CAPITOLO 11 (Parte 5)
L'uomo aspettò altri trenta secondi prima di scollarsi dalla porta. Un alone di sudore gli impregnava la fronte. Di soppiatto, seguito dallo sguardo teso dei ragazzini, accese una lampada a olio, dal vetro di polverosa secolarità, che era su un tavolino di rovere malmesso, scorticato come se avesse ospitato un esercito di gatti. Così tetro era quel giallo, che i ragazzi trasalirono alla vista ora più chiara del volto dell'uomo. «Bene, se ne sono andati» disse lui. «Io mi chiamo Jonas, voi chi siete? Immagino veniate dall'altra parte delle mura». Gli Sfigati, imbambolati e con i polpacci gravosi, come se avessero sollevato notte e giorno dei pesanti massi, si limitarono a un flebile annuire, come se le parole fossero troppo faticose da pronunciare. Stavano ancora provando a evitare di svenire. «L-lei chi è?» balbettò Chris, emettendo un rantolo sottile. «Mi chiamo Jonas. Io vivo qui, questa è casa mia». A quelle parole, gli Sfigati strabuzzarono gli occhi. Crudele era stata quella rivelazione per essere presa come buona. Per un attimo, credettero che l'uomo volesse burlarsi di loro ed erano troppo nervosi per stare a dei giochetti congegnati da uomini troppo in là con gli anni. Antiquati.
«In che senso vive qui?» chiese Sophia, accennando una smorfia che lasciava trasparire tutta la sua perplessità, come a volerlo rimproverare del fatto che li stesse prendendo in giro. Ma quando videro che l'espressione dell'uomo rimase tranquilla e rilassata come un lord che prende il tè del pomeriggio, allora i loro cervelli furono centrifugati, incapaci di comprendere quale squilibrato potesse vivere in un simile luogo. «Vedete, − continuò Jonas pacato − io sono un medico e ho deciso di restare qui. Sono nato e cresciuto qui, non lascerò mai questa città... e poi c'è mia figlia». Un sorriso enigmatico incupì il volto dell'uomo, come se volesse trasmettere allegria, ma riuscì soltanto a inquietare ulteriormente i ragazzini. «E dov'è ora sua figlia?» chiese Taylor. «Non lo so» sembrò innervosirsi all'improvviso l'uomo, come se non si aspettasse quella domanda. «Sarà in giro... forse l'avete anche incontrata». I ragazzini, come fulminati, si sentirono contorcersi nelle budella da uno strano sentore di pericolo, come se quella situazione fosse troppo oscura per essere approfondita. «Cosa intende?» biascicò Bobby, non troppo convinto di porre quella domanda. L'uomo sgranò gli occhi, come se prima di parlare stesse già mettendo le mani avanti. Per scusarsi.
«Hanno attaccato l'altra parte della città immagino, giusto?». I volti dei ragazzi restarono argentei, chiari, impassibili, come se quella domanda li seccasse. «Mia figlia è una di loro» si affrettò a spiegare l'uomo, come se avesse voluto liberarsi di un peso. I ragazzi, inorriditi, fecero un passo indietro. «Calmi, calmi!» si agitò l'uomo, sventolando le mani come in segno di resa. «Io non sono un Giustiziere, ok? Ho provato a fermarli, a farli ragionare, ma non so perché, questa notte sono impazziti! Ho provato a far ragionare Dorothy, ma non mi ha dato retta!». Ora Jonas aveva gli occhi dilatati, sudava freddo e sembrava essere imbarazzato e desolato, come se si sentisse responsabile per ciò che stava succedendo. «Chi è sua figlia!?» chiese ansiosa Jennifer. Quando lo sguardo dell'uomo si posò sul viso magrolino della ragazzina, la sua pelle si accapponò nel vedere quello sguardo così colmo di orgoglio e determinazione. Sembrava volesse tagliare l'aria e strozzarlo con i pensieri. «Q-quella...» Jonas sembrò avere la gola secca. Si passò la lingua sulle labbra, mentre gli Sfigati ora lo fissavano con la fronte aggrottata e le sopracciglia rivolte verso il basso. Provavano rabbia. «Mia figlia è una dei quattro mutati che comandano... è quella con la falce».
