CAPITOLO 11 (Parte 7)
Dopo quella tempesta di passione, gli occhi di Leonard, ora calmi e allo stesso vibranti di un'anima rincuorata dall'amore, si posavano sulla sua amata, su quelle linee tese dei suoi fianchi lisci. In un attimo, gli occhi di Jennifer si persero in quelli di Leonard. Ma il tempo a loro disposizione era giunto al termine. L'eterno era diventato effimero, l'infinito ignoto inceneriva in realtà ingrigita. Era tempo di andare. «Sei pronto?» chiese lei, più determinata che mai. «Sì» fu la risposta del ragazzo, calda, mai tremante. E mentre le dita dell'uno scivolavano in quelle dell'altro, i loro fiati si erano già sincronizzati. Lei aveva il cuore colmo della pace del guerriero pronto all'ennesima battaglia, Leonard invece era ancora rilassato. Fu per questo che lui non si accorse di nulla, indaffarato a osservare il volto di lei con bramoso amore e le sue ciocche danzanti nella furia della corsa. Lei, al contrario, appena la sua mano sfiorò il pomello della porta, si arrestò così all'improvviso che Leonard rischiò di schiantarvisi contro. Barcollò due passi in dietro, mentre la calda mano di Jennifer lo solleticò con decisione. Lui volse gli occhi a lei, ma lei fissava la porta, pallida e seria.
«Due passi indietro» sussurrò lei. Leonard eseguì come un bravo cucciolo, come se fosse in debito con la sua amica, perché nella sua mente lei le aveva fatto dono della sua anima. Gli aveva offerto un salvagente, una speranza di restare aggrappato alla realtà. Jennifer non aveva proseguito per la sua strada. Lei lo aveva salvato. Mentre il suo cuore batteva ancora in un mix di gioia e paura, quello di lei formicolava in un triste sentore di pericolo. «Cosa c'è?» mormorò lui. «Fa' silenzio, Leonard!». Uno, due, tre, contò Jennifer nella sua mente. Quattro, cinque e sei, contò ancora. Sette, otto... nove. Nove passi aveva udito, distinti come tegole che cigolano a ogni spostamento di peso, soave melodia che udito non può raggiungere, ma che alla mente sovrumana di Jennifer fu chiarissima, come chiara è la voce di una madre che canta la ninna nanna al suo bebè. All'improvviso, qualcosa strisciò sulle pareti esterne dell'abitazione. Metallo. Poi dei tonfi, rintocchi come di flagellante bussata fecero trepidare la porta in un mugolio sommesso.
«Gne, gne, gne!» protestò una voce di donna anziana... soprannaturale. «Cosa fanno due ragazzini soli in una casetta!? Fanno forse giochi con la trombetta!? O è forse la puttanella che intrappola lui come una mosca nella ragnatela della vedova SOSPETTA!?». L'ultima parola fu caricata con una tale enfasi che sembrò il preludio di un inno di battaglia. Una folata di polvere di cellulosa e frammenti di legno inondò i loro colpi come schegge di una granata. Una lama ferrosa, arrugginita e sanguinolenta brillò di luce notturna riflessa. La falce della Vecchia Signora sfasciò la porta al primo colpo, come la katana di un samurai che taglia un cocomero. Il secondo colpo servì solo a far spazio al suo corpo ossuto quanto blasfemo, tanto era disumana nella sua altezza. Leonard, a tentoni, sfiorò il busto di Jennifer come a voler cercare di proteggerla col suo corpo, mentre lei scivolò e piombò a terra sul sedere. La afferrò per un braccio, deciso, forse fin troppo, tanto che lei avvertì più dolore nella presa che non nella caduta.
Con il cuore in gola, si diressero verso la camera da letto. Una mano maligna per poco non acchiappò Leonard, ma gli sfiorò solo i capelli. I suoni ora gli sembravano ovattati dai loro stessi respiri e perfino il rombo di una finestra esplosa sembrava solo una risma di fogli che cade a terra. Il Centauro, con il suo busto, aveva sfondato la superficie vetrata e aveva provato a trasferire l'essenza della morte nel corpo del ragazzo. Quando la presa gli fu negata, lanciò un latrato di rabbia, un misto tra un cavallo infervorato e un grosso uomo esagitato.
