige con carico energetico massivo non identificato. Rilevata presenza di vileb provenienti dal pianeta Vileb'carrach'uaich... procedere con le manovre di puntamento, stabilire contatto con Oadr'vileb... autorizzazione, ripeto, il Tyuirak ha dato autorizzazione...».
All'improvviso si sentì tirata, partendo come un proiettile vagante, passando tra le galassie che ora si stringevano alla sua vista come strisce brillanti di migliaia di colori e sfumature. Si ritrovò in un posto sconosciuto. I suoi piedi erano poggiati su un pavimento liscio marmoreo, senza venature, argenteo limpido. Così erano le pareti dritte di quella che le sembrò un'enorme stanza. In fondo a questa, dei vetri trasparenti incastonati in tre fasce facevano da palcoscenico a ciò che si vedeva oltre. Galassie. Galassie e ancora galassie, sfavillanti di tutte le cromature possibili. A godere di quello spettacolo, un altare (trono) rivolto di spalle, granitico, lucidissimo di mille specchi, su una pedana. Due spuntoni dorati sembravano spuntare, come se qualcosa o qualcuno si trovasse seduto.
Lentamente, Jennifer si avviò verso quel luogo, distante a occhio una cinquantina di metri, o almeno così avrebbe giurato a qualcuno che glielo avesse chiesto. Ma quel fatto rimase segreto per sempre nel suo animo e mai a nessuno lo avrebbe confessato. Quando, timorosa ma decisa, arrivò ai lati della sedia, il suo cuore sussultò, ma lo fece in modo particolare. Era come quando si sogna una persona che non si è mai vista in vita propria e qualche giorno dopo la s'incontra per davvero, convinti che sia la stessa. Ma mentre in quel caso si tratta di una semplice associazione mentale, una sorta di autoconvincimento, Jennifer era certa che quella persona (essere alieno) era lo stesso che l'accompagnava ogni sera, nell'unica ora di pace che il demone le lasciava, forse per via di un sonno troppo profondo. Il cavaliere gigante con l'armatura dorata!
Quando quel pensiero rimbalzò nella sua mente, l'essere, seduto e avvolto nell'oro, con il volto oscurato come se un pittore ci avesse scarabocchiato sopra con una spruzzata di nero, voltò lo sguardo in direzione di Jennifer, ma non verso di lei, bensì scavalcandola con la vista. Anche se seduto, era ben più alto di Sam constatò la ragazzina. Non si capacitava di come fosse possibile, ma in qualche modo Jennifer aveva intuito che quella creatura senziente riusciva ad ascoltare ciò che stava pensando e, per qualche ignota ragione, sentiva che non fosse una sua proiezione mentale. Era reale. In un qualche punto dello spazio e del tempo, lontanissimo da dove ora si trovava il suo corpo fisico, quell'essere era solido, pensante, esistente. Vero. Non era un riflesso di un suo sogno ricorrente e un po' strambo. Ne fu colpita in maniera indescrivibile, in parte anche spaventata. Ma mai minaccia avvertì nel cavaliere di altri mondi. Solo forza e orgoglio. Tanta forza, tanto coraggio e tanto orgoglio. Immensa forza. Mai riuscì a spiegarselo, ma nella sua anima incendiata di un potere per lei incalcolabile, sentì come se quel cavaliere fosse preoccupato, affranto. Come se stesse cercando qualcosa e si fosse spinto lontano da casa sua pur di trovarlo.
Cavaliere dorato, io mi chiamo Jennifer e vengo dalla Terra. Ti prego, puoi raggiungermi? Ho bisogno del tuo aiuto, c'è un mostro cattivo che vuole distruggere il mio pianeta. Puoi aiutarmi?
Jennifer vide all'improvviso il cavaliere destarsi dal suo trono con uno scatto e rivolgere la testa a destra e a manca, come a cercare la fonte di un suono sconosciuto, impossibile da decifrare. Meravigliata, prese atto di quanto straordinariamente massiccio e alto fosse. Mi sente, ma non riesce a vedermi. È come se un velo invisibile ci separasse.