Ora Jonas si sentì più leggero, come una libellula che si libra in volo. Ma si sentiva minacciato allo stesso tempo, nel vedere la durezza negli occhi dei ragazzi, come se del ghiaccio stesse salendo dai loro spiriti, pronto a infilzarlo. «Tua figlia è quel mostro con la falce?» domandò Thomas severo, ben conscio di ciò che aveva proferito Jonas, ma voleva sentirselo ripetere ancora una volta, per essere sicuro di non prendersela con un innocente. «Mi dispiace, lo so che è un mostro, ma è mia figlia!» si giustificò l'uomo. «Sua figlia è una pazza omicida!» sbottò Thomas. A quel lamento fecero eco tonanti gli insulti di tutti gli altri membri del club, partendo da un semplice «vaffanculo» o un più complesso discorso giovanile sull'importanza della sedia elettrica. «Basta!» scoppiò l'uomo, scosso da saette fluttuanti nel suo cervello. «Non posso farci niente, ok? Hanno rinchiuso tutti qui dentro e amen! Non so perché li hanno lasciati vivere, ma direi che è una punizione più che sufficiente quella che Dio gli ha dato. Ma li avete visti!? Dico, li avete visti!?».
Jonas indicò verso la porta con entrambe le braccia. I ragazzi si ammutolirono. Non era così assurdo quel discorso. Trovare un colpevole in quella vicenda era come provare a incolpare un unico uomo per il problema della fame nel mondo. Chinarono gli sguardi, non per l'imbarazzo, bensì per la rabbia. Ma loro cosa avrebbero potuto fare? Non potevano accollarsi tutti i problemi possibili e immaginabili. Ora solo a una cosa dovevano pensare: fuggire. Quella era la priorità impellente. Calò il silenzio. Ma fu un silenzio ristoratore. Troppi ronzii ancora fluttuavano nelle loro menti e approfondire certi discorsi di dubbia utilità morale non è cosa per ragazzini, figurarsi per fuggiaschi. L'uomo si sedette, convinto che si sarebbero calmati. Fu Jennifer a rompere quel silenzio, convinta che il tempo a loro disposizione fosse scaduto. Sapeva che il tramonto sarebbe stato la deadline, dentro o fuori, vita o morte, una roulette russa con una probabilità di morte ben superiore.
«Ragazzi, non possiamo restare qui, dobbiamo continuare a fuggire». Fu a quel punto che si rese conto di essere sola. Pensò di trovare determinazione nel volto degli amici, invece trovò solo desolazione. Stanchi anche solo di pensare, i loro volti sembravano voler urlare la resa incondizionata, tramortiti da eventi troppo grandi. «Fuggire?» chiese stranito e perplesso Jonas, rivolgendosi a Jennifer come se volesse scoppiare a riderle in faccia. «I Giustizieri sono attivi di notte. Siete già stati fin troppo fortunati a essere sopravvissuti. Avreste dovuto restare belli comodi dall'altra parte della città, invece siete venuti fin qui». «Casualità!» chiosò Jennifer, stizzita. «Culo!» ribatté Jonas, adirato. Le sue tempie erano diventate rosse e aveva alzato di scatto il sedere dalla sedia, pronunciando il muso in avanti in una mossa di sfida. «Sarà, ma abbiamo fatto fuori il Macellaio, quello con la mannaia! Quindi, non ci sottovaluti». A quella rivelazione, Jonas, sbigottito, si spense e poi s'illuminò di una luce inorridita negli occhi. Quando tornò a sedersi, non poté fare a meno di tenere lo sguardo incollato a quella piccola guerriera che sembrava aver appena combattuto un'intera guerra in una sola notte. «Jennifer» rantolò Leonard. La ragazza si voltò verso l'amato. Il suo sguardo era rivolto alle sporche e logore scarpette e sembrava incupito. Il barlume di speranza che prima vibrava nei suoi occhi si stava spegnendo.
