CAPITOLO 11 (Parte 2)

«Presto, fuggiamo!» urlò Chris spaventato a morte, confuso dal susseguirsi degli eventi mortali. Gli Sfigati e gli altri mutanti ripresero la loro corsa. Non conoscevano la direzione da prendere, ma addentrarsi all'interno della struttura sembrava la scelta migliore. Nel mentre, la piccola Taylor si voltò, tenendo con sé il suo coniglietto di peluche. Più volte Sophia le aveva detto che era arrivato il momento di abbandonarlo, che ormai era cresciuta per giocarci ancora, ma prima una vocina interiore le aveva sussurrato di prenderlo. Abbracciandolo forte a sé con gli occhi spiritati, sussultò e mandò un grido isterico di paura quando vide (i mutati) gli zombie agitare le braccia e spingersi dal buco fino a piombare a terra. Non si muovevano con intelligenza, ma erano spinti dall'istinto, bestie iraconde che tentano in tutti i modi di abbattere la preda, incuranti delle ferite e della stanchezza. Ora stavano per sopraggiungere, veloci come se le loro gambe fossero trampoli elastici.

Gli Sfigati si ritrovarono all'improvviso in un grosso atrio che dava su tre aperture, lunghi corridoi che portavano a zone separate del laboratorio. «Jennifer, dove!?» strillò Leonard, appesantito nelle sillabe dallo sforzo che stava facendo per avere salva la vita. La ragazzina sbarrò gli occhi, come a voler focalizzare meglio l'immagine davanti a sé. Nonostante il momento, si mostrò lucida. Fisico e cervello erano come separati, mossi da intelligenze autonome che sapevano sempre cosa fare. «Il tunnel a sinistra!» gridò Jennifer con fermezza, assoluta risolutezza. Fu la scelta giusta.

Loro non ebbero mai a sapere che, se avessero imboccato uno degli altri due corridoi, si sarebbero ritrovati all'interno dei magazzini, circondati da soldati nel panico, indaffarati a far fuoco contro i bestiali intrusi. Nessuno di quelli che imboccarono quelle vie sarebbe sopravvissuto. Corsero per altri due minuti abbondanti ancora. I loro polmoni ormai erano macigni aguzzi che sembravano fiammeggiare sul diaframma come vecchie caldaie borbottanti e ansimanti. Erano così rossi in volto che se qualcuno li avesse guardati e non fosse stato a conoscenza delle dinamiche, avrebbe asserito che quei ragazzini si erano beccati una bella insolazione. Mentre l'umidità si faceva largo, grondando sui loro vestiti, una doccia di caldo sudore correva sulla pelle infreddolita dal terrore, si ritrovarono innanzi a una serie di ascensori, quattro per l'esattezza, disposti in sequenza uno accanto all'altro. Tre erano già occupati da militari e da altri giovani, mentre quello più a destra era libero.

«Presto, entriamo lì dentro!» disse Bobby indicando l'apertura, come se nessuno degli altri l'avesse notata. Quando si arrestarono davanti alle ante rosse, i loro corpi si urtarono uno contro l'altro, come auto durante un tamponamento. «Ahi!» gridò Chris, dopo che Sophia gli ebbe piantato un pugno involontario nella schiena. «Scusa!» proferì imbarazzata e ancora rantolante la ragazzina. Chris la fissò e quasi si dispiacque di aver reagito, seppur d'istinto. Ed invece premeva con la testa sotto l'ascella di Lucas, che a sua volta schiacciava il braccio sinistro nel fianco di Thomas. Leonard, da dietro, spingeva con una mano Taylor e con l'altra Bobby, come se volesse inscatolare i suoi amici nell'ascensore, mentre Jennifer saltellava e si voltava di tanto in tanto per controllare la situazione, con occhi ingrigiti e faccia da gattina terrorizzata. Thomas frattanto premeva il pulsante come un forsennato, picchiandolo con il dito indice, come se così facendo l'ascensore si sarebbe mosso con una velocità maggiore.