Frattanto, il corridoio della casa appariva agli occhi dei ragazzini come se si fosse allungato. Ma era solo la sensazione del terrore che faceva distorcere al cervello le loro percezioni, come se fossero immersi con la testa in una piscina. Quando i loro occhi tremarono alla vista della sagoma della porta della camera, il corridoio sembrò restringersi di nuovo. Spazio prima attraversato in pochi soffi, ora sembrava un campo da rugby nella sua estensione. In fondo, all'improvviso, non c'era più la meta, ma un'ombra minacciosa che inghiottiva il riflesso lunare. Svoltarono appena in tempo per evitare che il Lanciatore, con la sua maschera da hockey pallida di sangue secco, afferrasse uno tra lui e lei. Percorsero qualche metro, prima che Leonard richiudesse alle sue spalle la porta del bagno. Era come tentare di proteggersi da un rinoceronte incazzato sventolando un paio di jeans. Di certo, Leonard non era così stupido, solo che gli sembrò la cosa più naturale da fare in quel momento. Il Lanciatore protestò con una testata sul blocco di legno sottile imbiancato e ingrigito dall'incuria e dall'abbandono. Si squarciò come se nulla fosse, ma lo ostacolò appena il tempo necessario da permettere ai ragazzini di sgattaiolare come topini dalla finestra. Il ragazzo sentì appena le dita guantate del nemico sfiorargli la caviglia. Sentì il suo fegato imbrigliarsi in una morsa di gelo e il suo intestino bollire e contorcersi. La sua gola fu sostituita per un attimo dai battiti del cuore. Lui e lei piombarono a terra, inalando una fresca e secca manciata di polvere.
Una sequenza di rapidi colpi di tosse seguirono, mentre i due si sollevavano, con Leonard che appoggiò una mano sulla schiena di lei. Ricominciarono a correre, con la luna che non li abbandonava mai, ma la luce era troppa. In precedenza, a causa dei loro stati d'animi terrorizzati, non si erano resi conto che alcune lampade, risplendendo di bianco, illuminavano quella zona, piccole lucciole che macchiavano l'oscurità. Ma a volte è meglio non vederli in faccia i mostri. Un sibilo attraversò l'aria e i nervi dei due non furono abbastanza reattivi. Una fitta tremenda protestò sulla schiena di Leonard, come una mazza di ferro, pesante. Gli fu trasmesso un calore come un ferro da stiro bollente troppo vicino alla pelle.
Cadde sul terreno, contorcendosi dal dolore, duro e pungente come una pugnalata. Jennifer non fece in tempo neanche a voltarsi che una mano callosa e rugosa si serrò sul suo volto, ombra nera, sferzante di un violento impeto di forza. Vide le stelle, poi scintille nel bianco e poi nero. La sua faccia era accesa e indolenzita, un pugno potentissimo le aveva colpito il volto. Tale fu il dolore che voleva svenire, ma non ne fu in grado. Intravide con la vista annebbiata il Centauro issarsi sugli zoccoli posteriori e imprecare al cielo minacce di morte e rabbia. Un nitrito distorto, come meccanico, così acuto che i suoi timpani ne furono percossi. Leonard, invece, aveva ricevuto una zoccolata alle spalle e alzarsi gli sembrò un'impresa.
Ancora in parte tramortito, convulso, voltò la testa a destra e a manca, per stabilire le coordinate geografiche e mentali della sua posizione. Alle sue spalle una possente gru di rosso sbiadito, alla sua sinistra un manipolo di casette, innanzi a lui il Centauro e alla sua destra... la porta! La via della libertà, un chiavistello pronto per essere aperto, verso l'aria fresca e nuova. Era imponente e lunga quanto le mura. A un lato presentava una scaletta di ferro che portava a una piccola pedana. Lì c'era un piccolo quadro digitale con tanto di tasti. Bisognava passare la tessera, digitare il codice e... apriti sesamo! Troppo vicini erano alla vita per lasciarla sfuggire, troppo vicini erano alla morte per non poter vacillare di desolazione nei loro cuori. Ora era tutto in mano alla conta della probabilità, forse? Un misero cinquanta e cinquanta? Testa o croce? Tutto quello solo per ritrovarsi nuovamente in bilico? O era stata forse proprio la loro determinazione a permettergli di giocarsela quanto meno alla pari? Fulminanti erano quei pensieri nella testa di Leonard, ma furono spazzati via dal ruggito del Centauro.