«Forse il signore ha ragione... è meglio riposare». «Stronzate!» sbottò Jennifer. Il ragazzo, intimorito dallo sfogo funesto della ragazza, indietreggiò. «Jennifer, credo che Leonard abbia ragione» disse Sophia. «Siamo a pezzi, proseguire sarebbe solo un rischio maggiore». Gli altri annuirono convulsamente, agitando non solo la testa, ma tutto il corpo. «È esattamente il contrario!» strillò Jennifer. «Il pericolo aumenta di più se stiamo fermi!». «Ma Jennifef, − spiegò Ed − quefto fignore è il padre di uno dei mufati. Forfe non ci farà niente». «Lo penso pure io, − rincarò la dose Thomas, imitando la voce del Sex Symbol − bambola, sei in minoranza questa volta». Aveva ragione. Jennifer era in minoranza e, questa volta, le sue parole non sembravano essere sufficienti. Era anche lei troppo stanca per poter ribattere ancora e un osceno pensiero le passò per la mente, un avido ed egoistico sentimento di leadership: spero che succeda qualcosa di brutto, così saremo costretti a scappare! Subito dopo, i suoi occhi divennero lucidi. Come quando un giovane urla di odiare la madre e il padre spinto dalla rabbia del momento, ma non lo pensa davvero, si rammaricò di aver causato un simile turbamento. Chinò lo sguardo e si chiuse in un silenzio affranto. «Bene... se volete ho delle brandine nell'altra stanza. Potete dormire lì e...».
Toc, Toc.
I presenti gelarono e una voce (da strega) stridula infestò l'aria, come il puzzo di spazzatura in una calda nottata di afosa stagione. «Gne, gne... papi!? Papi!? Apri la porta, sono Dorothy! Ho paura papi, apri la porta!». «Sì, figlia mia!» strillò Jonas in modo strano. La sua voce era un fruscio di timore, come se qualcosa lo disturbasse nell'anima. Premonizione. L'uomo si voltò verso i ragazzini. Fermi come sculture di marmo, statue oniriche evocatrici di ancestrali fasti di società perdute nel ciclo della storia, sembrava volessero seppellirsi in delle bare tanto sprizzavano paura incontrollata, sudando come se stessero correndo in una sauna gigante. «Presto, c'è una botola lì sotto» borbottò Jonas, indicando un punto del pavimento sotto un tappetino. In preda al panico, e, dopo aver sollevato un unico blocco di assi di legno tagliati a formare una figura squadrata che seguiva la linea dei listelli di cellulosa, sollevarono il tessuto e si fiondarono all'interno di un buco scavato sotto il pavimento. Grosso a sufficienza per contenere quattro adulti, ma stretto per nove ragazzini, si ammassarono come ratti in quella umida e polverosa tana. La piccola botola si richiuse con un click.
Jonas fece appena in tempo a ricoprire l'apertura con il tappetino, prima che la porta cigolasse e poi tonfasse in uno strepitio acuto di legno sfasciato. Sbiancò alla vista della figlia, così cadaverica, così alta, così demoniaca. Per venti lunghissimi anni si era presa cura di lei e mai la sua forma grottesca e mutata lo aveva intimorito. Può mai un padre odiare il suo stesso sangue, per quanto deforme? Ma quella sera qualcosa non andava. Qualcosa era diverso. Da una sottile fessura nel pavimento, gli Sfigati osservavano quella folle scena. Strati di polvere crollavano sulle loro teste, mentre stavano schiacciati gli uni contro gli altri come aringhe in salamoia. I loro pessimi odori si miscelavano nelle narici, irritandole e facendogli venire da starnutire. Ma era qualcosa che non potevano permettersi. Provavano a trattenere il fiato e osservavano la Vecchia Signora dondolare come un'insonne verso Jonas che, intimorito, strisciava le suole all'indietro, urtando contro la sedia. Le sue mani caddero sullo schienale, stringendo il legno di scarsa qualità come se fosse una pallina antistress.