«Quanto cazzo ci mette questo affare!?» sbottò Sophia. Gli fece eco Ed: «dai, dai!». «Oddio, oddio, oddio!» ululò Lucas, mentre Bobby batteva i denti e si mordeva il labbro inferiore. Mentre il ticchettio provocato dalla continua pressione del dito di Thomas sul pulsante cominciava a diventare così isterico da far vacillare le loro menti, l'eco dei lamenti degli indemoniati divenne un rombo e poi un grido confuso. Stavano arrivando. «Perché non si apre!?» strillò disperato Leonard. «Ci sto provando!» ribatté Thomas. «Sono troppo giovane per morire!» sibilò con voce stridula Chris, portandosi le mani alla testa e sentendosi il sangue gelare nelle vene e raggrumarsi come latte andato male. Poi avvenne il miracolo. La campanellina dell'ascensore trillò entusiasta, insinuandosi nelle orecchie degli Sfigati come una lieta novella. Si accalcarono all'interno e per poco non incespicarono sulle loro stesse gambe. I loro occhi divennero palloncini pronti a esplodere quando videro una dozzina di indemoniati diramarsi verso di loro come calabroni infastiditi dal fumo di legna arsa.

Quei volti, che di umano sembravano avere solo i contorni facciali, sparirono dietro alle ante che si chiudevano, lasciando dietro di loro solo i battiti dei corpi che s'infrangevano sull'ascensore chiuso. Sussulti fatali che schioccarono a pochi centimetri dalle loro anime impanate come cotolette nell'orrore. Interminabili furono i trenta secondi successivi. Solo allora si resero conto che i loro visi e i loro vestiti erano macchiati e gocciolanti di sangue. Seppur difficile da comprendere, rabbrividirono quando si accorsero che non era il loro, ma erano troppo ansimanti, stanchi e pallidi persino per rimettere. Sudati e con i nervi a pezzi, i cuori gli pulsavano come grossi cilindri di un camion, al punto che nel silenzio siderale di quell'angusto ambiente erano perfettamente udibili. Non ebbero il coraggio di specchiarsi. Preferirono guardarsi negli occhi cupi, smorti, animati solo dai reciproci respiri che soffiavano come solletichi sui loro abiti. Il sobbalzo dell'ascensore, il suono della campanella e la conseguente aperture delle ante, ricordarono loro che erano ancora vivi e vegeti e che la corsa non era ancora finita. Solo allora si resero conto che quei secondi, che sembravano essere durati fino alla fine dei tempi, forse non erano stati abbastanza. Anzi, non lo erano stati di sicuro.

I loro muscoli tremavano ancora dalla tensione e i loro fiati erano appena ristabiliti, ma già l'istinto gli urlava di rimettersi a correre. L'ambiente innanzi a loro si snodava in tre corridoi. Nel mentre, come attori in un teatro, figure umane in camici bianchi da laboratorio si agitavano, fuggivano e venivano dissanguati e scarnificati. Un fegato si spiaccicò sulla parete, a pochi centimetri dall'entrata dell'ascensore, scivolando e lasciando dietro di sé una nauseante striscia di sangue. Lucas si dovette portare la mano alla bocca e serrarla sulle labbra per non vomitare. Un uomo del laboratorio gridò: «sono entrati dai condotti di areazione, sono ovunque!». L'attimo dopo il suo cranio venne piegato dal pugno possente di un grosso zombie che lo frantumò a terra con tale impeto che se non fosse morto per il cervello spappolato, di certo l'avrebbero ucciso le schegge dello sterno, che gli perforarono i polmoni. «Destra!» urlò Jennifer all'improvviso.

