CAPITOLO 11 (Parte 6)
Thomas Watt, originario di Grand West City, brillante e assolata metropoli posta sull'oceano opposto a quello su cui si affaccia Grand North City, era figlio di Finn Watt, famoso attore cinematografico degli anni Ottanta, e Catherine Watt, ballerina di teatro. I suoi genitori, sposatisi dapprincipio per amore, divennero negli anni perfetti estranei. Solo l'obbligo morale costituito dalla nascita del loro unico figlio riuscì a tenere in piedi la loro relazione, come un trapezista a cui hanno amputato un arto. Poveri dalla nascita, la ricchezza che riuscirono ad accumulare grazie alla loro fama inebriò le loro menti a tal punto che non si preoccuparono di assicurarla con qualche investimento fruttuoso e redditizio. Ben presto, tutti i loro averi andarono sperperati in costose automobili, ville lussuose, abiti sfavillanti e cianfrusaglie varie di bassa utilità. Finn, innamoratosi anche del gioco d'azzardo, non impiegò molto tempo per finire nelle mani degli strozzini.
Mentre Thomas, ricco bimbo viziato, ammaliato da un mondo dorato quanto fittizio e privo d'animo, si divertiva a fantasticare su ciò che sarebbe voluto diventare, un grande attore, presenza costante nello show business, fu catapultato a forza nella triste realtà della maggioranza: i problemi quotidiani. Finn, finito sul lastrico, per l'ansia e la paura, accumulatasi negli anni, di finire massacrato da qualche malvivente, suoi conoscenti, si ammalò e si spense sul letto di casa sua, con la moglie disperata che spaccava piatti e bicchieri in cucina. Thomas dovette sopportare la vista dei medici e delle domestiche che svolazzavano come mosche sul cadavere del padre. Gli uomini ingaggiati dalla banca per confiscare i beni dei Watt vennero addirittura al funerale. Quello era l'ultimo ricordo della sua vita passata, prima di giungere a Primestone. Solo da sempre, i genitori gli erano sempre sembrate figure la cui autorità era la loro unica forza. S'era sempre sentito un peso e, sebbene fosse solo bambino, sapeva che i suoi stavano insieme solo per via della sua presenza. Ed era forse per quello che non lo coccolavano? Era per quello che mai una carezza o un bacio era stato a lui offerto? Ricco, ma povero. L'unica consolazione era il suo piccolo segreto. Piccole scossette elettriche che scintillavano tra le sue dita piccine.
Mentre le finanze sprofondavano in un pozzo nero, come la vita di suo padre e la stabilità mentale di sua madre, il suo unico rifugio erano il sogno di diventare attore e la soffitta che custodiva i ricordi di famiglia, ammuffiti e impolverati dagli anni. Sua madre gli proibiva di recarsi lì sopra, era un ambiente tetro e pericoloso per un bimbetto, ma al diavolo la madre, preferiva lasciarla strillare e affogare nel suo dolore, perché preoccuparsi delle sue lacrime, quando mai nessuno si era preoccupato delle sue? Mise una sedia appena sotto la botola, tirò la cordicella e, come in uno spettacolo di magia, apparve una scaletta di legno chiaro che conduceva a un mondo di sommersa bellezza, anfratto artificiale reso onirico dalla mente fantasiosa di Thomas. Tra cavalieri, principesse e draghi, sognava con la sua spada di cartone centinaia di avventure, storie eterne di mondi da lui stessi creati, vivi e reali per lui, come il fatto che suo padre non ci fosse più. Con le lacrime agli occhi e i piedini scalzi cominciò a saltellare, sollevando nuvolette di polvere, preistorici deserti che ora si palesavano davanti ai suoi occhi. Poco importava che gli bruciassero gli occhi, che le pareti sapessero di muffa e di stantio, che l'umidità impregnasse i suoi polmoni. Quello era il suo mondo, unica gioia di un mondo che non accettava la sua presenza, indifferente come un uomo indaffarato che posa lo sguardo sulla barba di un barbone. E se la vita gli mostrava indifferenza, allora perché vivere lì se posso vivere qui?