Quando i suoi zoccoli toccarono il terreno, le suole delle scarpe sembrarono sussultare, come un mezzo pesante che passa troppo veloce sulla strada. Capelli neri come criniera, il suo corpo incupiva di quel limpido scuro, inghiottendo ogni fonte luminosa. E quegli occhi fluorescenti brillavano minacciosi nella notte fatale. Scattante, Leonard provò a raggiungere Jennifer alla sua sinistra, che intanto piagnucolava dal dolore con una mano sulla guancia, e provava a rialzarsi. Un fendente dello zoccolo d'acciaio vibrò sul suo fianco, un veemente calcio che lo fece volare via. In un unico balzo, il suo corpo, ora leggero e flebile, accecato da una fitta fiammeggiante, rovinò su una sottile lastra di ferro, il recinto che circondava la gru, tintinnando di un assordante tremito metallico. Piombò di fianco sul duro terreno. Il suo fiato sembrava essersi bloccato, come carburante che non arriva più ai cilindri. Ma il suo cervello non riusciva a contemplare la resa.
«Leonard, fermati!» urlò disperata lei alla vista di lui che, infuocato negli occhi e con la bocca distorta dalla rabbia, coi denti digrignati, si avventava sul Centauro, caricando il suo braccio d'aria, gonfiandolo fino quasi a sentire i muscoli cigolare. Il mutato non si fece attendere e caricò la sua forza sovrumana sulle zampe e, rapidissimo, scattò in direzione del ragazzo. Non bastò che lui evitasse il mostro e lo colpisse con una tromba d'aria al fianco. Un pugno sibilò e in pieno volto fu colpito. Seppur dolorante, il Centauro si accese ancor di più d'ira. Cominciò a sbavare e a latrare, mentre Leonard era stanco e tramortito sul terreno. «Leonard! Leo...» il fiato di lei le si bloccò in gola. L'aveva presa. Il Lanciatore stringeva il collo di Jennifer. La ragazzina provò a scalciare, ma lui la teneva a distanza, estendendo il suo braccio in tutta la lunghezza. Sollevata dal terreno, si sentiva grave sul collo, una presa ossessiva, ferma, che le impediva di respirare. Divenne vermiglia e i suoi occhi strabuzzarono di fuori, spiritati e intimoriti dall'ossigeno che a stento fluiva nel cervello. Strisce di sudore le colavano sugli occhi e fiotti di bava le impastavano gli angoli della bocca. Nonostante ciò, i suoi pensieri desideravano ignorare il suo corpo. Cercava con lo sguardo Leonard, l'amore della sua vita. La sua visuale era appena sufficiente per vederlo alla sua destra. Strozzata, rantolò: «Leonard... fuggi! Fuggi! Non badare a me...».
Con le mani e un gioco di spalle, fece scivolare via lo zainetto, che si impolverò nella terra. Frattanto, un lampo illuminò il cielo e le narici cominciarono a sussultare di umidità in condensazione nell'aria. La nebbia, prima fioca come una patina, ora diventava incalzante. La pioggia stava arrivando, questa volta violenta e incessante. «Lasciala stare, figlio di puttana!» ringhiò lui, proiettandosi contro il Lanciatore. L'ira gli fece dimenticare che ce ne fosse un altro, ancora più grosso. Un pugno sfasciò il suo volto. Fiotti di sangue dalla bocca e dal naso schizzarono via come pompati da una pressione innaturale. Il mondo divenne cremisi e il calore inondò il suo viso, accompagnato da un lancinante dolore di muscoli inermi e schiantati. Nonostante tutto, provò ancora a rialzarsi, con il campo visivo velato di sangue e ancora una fitta allo stomaco che lo fece imprecare e smuovere convulso sul terreno. Era a pezzi, ma la sua determinazione e il suo amore lo facevano vibrare e rinvigorire.
«Basta Leonard, fuggi!» rantolò lei con la gola infiammata, collo arrossato in nodi violacei, venuzze pronte a esplodere come tubature troppo sospinte all'interno dalla pressione. «Gne, gne, gne!» gracchiò una voce tremendamente familiare. «Il giovanotto vuole farsi fare qualche altra sega dalla puttanella! Non ti piacevano quelli della tua nonnina!?». «Zitta, vacca!» protestò Leonard, fumando in direzione degli occhi alieni della Vecchia Signora che mostrava ora denti marci fuori dalle labbra appena separate, imputridendo l'aria con il suo alito di fogna. Il volto del ragazzino era imbrattato del suo stesso sangue, gocciolante al mento, ansimante e con fitte che gli battevano in tutto il corpo, ma soprattutto allo stomaco e al volto, ora tagliati da lame invisibili. La falce di lei, all'improvviso, cominciò a sventolare come una bandiera nella notte infernale di quella estate a Primestone. Ogni strappo, ogni taglio nell'aria sembrava una corda metallica percossa da un forte vento. Tale era la forza che un lieve turbinio si agitò sulla pelle dei ragazzini.