Ormai le menti degli Sfigati erano vuote e spente. Troppo forti erano quelle immagini. Per evitare d'impazzire, decisero di spegnere i monitor e fecero finta che quei suoni fossero di antichi abitanti che parlavano una lingua diversa dalla loro. Innanzi a loro, volavano braccia, il sangue si raccoglieva in pozze, le carni venivano mangiucchiate, mentre poveri malcapitati si contorcevano ancora con l'anima in corpo; un macabro scempio, un teatro dell'orrore fin troppo realistico. Mentre contro quello là accettare la realtà era stato un atto necessario al fine di contrastarlo, stavolta spegnere il cervello per qualche minuto era l'unico stratagemma possibile per non arrendersi. Tanto non li conosciamo, tanto non li conosciamo, continuavano a ripetersi e a pensare come un mantra. Durerà per poco, durerà per poco, provavano a convincersi. Se non fosse stato per una donna con i capelli arruffati che faceva capolino dalla porta di un laboratorio, sarebbe finiti nel mezzo di un gruppo di zombie poco più avanti, schiacciati dal loro numero eccessivo. Carne da macello.

La donna bisbigliò e con un gesto della mano invitò i ragazzi a entrare di corsa. Si fiondarono all'interno di quella saletta, un piccolo laboratorio. Quando anche Jennifer fu entrata, la donna, forse sulla mezza età e con delle lenti da vista dal taglio sottile e vestita di un camice bianco, richiuse la porta alle loro spalle.

«Appena in tempo!» strillò la donna, ridacchiando isterica, come a scaricare la tensione accumulata nei nervi del corpo. Ma un tonfo alla porta la fece rinsavire e ripiombare nel baratro della paura. Uno zombie sbraitava e ansimava dietro la porta, battendo i palmi e i pugni con tutta la forza che aveva. Fortuna che non sembrava in grado di romperla. Mentre la donna osservava con occhi aggrottati le vibrazioni che dava la lastra di metallo a ogni veemente colpo inferto dall'indemoniato, Leonard chiese con il terrore ancora negli occhi: «ma che cosa sono!?». Una voce da uomo rispose alle spalle degli Sfigati: «mutati... sono persone nate normali, ma per via di un fluido alieno sono state contagiate e ora si trovano in quello stato. In genere, ci si lascia le penne, ma loro sono stati fortunati... pardon, sfortunati».

Gli Sfigati si voltarono e videro due uomini anziani, con le palpebre gonfie e violacee e dalle rughe profonde che intarsiavano i loro volti, mentre erano curvi e indaffarati a osservare lo schermo di un computer. L'uomo che aveva parlato distolse lo sguardo e scrutò con fare attento i ragazzini. Mentre faceva ciò, Jennifer dilatò gli occhi dallo stupore. Ad attirare la sua attenzione fu il nome inciso sul cartellino di riconoscimento dell'uomo: Jayden Fodor. Quell'uomo... l'ho visto in un sogno, ma era più giovane. Molto più giovane, di almeno trenta anni, pensò la ragazzina. E se lui è Jayden, l'altro deve essere... Tom.

Quella strana coincidenza non fece altro che confondere ancora di più la sua mente, già frastornata da una mole di avvenimenti al limite del paranormale che da mesi stavano sconvolgendo la sua vita, appallottolandola e scaraventandola come una bambola di pezza. E la sua intuizione non era errata. L'altro uomo si voltò quel tanto che bastò per mostrare anche il suo cartellino: Tom Ehman. Data un'occhiata fugace ai ragazzini, tornò a fissare lo schermo del computer e a cliccare freneticamente il mouse. «Aspettate, io vi conosco» disse Jayden all'improvviso. «Voi siete i mocciosi più famosi di Primestone, i Combinaguai!». L'uomo si avvicinò al volto di Jennifer con fare deciso, abbozzando uno strano sorriso di compiacimento, come se fosse sorpreso e divertito allo stesso tempo di vedere quel manipolo di ragazzini sporchi, sudati e macchiati di sangue. «Ditemi... quante volte l'avete visto?».