«Cosa c'è, amore mio? Non ti senti bene?». Jonas fece un sorriso tanto grande quanto falso. Non mentiva a sua figlia, mai, ma quella notte proprio non riuscì a liberarsi dall'angoscia, come quando in un ospedale si aspetta che il medico esca dalla sala intensiva e comunichi l'esito dell'operazione. Resa ancora più abnorme dal riflesso lunare, si chinò in avanti e con quel viso raggrinzito, quel naso aquilino, entrò in casa strisciando la falce sul pavimento, che gracchiò in un nefasto tumulto di protesta indemoniata. «Padre, padre!» urlò Dorothy. Tale era la puzza del suo alito, che per poco Jonas non vomitò. Come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco, si tappò la bocca inarcando in avanti la schiena. Gli Sfigati, in contemporanea, tapparono le loro bocche e si strinsero ancor di più, come a volersi abbracciare. I loro occhi, più spiritati che mai, tremarono di paura alla vista di quel volto ossuto e fluorescente. Ciuffi di capelli sporchi, neri e bianchi, fradici di sangue e sudore, gocciolavano sul pavimento, in un ticchettio che sembrava di fanfara tanto era malevolo.
«Padre, − riprese a parlare Dorothy, ora più tranquilla nel tono − Cristo mi ha parlato». Jonas, provò a togliersi la mano dalla bocca, ma non ci riuscì. Serrò le labbra e il naso con tale forza da farsi male, ma non era niente a confronto con quel marciume odoroso. «In che senso, Dorothy?». Non domandava perché lo desiderava davvero. Era più un ragionevole istinto, un logico riflesso per assecondare quello stato di terremoto interiore che sembrava dilaniare la figlia. «Sento una voce, papà... sento una voce. Mi dice di punire i peccatori. Io li ho sempre puniti, ma questa volta me lo grida con più forza... mi dice di ballare, papà... "ballare" mi dice, Cristo vuole che balli!».
Jonas, frastornato da quelle frasi senza senso, sapeva come addolcire la figlia. Calmo e rilassato, per quanto possibile, si avvicinò a lei di qualche passo, avanzando con una mano protesa verso di lei. La testa dell'uomo le arrivava al seno, lei quasi sfiorava il soffitto. «Dorothy tranquilla, va tutto bene. Ora sei con il papà. Va bene che Nostro Signore ti parli, è importante... ora però devi riposarti, va bene? Domani riprenderai a fare ciò che ti ha...» Splash.
Taylor emise un singhiozzo che fu fermato dalla mano di Bobby che le tappò la bocca. Dalla fessura, che ora trasmetteva un'immagine distorta e lontana, come distante mille chilometri, spazi che si dilatano alla vista, come ali di gabbiani che diventano linee all'orizzonte e poi ciechi punti neri, si vide una lama fatale trapassare la schiena di Jonas. «Cristo ti ama, papà... alla fine tutti balleranno... e sarà un'orgia senza fine».
Tale fu l'orrore a quelle parole, che il biancore della luna sembrò fuliggine nera a confronto dei loro visi. Un urlo dilaniante squarciò l'aria attorno alle pareti, che tremarono in una sghignazzata frenetica. Dorothy, che aveva infilzato il suo stesso padre con la falce, sollevò l'arnese e piantò il corpo dell'uomo sul soffitto, sballottolandolo come se fosse fatto di pezza. Le assi di legno si piegarono, protestando con scossoni di polvere e schegge. Poi batté l'arma a terra, facendo gridare questa volta il pavimento. Quando la lama fu sfilata dalle carni dell'uomo, brillante di sangue vivo, possente ricadde sulla schiena dell'uomo. Impetuosa si sfilò e pesante ripiombò. La sollevò di nuovo e, come una scure, lo infilzò ancora, e ancora. Ci vollero venti minuti di incessante lavorio di braccia, nervi e brutalità, roba che una bestia avrebbe guaito di paura al confronto, per ridurre un corpo vivo in un frullato di sangue e membra, cosparse sul pavimento come minestra riscaldata e rovesciata. Lunghe strisce di sangue s'infiltrarono tra le assi del pavimento e nella fessura della botola, gocciolando nella tana degli Sfigati. Nessuno fu imbrattato, ma delle goccioline schizzarono sulle loro scarpe. Fu solo l'istinto di sopravvivenza a impedir loro di rimettere di nuovo. Non importava che fosse vuoto, questa volta lo stomaco avrebbe rimesso anche il suo stesso acido. Dovettero tapparsi le orecchie per non sentire più quel martellio di ossa rotta, carni sminuzzate e ferro battente.