«Gne, gne, gne! Fateli fuori questi peccatori bastardi! Fateli ballare! Fateli ballare!!!». E innalzando le braccia al cielo, la sua pelle, come se le fosse stata lanciata una secchiata improvvisa, si colorò di limaccioso liquame nero, lo stesso che aveva avvolto John Harris alla centrale nucleare. Ancora più fluorescenti s'illuminarono i suoi occhi. E al comando della Vecchia Signora, il lanciatore serrò ancor di più la presa sul fragile collo della ragazzina, mentre il Centauro rovinò con uno zoccolo sul petto di Leonard, schiacciandogli la cassa toracica. Ora lei rantolava con le strisce di saliva ai lati della bocca, schiumosa bava che protestava contro la morte in avvicinamento, mentre lui gorgogliava di sangue che gli ostruiva la respirazione. E mentre gli altri Sfigati giungevano a metà strada tra l'uscita salvifica e i loro due amici, Jennifer contemplò la vita farsi beffa di lei e del suo amato, sorriderle e voltarsi di spalle, avviandosi verso la soglia mortale, finta contentezza di un uomo che, devastato, decide di togliersi la vita. Cosa fare? Sempre quello era il problema, cosa fare. A volte si pensa che poltrire in eterno su un divano e infischiarsene di ogni scelta sia una soluzione ottimale. Ma nulla si può. Non importa quanto si rimandi un problema, quanto si svii dai guai, quanto crediamo di sfuggire alle nostre responsabilità o quanto arrabbiati siamo quando vediamo che i risultati non fruttano. La vita ti prende, ti afferra e ti scaraventa, vuoi o non vuoi.
«Vuoi vivere? Allora reagisci» sembrò mormorarle la vita, allontanandosi da lei lungo il viale della fatale assenza di luce. Fu così che il tempo si fermò e la divinità che era in lei si manifestò. Prima solo un recondito e sfumato sentimento, sentore di qualcosa che si nasconde dietro una porta, gli Sfigati percepirono in tutta la sua forza quell'essenza anomala che rendeva Jennifer non un leader, ma qualcosa di più neutrale, qualcosa di meno incline ad ascoltare stupide preghiere recitate a bassa voce nei letti di casa. Divino fu l'unico pensiero che abbagliò le loro menti ora vuote, intasate di quell'unico sentimento, quando videro Jennifer illuminarsi alle tempie e agli occhi di un bianco luminosissimo, tale da inglobare luna e fari, come faretti accesi di giorno. Il Lanciatore non ebbe nemmeno il tempo di restare folgorato da quel bagliore, che sentì come un peso premergli sul braccio. Tale fu l'esplosione del suo arto, che si contorse, si dilatò e infine si spappolò in ruscelli di sangue e brandelli di carne, che non avvertì neanche dolore.
Si ritrovò pressato al suolo, con una morsa sulle spalle, mentre l'osso fuoriusciva dalla carne, dove un secondo prima c'era un intero arto. Una devastante tempesta scosse il Centauro che mollò la presa del suo zoccolo su Leonard. Il ragazzo fu spazzato via, mentre la Vecchia Signora si parò con la falce, solcando il terreno per un paio di metri con i suoi stivali. Gli altri Sfigati, impietriti, meravigliati, quasi nauseati da quella visione potente, sfavillante e paurosa, osservavano Jennifer scintillare di raggi luminosi e bianchissimi che sembravano generarsi dal nulla alle sue spalle e disperdersi sfumando nell'aria pochi metri dopo. In quel momento, Jennifer osservava la Vecchia Signora, quella donna mutata sconvolta dalla furia omicida, raccapricciante, cadavere amorfo emerso dalla tomba. Non un cenno di stupore alimentò il suo volto alla vista della forza della ragazzina. Era come pietrificata, la maschera assassina di un nativo indiano pronto al sacrificio. Jennifer, negli occhi fatali di quel mutato, vide un cupo bagliore riflesso, fluorescente che si diluiva in sottili strisce nere. Non aveva dubbi, quello là aveva preso possesso del corpo del mutato.