Lentamente, il suo sguardo, assente e nero, calò sul suo volto. Ora lui guardava lei e lei guardava lui. Non si vedevano, ma si percepivano. D'istinto, Jennifer decise di allungare la mano, timorosa come se avesse paura di prendere la scossa. E lui agì nel medesimo modo, curvando la schiena in avanti, come se sapesse che chi aveva "davanti" era più basso di lui. Più le loro dita si avvicinavano, più l'etere intorno a loro, come liquido, sembrava comprimersi e cominciò a scintillare di scariche azzurre. Quando lo spazio tre le piccole dita rosate di Jennifer e le grosse travi di metallo dorato del guanto del cavaliere si avvicinarono, l'etere sembrò vibrare e scintillò con ancora più brillantezza e... le dita di lei e di lui cominciarono a curvarsi.
Come fili, le punte sembravano scomparse in microscopiche bandiere ululanti e oscillanti al vento, protraendosi lungo un asse invisibile. Per via dell'evento, le loro mani si ritirarono, ma solo di pochi centimetri, ristabilendo la loro forma naturale e le scariche si ridussero. Quando, come guidati da un sincronismo mentale, riavvicinarono le loro dita, le scariche ripreso il loro bagliore intenso, sferzando fino al pavimento e, quando furono di nuovo vicine, si piegarono, ma questa volta, dopo una breve pausa, continuarono a muoverle, le une contro le altre. Poi... un tocco. Lui avvertì la morbidezza di lei, lei avvertì la durezza del suo guanto. Scattanti, ritrassero indietro le braccia. Percepivano che i loro sguardi si stavano incrociando. Il suo corpo era sulla terra, ma la sua mente era da qualche altra parte. In quel punto, lontano nello spazio e in un tempo imprecisato, Jennifer lo "toccò", come se i suoi pensieri si fossero solidificati e avesse in qualche modo comunicato con l'alieno. All'improvviso, schizzò via da quella stanza più veloce della luce, più veloce dell'espansione dell'universo, tra sfavillanti punti luminosi brillanti di calore nella cosmica esistenza, stelle piccole, medie e grandi, buchi neri, pianeti di ogni dimensione possibile, comete, rocce spaziali. Quando il suo corpo mentale si arrestò, rivide innanzi a sé il Male. Il muro del Caos. Lo aveva riconosciuto subito. Scheletri di esseri mai visti affioravano appena oltre la titanica superficie nera, lucente e oscura. E una voce terrificante, come un tuono, le fece provare una sensazione nuova in quel mondo, ma fin troppo familiare nel suo: sangue ribollente.
«Eccoti qua, puttanella, ce ne hai messo questa volta per arrivare a me... sei partita da un punto più lontano... Le tecniche di proiezione astrale ti teletrasportano in un punto qualsiasi del Cosmo...».
E una sghignazzata tremenda echeggiò, come se in contemporanea provenisse da tutti i luoghi e da nessun luogo specifico. Jennifer, però, non poteva lasciarsi andare a una resa incondizionata. Lottare era motivo d'orgoglio e, sebbene avesse il sentore che questa volta qualcosa non stesse andando (la fiamma della mia infanzia si è quasi spenta) come avrebbe sperato, divaricò le gambe, poggiando i piedi nel vuoto privo di geometrie, incrociò le braccia sul petto e poi incrociò le dita di entrambe le mani. Sentiva il suo potere mentale fluire in vene invisibili, i muscoli tendersi (ma era solo una sensazione nella sua mente) e pronta, battagliava con gli occhi, seppur lampeggianti come un faro pronto a fulminarsi. E il demone, deciso a non sottovalutare più il potere di quella mocciosa, non si fece attendere e scagliò il suo attacco, più potente che mai: «Spirito delle Parole: Tecnica Divina della Proiezione del Cosmo sulla Mente!»
*Sebbene questo periodo non abbia un contesto (e non lo avrà e, apparentemente, sembra non avere nemmeno un senso logico), racchiude il motivo per cui nel 1974 una pioggia aliena di colore fucsia fosforescente precipitò su tutto il pianeta (rivelatosi poi essere sangue), in contemporanea alla caduta di detriti di navi spaziali aliene.
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