Non un pretesto aveva avuto quel risultato, non una logica c'era dietro a quell'omicidio, così come in nessun altro. Era peggio della furia cieca di un animale. Una tigre uccide per sopravvivere, al più per difendere il territorio, ma nessuna bestia uccide per pazzia. Le bestie non impazziscono. Reagiscono perché minacciate, ma nessun pensiero razionale poteva spiegare una simile carneficina, un'oscura realtà che rendeva quei mutati più simili a creature extra-dimensionali che non a esseri senzienti. O è forse la natura di tutti gli uomini quella di avere un angolino preposto alla follia? Siamo forse folli rinchiusi in una gabbia che chiamiamo ragione? Siamo forse nati per oltraggiare la Creazione in atti di assoluta viltà gratuita? Mentre quei pensieri si accalcavano nelle menti degli Sfigati, la Vecchia Signora lasciò l'ovile paterno, incurante della morte del genitore, ora ridotto a una poltiglia, come mosto schiacciato con i piedi da vecchie comare. Nell'ora successiva, tra sangue, sudore, pallore e nervi a pezzi come vecchie giunture troppo usate, i ragazzini si addormentarono in piedi, uno addosso all'altro. Tra veglia e sonno, i loro occhi s'inumidirono di esasperazione, calda desolazione che faceva scompigliare i capelli in squilibrate smorfie. Se non fosse stato per gli ululati dei mutati lanciati alla luna in segno di disprezzo, sarebbero rimasti lì tutta la notte.
Uscirono dal loro angusto nascondiglio, strisciando sul pavimento, imbrattandosi di parti di corpo umano frullate. Prima che Taylor varcasse la soglia, tra l'oscurità di una casa ora cimitero, e il bianco lunare, un tintinnio come di campanelle le suggerì di voltarsi. I suoi occhi si dilatarono alla vista di un oggetto che le parve essere sbucato direttamente dai suoi sogni più segreti. Tempo addietro, la bimba aveva confessato alle amiche che se mai avesse lasciato Primestone, avrebbe voluto almeno portare un ricordo del suo fratellino. Illuminato dalla lampada a olio, vide un coniglietto di peluche blu impolverato. Mai per un istante ebbe il dubbio che si fosse sbagliata: era il pupazzo di Donald. Come a cambiare idea all'ultimo istante, mentre ancora il suo corpo era proiettato in avanti per uscire, sterzò, urtando con la testa la pancia di Chris. «Ahi!» si lamentò il ragazzo. In pochi balzi, la biondina era già con le mani addosso al tanto agognato giocattolo, posizionato da solo su una mensola di un mobiletto da parete, scarno e privo d'altri oggetti. «Taylor, sbrigati!» la rimproverò Sophia. «Sophia, guarda! Il coniglietto di Donald, il coniglietto di Donald! L'ho trovato!». La ragazza dai capelli rossi, come se quell'evento fosse del tutto normale, come se avesse un senso ritrovare un oggetto di un bimbo morto il cui corpo non era mai stato ritrovato, la guardò come a dire: «e allora?». Stizzita le lanciò un'occhiataccia, intimandole di sbrigarsi, mentre gli occhietti di Taylor danzavano in una gioiosa festa. Strinse a sé tutti e due i suoi peluche e, stanca ma felice, come se avesse ritrovato il fratellino in carne e ossa, si dileguò nella notte con gli amici, percorrendo ripidi sentieri di campagna, accompagnati dalla luna che ora sembrava voler suggerire la via agli Sfigati. Non avevano neanche più la forza per verificare se nei paraggi ci fossero dei mutati bramosi di omicidio di infanti.