E quando l'universo era solo un groviglio sterile senza vita, un proiettile sparato che ancora è fuoco e non è spenta morte, per la prima volta quello là sentì qualcosa di nuovo. Già al suo arrivo sulla Terra, aveva tremato alla scoperta di quanto nutriente ed eccitante fosse quel sentimento che gli uomini identificano con la paura. La carne, povera e dapprima inutile a sfamare il suo appetito cosmico, aveva assunto una veste mistica, anche alla presenza di una divinità. Mangiava solo radiazioni, invisibile energia irradiante che placava i suoi istinti e gli donava sferzante vitalità. Ma quando provò la carne intrisa di terrore, non ne poté più fare a meno.
Divertito e sferzante all'idea di essere l'unico dio tra gli dei ad aver provato una simile leccornia, si sentì invasato, superiore in un certo senso, diverso. Aveva provato qualcosa che i suoi Padri non avevano mai assaporato e mai immaginato di interiorizzare nella loro coscienza extradimensionale, lontana da qualsiasi percezione e condizione umana. E nessuno poteva ribaltare quel suo pensiero, era convinto di essere il sovrano di un nuovo Mondo, unico proprietario di un tesoro che lo innalzava al di sopra dei suoi stessi Antenati, affronto che sempre aveva bramato, ma mai aveva congegnato. Rassegnato a un'esistenza di secondo piano, il solo fatto di tramare contro gli altri lo faceva sentire vuoto di una sensazione nuova ma indescrivibile, simile alla gioia, ma assai più potente. A volte gli sfiorava l'idea di spodestare il suo Signore, padre dei suoi Padri, madre delle sue Madri. Ardito era quel desiderio, mentre con le fauci dilaniava carni voluttuose di paura, esotici terrori stranieri, esterni alla logica viltà del pericolo, tendini paralizzati dal rimorso di essere stati inermi di fronte all'ignoto orrore.
E grazie alle scorie della centrale e ai giovani mutanti di Primestone, quello là conduceva una vita spensierata, alimentando il ciclo che lui stesso aveva creato, un microcosmo fatto di un continuo agognare, masticare ed eccitarsi. Un luogo ora a sua immagine e somiglianza, sporcato un giorno da dei ragazzini... Sfigati. Esseri miseri, inferiori, insignificanti che avevano osato affrontarlo, rompere il suo cibo, disturbare la sua mente riflettendo le loro stesse paure su di lui. Ora sapeva cosa fosse la paura e un dio non può avere timore delle sue prede, anzi, timore non può conoscere. Quel sentimento flebile di riverenza verso gli dei Maggiori, ora diventato veemente, non era rivolto a suoi simili, ma erano stati quegli esseri inferiori, umani dal codice genetico alterato, che lo avevano reso più "basso", in una certa misura. Fatto nuovo, per la prima volta da sempre. Forse ora capiva cosa provava il suo Signore.
Dapprincipio, dopo che ebbe creato l'universo, un dio esterno lo sollevò dal suo incarico di Danzatore del Caos, e il Padre di tutti i Padri fu relegato in una gabbia insieme ai suoi figli, un mondo più stabile, inerme. Accatastati in un unico punto, vivevano una vita marginale. Poi nacquero i Kodrak... se ne andarono... e poi tornarono... e quello là finì sulla Terra, scoprendo cose nuove, piacevoli e spiacevoli. Per nutrirsi aveva dovuto assumere una forma più contingente alla realtà, ma quella condizione lo aveva reso inaffidabile allo stesso tempo. E non era finita di certo lì. Non solo le sue forme venivano sconfitte da quei mocciosi, ma la sua mente era stata violata da quella ragazzina magrolina dagli occhi verdi, piccola peste che deteneva un potere troppo grande per essere stato affidato a una scimmia con un cervello più grande. Era forse stata scelta? Non solo ne era stata violata la sua forma scadente, ma anche la sua forza più estrema era stata sfidata. Odiava a morte gli Sfigati, ma Jennifer più di qualunque altra cosa, più dei suoi stessi indifferenti Padri, più del suo stesso Signore che tanto misero lo aveva fatto a confronto agli altri. Per la prima volta nella sua vita, dubitò della sua immortalità. Davvero anche un dio, per quanto piccolo, poteva morire? E per giunta ucciso da una creatura biologica?