Risa gioiose e cariche di tristezza risuonavano sulle pareti, macilente dimore di tarli, tra vecchi bauli, diari, libri, album fotografici e tutto ciò che la famiglia Watt conservava più per tradizione che per autentica riverenza degli eventi passati. Perché il passato fa il presente, ma il presente fa il futuro. Thomas desiderava che quel presente di fantasia diventasse reale, ma ben presto imparò che, per quanto ci si sforza a rinchiudersi in una bolla, prima o poi si entra a contatto con altre bolle. O magari con un pipistrello. Così, intento a fare piroette, sguainando la spada giocattolo che aveva costruito lui stesso, non si accorse della tendina che ostruiva il passaggio della luce dal grosso oblò di vetro, che dava sul giardino della dimora Watt. Incespicò nel drappo troppo lungo e rovinò a terra con il sedere, lanciando un urlo di dolore, un guaito acuto. Mentre l'immagine della sua guerra immaginaria contro i draghi scoppiò nella sua testa, proprio come la bolla di sapone che sempre usava per isolarsi dal mondo, un pipistrello, rintanatosi in qualche fessura nella notte, ora padrone della mansarda, squillò in uno squittito acuto e lamentoso, urtato dai raggi solari sui suoi poveri occhietti di nero tizzone. Un fruscio d'aria e il battito delle alette indiavolate sferzavano nel locale, un delirio animalesco,di un abitante della notte infastidito nel suo sonno.
Thomas, terrorizzato, cominciò a strillare, mentre la piccola creatura sbatteva con la testa su ogni parete. In un soffio, lisciò i capelli del bimbo, che singhiozzò con la pelle accapponata. Come un fulmine, si drizzò in piedi e corse verso la botola, strepitando come se qualcuno lo volesse ammazzare. Impaziente, avrebbe preferito buttarsi giù, ma quel briciolo di pensiero senziente gli ricordò che rompersi un osso non era un'opzione. Si voltò di schiena e cominciò a calpestare gli scalini, mentre i passi di una domestica si avvicinavano imperterriti verso di lui. «Thomas! Tua madre ti punisce se sali lì sopra, lo sai!». Con occhi colmi di umidità, con il cuore scalpitante in petto e fiato corto, il bimbo strillò: «pipistrello, pipistrello!». Proprio in quell'istante, la bestiolina sbucò dall'apertura, solcò di nuovo il mare di capelli della testa di Thomas e si schiantò in un frastuono nauseante di ali contro il petto della donna. Tale fu l'urlo che sembrò che la casa rispondesse inveendo contro quell'acuto troppo grave. Una giornata intera ci volle per scacciare l'animale dalla casa, armati di pazienza, coraggio, scope e una dose di buona fortuna. Da quel giorno la figura del pipistrello avrebbe perseguitato Thomas, che la associava per qualche motivo al ricordo del padre morente.
«Pipistrello!» sbraitò Bobby alla vista di una gigantesca ombra nera, una creatura con dodici metri di apertura alare, un pipistrello troppo cresciuto che, con faccia indemoniata, digrignava le sue fauci, orride di canini vampireschi come spade medioevali. Perle aveva al posto degli occhi, di un nero così lucido che sembrava preso a prestito dalla notte più buia. Dispiegò le ali e le batté, generando un fruscio così violento che quasi fece cadere gli Sfigati. «Ma porca Eva, Thomas! Ma qualcosa di più semplice, no!?» si lamentò Leonard. «Mi dispiace, ragazzi!» si giustificò lui affranto dal pianto e in un gesto di scuse con le mani convulse. L'essere si librò in volo e, come abbaglianti d'auto, i suoi occhi si illuminarono di quello scocciante e ormai stomachevole fucsia fluorescente. Era apparso dal nulla, come un'estensione dell'ombra che abbracciava la libera terra desertica di quelle campagne abbandonate, aride e prive di vitalità, marcite di un male ossessivo e invisibile, che tregua non lascia a chi vuole prosperare. Un possente urlo animalesco, un verso mai udito prima, salì al cielo fino a raggiungere l'altezza di un palazzo di sette piani. Poi il pipistrello puntò verso il suolo, in direzione di Thomas, spalancando le fauci. Un fetore mortale di scarichi industriali e uova marce proveniva dalla sua gola, gocciolante di liquami di scarichi, un buco di fogna infestato da bolle di pus giallognole grosse come teste. Thomas inorridì. Se non fosse stato per i suoi riflessi, sarebbe stato inghiottito come un tozzetto di pane. Come un'escavatrice, estirpò decine di chili di terra, facendo vibrare l'aria come di ferraglia e ossa masticate da una enorme pressa, caricata di tanfo acido e turbinio ventoso d'ali indiavolate. Un muro di terriccio si sollevò, fine come la nebbia mattutina d'autunno, oscurando la vista di Thomas.