Gli Sfigati sussultarono all'unisono, come se ora anche le loro reazioni fossero collegate. Un unico corpo. A cosa si riferiva quell'uomo in camice? Stava forse parlando di quello là? I loro pensieri, banchi di pesci guizzanti tra le creste frastagliate delle schiumose onde oceaniche, furono imbrigliati dalla rete di parole che fuoriuscì dalla bocca della donna alle loro spalle. «Era il 1984. Alla centrale nucleare di Primestone portarono un organismo alieno recuperato da una nave spaziale precipitata nel 1974 a Isla de la Muerte».

Gli Sfigati si voltarono, ammaliati da quelle sillabe che sembravano una cascata di caramello che defluiva sinuosa. Una spiegazione. Ciò che più di tutto desideravano in quel momento, ordine nel disordine, come una stanza linda e pulita in una casa riempita di sporcizia e lasciata nell'incuria per mesi e mesi. Jennifer fissò il tesserino della donna: Tina Pinkman. Nulla le diceva quel nome. «A qualche uomo potente venne l'idea di nascondere l'alieno all'interno di uno dei reattori della centrale. L'obiettivo era quello di rianimarlo, visto che avevano scoperto che le radiazioni ionizzanti lo nutrono... ma nessuno si sarebbe aspettato una simile furia e...», «aspettate!» la interruppe Thomas con la voce del Maresciallo. «Signora, mi vuole forse dire che la centrale nucleare di Primestone scoppiò per via di questo alieno!?». La donna, dapprima deliziata dalla vocina del ragazzino, tornò seria e si limitò ad annuire, come rassegnata. «Ma voi siete dei pazzi squilibrati» chiosò Chris. «Dei pazzi squilibrati, fottuti!» sbottò Sophia, che si voltò indispettita verso i due uomini, ma la sua invettiva era anche contro la donna. «Ci avete rapito, ci avete analizzato, ci avete rinchiuso, pur sapendo che c'era un mostro in giro!?». «Alieno!» la corresse Ed. «E che cazzo cambia!?» sbraitò la ragazzina, facendo tremare Ed, che si ammutolì. Jennifer la prese per le spalle e le sussurrò di calmarsi.

«Ok, ma in tutto questo, cosa ci fanno quella specie di zombie in giro? Da dove vengono? Chi sono?». Alle domande di Leonard fu Tom a rispondere. «Come già vi ha detto il mio collega, quelli sono mutati. Prima abitavano in città, facevano parte di una setta che si abbeverò in un pozzo contaminato dalle piogge aliene. Si facevano chiamare "I Giustizieri di Cristo"». «Che nome carino» ironizzò Bobby, mentre Thomas ribatté: «la classica gente che vorresti a tavola la domenica». «La piantate, stiamo ascoltando!» li rimproverò Jennifer. I ragazzi si acquietarono e Tom poté riprendere il discorso, non prima di essersi schiarito la voce. «Stavo dicendo, quando esplose la centrale, provammo a farli evacuare, ma non ci fu verso. Preferivano combattere fino alla morte, piuttosto che andarsene. Un paio di anni dopo, quando la città era ormai deserta, ai piani alti venne una brillante idea».

Da quel punto del discorso continuò Jayden. «Decisero di costruire questo laboratorio sotterraneo e circondare la città di mura, separando poi una parte della stessa dai mutati. All'inizio si facevano esperimenti sui potenziati nel laboratorio, poi decidemmo di usare gli spazi cittadini vuoti per metterci dentro dei giovani mutanti da studiare». «Cavie» disse Jennifer aguzzando la vista e sgranando gli occhi come a voler intimidire l'uomo, che non riuscì a reggere la vista del viso della ragazzina, così piccolo, ma così serio. Erano mutanti, non c'era mica da scherzare. L'uomo si limitò a distogliere lo sguardo, senza rispondere a Jennifer. La scarica di tensione tra i suoi occhi e quelli della ragazzina era fin troppo intensa per non restare fulminati.