Come sempre, il più scattante di tutti fu Thomas. Quasi sembrava saltellare, come se fosse stato più leggero. Era più leggero. Ma non si trattava del peso corporeo. Era una leggerezza interiore, come se fra tutti fosse il più spensierato, il più... piccolo. Gli altri Sfigati gli guardavano le spalle, che a ogni passo sembravano rimpicciolirsi sempre di più, come se si stesse allontanando da loro, ma in realtà la distanza non stava aumentando. Il ragazzino, sferzante di una nuova energia, impeto di nervi mossi da un cervello impaurito, sfrecciava con il vento tra i capelli, ululando al cielo: «grande sfida, signori, grande sfida!». Imitava la voce del Presentatore e, come per incanto, si rese conto di essere troppo contento. Come allarmato da urla, rallentò il passo fino ad arrestarsi. Ma non era stato per chissà quale potere di preveggenza. Lo aveva fatto perché non udiva più le suole delle scarpe degli amici battere flebili sul terreno argilloso. Chinò lo sguardo e pensò: se mi giro, succederà qualcosa di brutto. Già lo so che mi guarderanno tutti in modo strano per dirmi «Thomas sei il solito bambino» oppure «Thomas, ma quando cresci?». Ma io che posso farci se sono fatto così? Non posso essere giovane per sempre? Rock 'n Roll baby, give me my money please! Non voglio diventare adulto. Nascono i problemi, la casa d'amministrare, le bollette da pagare, l'affitto, il lavoro, magari dei bambini a cui badare. Voglio essere scapolo, non voglio avere nessuno di questi problemi. Perché devo crescere? Io non voglio... ma scommetto che ora mi direte che devo farlo, vero? Triste realtà my boy... alla fine tutti crescono. Bisogna crescere. E non ci sono voci che tengano. Quando i brufoli saranno spariti dalla faccia, ti ritroverai a cercare gli annunci di lavoro su qualche giornale. Ahhh... che disgrazia vivere!
Fu così che, addolorato, fissò gli amici, immobili in otto a guardarlo qualche metro più avanti, piccino, in bilico tra un bimbo e un uomo, tra istinto e ragione, tra fantasia e logica.
Perché non è mai possibile tornare indietro? Perché il nastro non può essere riavvolto? È quindi questa la nostra condizione, schiavi di un'esistenza che non dà tregua, minacciati ogni singolo istante con una pistola alla testa che non spara proiettili, ma conta il tempo, muovendo ingranaggi invisibili, schioccando in scatti, mormorandoci che la tomba non è poi così distante? Davvero questa è l'ambigua realtà di noi esseri senzienti, troppo stolti per porci certe domande o forse troppo impauriti da annotarcele sui nostri diari? Ora tocca a me crescere.
Jennifer fece un passo in avanti, intimorita dagli occhi lucidi del ragazzo, ma allo stesso tempo sollevata. Un ultimo ostacolo e tutte le loro paure sarebbero svanite, disciolte come sale da cucina in una pentola bollente. «Qual è la tua paura, Thomas?» le chiese con una vocina accorata e calda. «Mammina mia» rispose il ragazzo con la voce del Lord e Jennifer pensò: tutte uguali le sue voci... ma è così tenero! «Vede, in realtà suppongo, non che io abbia chissà quale remora di agitata contemplazione paurosa nei confronti di...». «Non romperci le palle Thomas, dicci di cosa hai paura!» imprecò Lucas strabuzzando gli occhi. Thomas, schiaritasi la voce, spiegò: «be'... diciamo che certi animaletti alati mi fanno una certa impressione per così dire». «Oh merda» protestò Sophia inorridita. «Cazzo» sibilò Leonard. «Porca paletta» mormorò Taylor con vocina preoccupata. E Bobby, portandosi le mani ai fianchi concluse: «bene, quanto grosso sarà secondo voi? Si accettano scommesse!».
Spazio autore
Resta l'ultima paura da sconfiggere, quella di Thomas! Secondo voi il ragazzo di cosa ha paura? Lo scopriremo nella prossima parte ;)
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