Frattanto, gli Sfigati, travolti dall'onda d'urto generata dal battito alato, ruzzolarono con sinuose capriole sul terreno, provando a tracciare solchi con le dita, nel tentativo disperato di trattenersi. Non ci volle molto affinché quel sipario di terra sollevata diventasse cupo d'ombra, per poi esplodere in un'immagine di assoluta ostilità, malvagia follia. «Dannazione, attenti!» urlò Chris. Se non fosse stato per una frustata di fuoco creata da Sophia, qualcuno degli Sfigati sarebbe finito arpionato e strappato da uno degli artigli d'acciaio di cui erano munite le zampe posteriori della bestia. Fu in quel momento che, per pararsi, il pipistrello palesò il dorso delle ali, metalliche e lisce di un nero che sembrava inghiottire la luce. Un altro latrato assassino lanciò il pipistrello mutante e il trambusto gelò gli organi dei ragazzini. L'ennesimo turbinio li fece volare via, come sassolini scaraventati da una rupe al passaggio di una gomma di ruota troppo rapida.
Quando Jennifer, stordita e con rivoletti di sangue sulle braccia, alzò lo sguardo con un occhio chiuso, per esser testimone di ciò che la creatura stesse per fare, nelle sue orecchie tintinnò un urlo di battaglia. Thomas aveva gridato. «Maledetto pipistrello, lascia stare i miei amici e veditela con me!». Aveva allargato le braccia, gonfiato il petto e sussultava a ogni battito di cuore, come se troppo pesante fosse diventato quell'organo per tenerlo ancora in equilibrio. Quando l'animale si voltò, a Thomas parve che la sua testa non avesse più una geometria ben definita, quanto piuttosto gli apparve come una grottesca e contorta figura disegnata da un bimbo delle elementari. Solo il flash fucsia fluorescente riflesso nei suoi occhi lo fece ritornare alla realtà. Un urlo demoniaco, ancora un fruscio d'ali e il pipistrello ripiombò sul ragazzino. Spalancando le fauci, impetuoso volgeva la sua forza proiettata in un'unica cannonata. Senza inibizioni fisiche o mentali, per una frazione di secondo che sembrò essersi congelata all'interno di un'era glaciale, gli Sfigati tremarono di vita e morte allo stesso tempo, convinti che l'essere avrebbe ucciso il loro amico. Ma così non fu.
Come se la luce lunare usasse Thomas per amplificare il suo bagliore, proiettò un cono luminoso sul demone alato, accompagnato da uno strillo stridulo e acuto del ragazzino: «Luce, bestiaccia, luce!!!». Un polverone solenne e grigio si sollevò. Il pipistrello si era fermato a metà strada, tra il cielo e la terra, a pochi metri da Thomas. Dal silenzio tombale si passò al guaito di dolore più mistico e spaventoso. Grida di dolore. «Luce, bestiaccia, luce! Guarda quanta luce che c'è!» strepitava il ragazzino, con le corde vocali secche e la fronte inzuppata di sudore. Dopo l'ennesimo lamento bestiale, uno scoppio come un palazzo che collassa a terra inneggiò nell'aria come un tonfo di sconfitta. L'aria che si liberò fece catapultare Thomas con la testa a terra. Una decina di capriole ci vollero per arrestarlo, seguite da un singhiozzo di lancinante dolore alla schiena e alle articolazioni. Nessuna possente ombra nera dissanguava il suo malessere assassino nell'aria e il tanfo se ne era andato così come improvviso si era palesato.