«E quindi da allora avete portato avanti i test» annotò Leonard. «Cosa sono i potenziati?» chiese Chris incuriosito, sollevando il dito come se fosse a lezione. A rispondere alle sue perplessità fu Tina. «I potenziati, a differenza dei mutati, sono umani normali che hanno subito modifiche genetiche importanti non per cause naturali o accidenti come i Giustizieri, ma per via di esperimenti genetici. È impossibile stabilire se un essere è un mutato, un potenziato oppure un mutante, ossia uno nato già con dei poteri, l'unica cosa che li differenzia sono gli occhi fucsia fluorescenti dei mutati. I potenziati invece presentano aspetti fisionomici e poteri disparati esattamente come i mutanti. Questo fatto è scaturito in seguito alle piogge di trentadue anni fa».

«Ma cos'è esattamente quella pioggia?» chiese Chris, ora brillante negli occhi della sapida e gustosa luce della conoscenza. «Secondo me è piscio alieno» disse Thomas. Gli Sfigati ridacchiarono innervositi, troppo carichi ancora di nervoso e paura per poter ridere di vero gusto. «Sangue» spiegò Jayden. Gli Sfigati si voltarono ora verso l'uomo con aria perplessa, credendo che lo scienziato si riferisse a qualche altra cosa. «Si tratta di sangue alieno. Un codice genetico iper-complesso, con basi chimiche diverse dalle nostre, silicio ed elementi transuranici. È così grande la catena polimerica che abbiamo tradotto sì e no il due per cento del codice in tre decenni». «Jayden, non puoi parlare con termini così tecnici a dei ragazzini» lo rimproverò quasi Tom. L'uomo annuì, come a rendersi conto che in effetti il collega aveva ragione.

«Quindi, nel nostro corpo abbiamo sangue alieno in qualche modo?» domandò Sophia aggrottando il viso in un fare schifato. «È corretto in parte» chiosò Jayden. «È possibile che il fluido alieno abbia attraversato la pelle dei vostri genitori e si sia inserito nel patrimonio genetico. Da lì, per una serie di circostanze, siete nati voi, piccoli mutanti». «Wow, chissà se mi verrà il pene alieno!» esclamò divertito Thomas. Lucas, però, gli diede un ceffone sul collo, che fu molto gradito dagli altri suoi amici. «Ahi!». «Te lo meriti!» ribatterono in coro gli altri Sfigati. «Signor scienziato, come facciamo a sconfiggere quei mostri?» chiese con vocina graziosa Taylor, come una bambina che chiede alla mamma di rimboccarle le coperte, rivolgendosi a Jayden.

«Be' vedi, i mutati, così come i potenziati, sono molto violenti e soffrono di instabilità mentale». «Ce ne siamo accorti» chiosò Leonard, ancora inorridito dalle scene che, come fotogrammi, si sviluppavano nella sua mente, fisse e nitide come orridi quadri appesi. «Sono molto forti, anche se non vivono molto. Hanno un fattore rigenerativo sbalorditivo, molto superiore al vostro ma, così come per i mutanti, esso risiede nel midollo spinale. È un enzima che si chiama super-rigenerasi. In teoria, se viene danneggiato il midollo, non sono più in grado di rigenerarsi e quindi è più facile ucciderli».

«In teoria» disse Jennifer. Lui si zittì, come se aspettasse che qualcun altro prendesse parola al posto suo. Non aveva più nulla d'aggiungere. «E per quanto riguarda l'alieno, che pensate di fare?» chiese Lucas, ora con viva preoccupazione. A rispondergli fu la donna. «Mio marito è stato ucciso da quell'alieno» disse con voce che per poco non venne rotta da un pianto. Ma non una lacrima versò. Si riprese quasi subito, dopo un iniziale barcollamento. «Era addetto alla sicurezza della centrale. Fu una delle prime vittime, anche se forse già nei mesi precedenti c'erano state delle vittime». Jennifer fu l'unica che intuì che la donna si stava riferendo al fatto che l'alieno avesse il potere di entrare nei sogni delle persone. «Da allora sono rimasta qui e non mi sono mai data pace. Ho rinunciato alla mia vita e a crescere mio figlio pur di farlo fuori». Da qui, prese parola Tom. «Abbiamo provato di tutto, ma non c'è stato nulla da fare. Le armi convenzionali non sono efficaci contro di lui, è troppo potente».