Il Fato aveva donato una forza tale a quello scarabocchio di carni e viscere da soverchiare l'immane dimensione dell'Extra? O anche lei aveva l'Extra? E come poteva? E allora una vera scelta era stata fatta... E quei pensieri lo cominciarono a disturbare e la sua unica missione divenne quella di uccidere lei e gli altri Sfigati. Il timore reverenziale si era tramutato in un sentimento che non aveva provato neanche nei confronti degli altri suoi simili: collera. Voleva ucciderli, disintegrarli, spazzarli via, portarli come sacrificio al suo Signore, sedere alla sua destra e banchettare con lui, offrendogli quei doni tanto meravigliosi, carne inzuppata di paura, cibo che lui unico conosceva. Per qualche ragione inspiegabile, gli Sfigati sfuggivano alle leggi del cosmo, al suo potere divoratore, un accidente immaginario che stava scuotendo l'universo. Prima o poi, anche gli altri se ne sarebbero accorti.
E ora quello là guardava quei mocciosi e Jennifer indugiare per poi reagire al suo potere. Ma nonostante la sua orrida determinazione, un pensiero di dubbio s'insinuava in lui, si opponeva come ad alimentare una forma fastidiosa di disagio mentale. Se tutti gli esseri sono sotto gli dèi, perché quei piccoli mocciosi umani riuscivano a protestare contro di lui, a eluderlo, a prendersi beffa del suo potere? Come era possibile che esseri biologici potessero recare danno, dolore anche piccolissimo, a una creatura che spaziava oltre la comune dimensione esistenziale? Una nuova sensazione provò la creatura aliena, metà corpo e metà anima. E se (ipotesi raggelante) il dio esterno li stesse aiutando? E se li stesse guidando contro di lui, in un ignoto meccanismo che solo una dio supremo può intravedere, tramando contro di lui. Tremava... tremava e si eccitava.
Non c'era paragone tra lui e il dio esterno. E mai ci sarebbe stato. Goccia contro oceano, brezza contro tornado, fuoco fatuo contro incendio. Eppure, se davvero si stava opponendo a lui, forse quello là non era poi così insignificante e minore? Era forse ingranaggio di un piano eterno e infinito che stava muovendo i primi passi? Una spinta che qualcuno stava dando al Tutto per portarlo verso una nuova strada? Tremore ed eccitazione imperversarono nella sua natura. Tutto era nuovo per quello là. Ma ora non era più tempo di pensare... Jennifer si avvicinava allo stato divino, mentre lui sprofondava in quello di disgustoso dubbio terreno... ma una certezza l'aveva: l'avrebbe presa, strapazzata, gettata verso il muro del Tutto, nell'immensità delle pareti dell'Extra e l'avrebbe trascinata nella Stanza del Giusto e del Vero. E lì sarebbe sprofondata agonizzante, urlante, impazzita, nella nera danza eterna. Avrebbe ballato. E sarebbe stata un'orgia senza fine.
Gli occhi brillanti di luce sovrannaturale di Jennifer, come anime del paradiso, imperversavano in quelli della Vecchia Signora (quello là) e quelli scintillanti e incattiviti dal nero fiume dell'ira del mutato fluttuavano saettando scariche elettriche nei confronti della nemica giurata, metà umana e metà infetta di sangue di creature sue simili. Jennifer, concentrata in un turbine di ira e inconsapevole forza che mai aveva pensato di possedere, intravide con la mente i suoi amici in lontananza, osservarla meravigliati e anche un po' impauriti, serrando le labbra come se la loro amica si stesse tramutando in qualcosa di magico.
«Prendete lo zainetto, strisciate la tessera e digitate il codice! Uno, cinque, nove, otto!» gridò Jennifer a pieni polmoni, con fronte aggrottata, non distogliendo mai lo sguardo serio e severo dalla Vecchia Signora, minacciosa con la sua lama. Lo zainetto si materializzò all'improvviso nelle braccia di Chris che a stento riuscì a tenere la presa, barcollando all'indietro. Tale si era palesata l'immagine che le retina impiegò un lungo fotogramma per imprimere l'immagine, ombra improvvisa che si materializza in un oggetto solido. «Sbrigatevi!» urlò di nuovo Jennifer. «Uno, cinque, nove, otto!». «Presto, andiamo!» tuonò Thomas innervosito e gli altri Sfigati si apprestarono a correre verso la piattaforma. I loro cuori avrebbero voluto buttarsi nella battaglia, ma un sentore di inconscia ragionevolezza gli suggerì di farsi da parte. Erano troppo piccoli, come formiche che assistono a una battaglia tra due tori. Dio terreno contro dio cosmico, stella nascente contro stella cadente. Chi avrebbe mai vinto? Era come l'ultimo scontro di una saga di fumetti di supereroi, dove il buono affronta il cattivo finale.
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