«Non male, trombone» sorrise Lucas dando delle pacche sulla schiena a Thomas. «Sei stato grande!» commentò Jennifer, rincuorata. Occhi di giubilo festavano nei loro volti corrosi dalla stanchezza. Ansimavano pesanti e, all'ennesima battuta di Thomas, avrebbero voluto ridere isterici per scaricare la tensione. Ma mentre le loro menti echeggiavano di risate, le loro labbra erano come serrate, aride e screpolate come levigate troppo dal calore. Non un centimetro quadrato della loro pelle era rimasto asciutto o privo di sporcizia. «L'ho accecato con il riflettore di Batman, l'avete capita? Con il riflettore che serve per chiamare Batman!». Le labbra appena alzate di Thomas ricaddero tese dai nervi sfiancati, come corde troppo tirate. «Andiamo ragazzi, non manca molto, me lo sento» disse Jennifer con un filo di voce, appena percettibile nel concerto sibilante dei loro respiri affannosi. Un cenno d'intesa con il capo fu sufficiente affinché tutti si rimettessero in marcia. Appena ricaricati di una nuova vittoria, divennero stracolmi d'emozione gioiosa quando intravidero in lontananza delle alte palazzine di cemento sporgere appena con i loro tetti oltre una collinetta. Un'alta gru, cupo metallo nell'umida notte, ombreggiava come un gigante dormiente. Sentivano che oltre quel manipolo di costruzioni abbandonate, una vecchia area residenziale mai terminata, si sarebbero ritrovati innanzi alle mura esterne della città.
«Evviva!» esultò Sophia, sfociando in un balzo che le sollevò appena la maglietta, mostrando il suo ventre piatto, mentre Taylor brillò svolazzando i due peluche all'aria. Jennifer abbozzò un sorriso di parziale felicità, mentre i maschi gridarono in coro: «chi a Primestone resterà, in culo lo prenderà!». «Ragazzi!» sbottò Sophia in un misto tra imbarazzo e meraviglia. Si mise a ridere e la sua eco notturna fece da apripista per le risa sguaiate di tutti gli altri membri del club. Ora avevano la forza per farlo, sorretti dall'idea di aver finalmente raggiunto un traguardo che sembrava tanto lontano, un così agognato, dolce trionfo. E poi... soffio mortale.
Le loro schiene raggelarono come chiodi lasciati assiderati nei ghiacci dei poli. Istantanei, i muscoli cessarono di pompare la loro forza, stemperando il loro moto in una disarmoniosa frenata. Guardarono la luna e la luna guardò loro. Piena, pallida, come formaggio illuminato dal candore di una lucetta posta in un vecchio frigo lamentoso, sembrò vibrare anch'essa dal freddo. O forse era solo il vento che si alzava, sventolando i loro capelli malridotti, seccando i loro occhi, inaridendoli come fiumi deviati per far nascere nuove colture. Lentamente, i loro volti, cigolanti di tessuti muscolari tesi come ferraglia, si voltarono, contemplando il paesaggio alle loro spalle. Primestone appariva come una macchia nera, mummie di cemento sembravano i palazzi, anneriti di carbone millenario. Scintillante, la cupola del campanile sembrò un dito rotto in lontananza. Uno scossone di paura afferrò per la gola gli Sfigati. Su un'altura, a dieci minuti di corsa, tre macchie allungate verso l'alto sembravano ondulare come miraggi nel deserto. Ombre cupe nella nera ombra. Le loro sagome, lontane ed eteree, erano visibili solo per via di una contorta sfumatura di fucsia fluorescente che sembrava catturare l'aria in una sfera deforme. «Ragaffi, − sussurrò Ed − ditemi che non fono quelli che penfo io». «Maledizione» riuscì a biascicare Chris. Gli altri sembravano entrati in uno stato di catarsi fantastica e inafferrabile. All'improvviso, ancora confusi da quei punti distanti, ma che trasudavano di morte come un alito fin sulla pelle sudata, sentirono i loro timpani agitarsi per via di un sibilo che in meno di un secondo divenne un acuto. Metallo che lacera l'aria. «Giù!» tuonò Leonard.