Il silenzio calò pesante sui presenti, come se fossero atterrati su un pianeta con una gravità maggiore. «Ok, basta così!» strillò a un certo punto Jayden. «Raccogliamo gli ultimi dati e usciamo da qui!». «Per andare dove?» domandò Leonard. «Ovviamente esiste un'uscita. Raggiungiamola e saremo già fuori da Primestone». «Fantastico!» brillò Sophia. A ruota, gli occhi dei ragazzi s'illuminarono, tranne quelli di Jennifer. La sua emozione sembrava essere sotterrata da terra triste e bagnata, un sentore che le suggeriva che la strada fosse fin troppo facile. «Fatto!» esclamò trionfante all'improvviso Tom, sollevando le braccia in alto. «Ho raccolto tutti i dati, ora ce ne possiamo andare da questo buco! Sono stanco di lavorare, me ne voglio andare in pensione!». Così fecero.

I tonfi del mutato dietro alla porta erano cessati da una bella manciata di minuti. Quando aprirono la porta, i due scienziati maschi si erano dotati di fucili a canne mozze, la donna di una pistola, mentre gli Sfigati erano pronti a sprigionare i loro poteri al massimo in caso di bisogno. Di fronte a loro, nessun corpo o personaggio sospetto. Luci lampeggianti illuminavano come battiti d'ali di farfalle il corridoio, ma non un lamento o un soffio arrivava alle loro orecchie. Silenzio orrido, tombale, tumulto di morte. Avanzarono poggiando appena le punte. I loro respiri si condensavano. Cadaveri a destra, cadaveri a sinistra, non c'era nulla di vivo. Forse, non era poi una notizia così cattiva. Jayden, con la canna dell'arma sollevata, fece cenno con il capo di proseguire verso destra. Lentamente, come spie in un covo di terroristi, avanzarono seguendo lo scienziato, posizionati a ventaglio, vigili come prede in una zona di caccia. I loro sensi erano allarmati al massimo. Bastava un respiro più forte per far accelerare i battiti dei loro cuori che ora tonavano nelle casse toraciche con ritmo lancinante. L'infarto era dietro l'angolo. Tesissimi erano i nervi del collo e i loro visi erano privi di sangue. Solo la puzza di cadaveri e la vista di corpi mutilati li costringeva a distogliere lo sguardo. Focalizzavano il loro campo visivo solo sulle zone sgombre, per evitare di rimettere. Ma erano ben poche.

Impiegarono tre minuti abbondanti per percorrere meno di cento metri. Ogni svolta era una tragedia, terrorizzati all'idea di ritrovarsi con un mutato pronto a strappargli via la pelle del viso a morsi. A un tratto, Jayden s'imbatté in una scena che non gli piacque per nulla, si arrestò di botto e allargò la mano, intimando agli altri di fermarsi. Istantanee furono le loro reazioni. Nessuno aveva svoltato l'angolo. Appena oltre, il corpo di uno scienziato era stato aperto all'addome come una salsiccia sulla brace. Un Giustiziere stava defecando all'interno di quel bozzo cadaverico, con la bocca impastata di saliva insanguinata, come uno scolaretto che ha mangiato troppa cioccolata. Per fortuna, solo Jayden vide la scena. Fecero marcia indietro. Seppur allungando il tragitto di settanta metri, evitarono il pericolo.