Boom.
Se non fosse stato per l'ennesimo miracolo, come una mano divina che avvolge il conducente salvandolo da uno schianto fatale, una sfera di ferro di dieci chilogrammi li avrebbe dilaniati. Esplose come una granata, innalzando un cumulo di terra come un piccolo fungo atomico, ad appena una quindicina di metri da loro. Solo perché si gettarono per terra l'onda d'urto non li fece volteggiare come aquiloni in una ventosa giornata sulla spiaggia. «Via, via!» urlò Lucas. In una sequenza di scatti potenti quanto dolenti, gli Sfigati furono in piedi. La morte, quella di un omicida che ti accarezza prima di pugnalarti, leccò i loro cuori e le loro teste con sguaiata ed eccitante malvagità. Da quel punto lontano, una vecchia mutata di nome Dorothy, la Vecchia Signora batteva i denti in una frenesia isterica d'ira e follia. Accanto a lei c'erano il Lanciatore e il Centauro, possenti e apparentemente calmi, coi volti rilassati e corpi tranquilli, che osservavano sprezzanti quegli angioletti peccatori allontanarsi spaventati, come uccellini infastiditi dal rombo di una marmitta bucata. Mentre il mutato con la maschera da hockey caricava un altro colpo, Dorothy sussurrava tra sé e sé, con occhi tinti di una luce malsana: «chi peccato ha, alla fine punito verrà... chi peccato ha, alla fine ucciso verrà... chi peccato ha... alla fine, ballerà!».
Frattanto, gli Sfigati cominciarono a sfaldarsi senza accorgersene, aprendosi a ventaglio. Sarà forse stato un sentore, ma in quella disposizione credevano che sarebbe stato più difficile tramortirli tutti in un solo colpo. Intelligenza istintiva. Jennifer correva alla destra di Leonard, distante solo un paio di metri. Insieme, si stavano separando dal resto del gruppo. Sembrava uno stormo di oche, con quelle più vecchie che arrancano perdendo la posizione. Leonard avvertì un sibilo familiare.
Boom.
Jennifer si ritrovò scaraventata a terra, con la faccia impolverata. Terriccio e arbusti limacciosi le avevano appiccicato le labbra. Sputò un paio di volte prima di liberarsi di quell'impasto secco e acre. Si alzò buttando il peso su una sola gamba (l'altra era troppo intorpidita) e si rese conto, voltandosi, che Leonard era disteso, dolorante a una spalla. Si contorceva dal dolore e gemeva appena. La ragazzina non aveva capito, frastornata com'era, che una palla assassina l'avrebbe colpita, ma Leonard con una spinta l'aveva fatta ruzzolare a terra. Il nudo metallo aveva sfiorato i capelli del ragazzo. La cannonata s'era schiantata una ventina di metri più avanti, ancora fumante come un cannone appena adoperato. «Leonard!» strillò lei. «Sto bene, sto bene!».
Il ragazzo si stava già sollevando, con la faccia mezza morsicata dalla fatica, con un occhio socchiuso e la bocca semiaperta. «Andiamo, andiamo!». All'incitamento dell'amico, Jennifer scattò, affiancandosi a lui. Solo altri tre minuti di assurda corsa e si resero conto di essere soli e di essersi separati dagli altri Sfigati. Tra alti tubi di cemento e ferro, si arrestarono, frastornati e smarriti. «Jennifer, che facciamo!?» urlò il ragazzo passandosi ansioso una mano tra i capelli. Jennifer lo guardò attonito. La luce di speranza nei suoi occhi si stava spegnendo, ma lei non vacillò neanche allora. Dobbiamo uscire a tutti i costi, pensò lei. «Andiamo dritti, raggiungiamo le mura! Gli altri saranno andati di sicuro in quella direzione!». Leonard sembrò assente, meccanico, come se l'anima avesse fatto le valigie e stesse per chiudere la porta. «Leonard!» latrò lei. Scosso fino alle spalle, sembrò rinsavire. La ragazzina, imprecando nella mente, l'afferrò per un braccio e con uno strattone gli intimò di correre.
L'angosciante silenzio della notte sembrava soffocare perfino i loro respiri. Qualche rara pozzanghera stagnante tremava al battito delle loro suole. Ora camminavano tenendosi per mano, una malinconica compagnia, accompagnata dalla morte che li inseguiva, come un segugio rabbioso. Le sterili palazzine, all'improvviso, lasciarono il posto a scialbi e macilenti casali di legno. Quando innanzi al loro campo visivo si sollevò un'immagine ferrosa e liscia, la porta di metallo che chiude la gabbia di un canarino, capirono di essere arrivati al capolinea. Non ebbero il tempo di gioiere che udirono il latrato bestiale dei mutati.
In assenza dei loro amici, a così pochi passi dalla libertà, sotto alle alte mura di Primestone, d'istinto si diressero verso una casa abbandonata e polverosa su un'altura. Trovarono la porta aperta. Varcando la soglia, Jennifer sospirò e richiuse la porta alle spalle, con un tonfo accompagnato da un lento cigolio. Jennifer ansimava. Leonard ansimava. Lei si voltò verso di lui. «Aspettiamo che arrivino gli altri?». «E se non arrivano?» biascicò preoccupato Leonard. «Arriveranno!» tuonò lei, ma se ne pentì. Attonito e perso era lo sguardo del ragazzo. Sfinito nella mente. Come un fremito che sale, acqua che non scende giù nel water ma ristagna, un impeto di esaurimento colse Leonard, strapazzando il suo cervello come in uno shaker.
«Jennifer, moriremo... Jennifer, cazzo, moriremo tutti!». «La finisci, Leonard!?» sbottò lei, ringhiandogli quasi contro. Ancora una volta se ne pentì. Il ragazzo tremava e con pallore mortale negli occhi si stropicciò i capelli già scompigliati. «Maledizione!» borbottò lei. Ora ci penso io. La ragione di Leonard stava per abbandonare il ragazzo, ma infinita fu la saggezza di Jennifer, angelo che sa sempre cosa fare e quando farlo. Abbracciò Leonard e dolce con le labbra... lo baciò. Lei gli schiacciò il seno contro il torace e spinse il ventre sottile contro quello di lui. Lui se ne staccò, ma lei tornò a spingere. Per un attimo le labbra si staccarono, un flebile soffio sul collo sembrò rasserenare il ragazzo. Ora lei affondò le mani nei suoi capelli e, con un attimo d'esitazione, lui fece lo stesso coi capelli arruffati della ragazza. Sentendo un piccolo punto duro sul suo ventre, Jennifer trasalì in un segreto mugolio. Le loro labbra si staccarono e i loro sguardi combaciarono. «Va meglio?» sussurrò lei. «Credo di sì... forse» rispose lui confuso e rasserenato allo stesso tempo.
ATTENZIONE! Mi dispiace interrompere la lettura in maniera così brusca, ma qui devo dare una comunicazione importante. La parte finale l'ho omessa volutamente perché regolamento di Wattpad alla mano, seconda la MIA interpretazione, non potrei pubblicarla. Per evitare problemi di ogni sorta, CHI VUOLE, può farsi mandare la parte mancante in privato, commentando QUI in linea, oppure mandandomi un messaggio. La parte di suo non è fondamentale, ma è comunque letteratura (parolone) e ha un suo perché. Vi ringrazio per l'attenzione e vi chiedo scusa per il "problema".
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