Quando rimase da svoltare l'ultimo angolo, Jayden aveva già il sorriso tra i denti e accelerò i passi. Questa volta fu Jennifer a fermarlo. Gli afferrò il braccio con tale forza che perfino l'uomo ne fu sorpreso. Guardò gli occhi cupi della giovane e non ebbe bisogno di bisbigli. Un "no" con il capo e gli occhi che quasi erano patinati di umidità furono sufficienti a fargli capire che qualcosa non andava. Mimò una frase con le labbra: «do solo un'occhiata». Jennifer rispose: «fa' attenzione».

Frattanto, tutti si erano bloccati, imbalsamati come mummie, circondati da quel silenzio che si era fatto davvero stancante. Jayden, incapsulato in una frazione temporale che sembrava essere stata sospesa, come messa in pausa, avanzò con la testa appena oltre lo spigolo della parete. Appena oltre la soglia. Gli bastò un occhiata per ritirarsi all'indietro. Impallidì a tal punto che il suo volto sembrava imitare il colore del suo camice. Sembrava volesse trattenere il respiro. Gli altri lo fissarono negli occhi, come a domandargli cosa stesse succedendo. Le loro pupille si dilatarono e in sincronia fecero lo stesso quelle di Jayden. I suoi occhi avevano dato la risposta, così come il lento e inesorabile movimento del suo capo: «no». Ora la situazione era diventata insostenibile. Una schiera di mutati barcollava come ubriaca nell'ultimo corridoio, quello che conduceva alla porta d'emergenza che veniva usata come uscita dal laboratorio, oltre le mura di Primestone. Sguardi livorosi, neri e assettati di morte, storpiati dalla mutazione genetica, occhi fluorescenti proiettati in avanti come sfere fiammeggianti di sangue purpureo. Non un suono emettevano, se non lo strascico dei loro piedi sul pavimento liscio, ora macchiato di sangue e urina. Loro e delle loro vittime. Jayden era nel limbo. Cosa fare? Proseguire sarebbe stato un suicidio. Aspettare rinforzi? Poteva essere una soluzione. Ma sarebbero arrivati? E quanto tempo avrebbero impiegato? Avrebbero resistito senza acqua e nemmeno cibo contro gli zombie?

Fu in quel momento di estremo turbamento, una caduta che sembrava senza fine, che una luce, l'idea definitiva lo fece rimettere in piedi. La terza opzione. Jayden, destatosi dalla sua catarsi, indicò di tornare indietro. In un primo momento perplessi, lentamente tutti si voltarono e ripresero a seguire lo scienziato, facendolo riposizionare alla testa del gruppo. Dopo aver percorso una decina di metri, una voce infernale vibrò nell'aria, facendoli accapponare nelle viscere, come polpa spremuta, sangue che ribolliva e fermentava.

«Puzza di peccatori!». «Puzza di peccatori!». «Puzza di peccatori!». Quelle voci diverse, ma ugualmente mostruose, echeggiarono per un'ampia porzione del laboratorio. Il gruppo di sopravvissuti si voltò. Figure nere erano proiettate contro la parete, come in uno spettacolo di ombre. All'improvviso, un mutato fece capolino con la testa, poggiando la mano ossuta sullo spigolo. Li fissò con occhi vitrei e laceranti per qualche secondo. In quegli attimi, morirono un paio di volte per poi risorgere. Lo zombie spalancò la bocca per poi sghignazzare: «peccatori». Le mascelle si serrarono come fatte di legno e un grido isterico tuonò sulle pareti. Fu il delirio. 

Spazio autore

In questa parte abbiamo scoperto che la pioggia fucsia fosforescente che nel 1974 cadde in tutto il mondo, altro non è che sangue di organismi alieni non meglio identificati! Da quel sangue derivano tutti gli attuali poteri dei mutanti. Detto ciò, riusciranno gli Sfigati e gli scienziati a fuggire dal laboratorio indenni?

Vi aspetto alla prossima puntata ;)


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