CAPITOLO 11 (Parte 1)
Vi siete mai chiesti in vita vostra, almeno una volta, se avete un angelo custode? Esistono secondo voi? Io non ho mai creduto davvero in Dio, ma ho sempre avuto questa strana idea che gli angeli esistano, ma che non siano come ce li aspettiamo. Non sappiamo che forma prendano. Un giorno un vecchio, un altro giorno una ragazzina e un altro ancora una signora. Non fatevi ingannare dalle apparenze, a volte possono essere feroci come una bestia satanica. Loro non combattono le nostre battaglie, mai, eppure sono convinta che ogni giorno ci bisbigliano dal nostro animo, per ricordarci che siamo noi che possediamo il potere. Potere... Questo concetto ritorna ancora una volta, sempre, come il ciclo delle stagioni. Io non posso negare che gli angeli esistano, perché li sento, anzi... lo sento. È con me, lontano da me, ma è allo stesso tempo vicino. Posso convincere la mia mente che è solo frutto di una fantasia? No, non posso e non importa quanto ci provi. A volte, le cose vanno accettate per quello che sono e io, Jennifer Pittsburgh, l'ho imparato a mie spese. Non importa quanto mi sforzi per respingere questa folle idea, loro si mostrano ugualmente, in posti inaspettati e momenti inaspettati e ci parlano e ci urlano e ci spronano a combattere. A non arrenderci. Mai.
Boati.
Da principio, a cavallo tra la veglia e il sonno, Jennifer avvertì un fastidio alle orecchie, come il ronzio di una zanzara nella calura estiva. Ovattato, confuso e lontano, poteva ancora essere confuso con un sogno un po' troppo chiassoso. Ma più passavano i secondi e più il tamburellio sembrava aumentare. Quando il sonno accennato lasciò il passo alla completa veglia, nonostante il desiderio di continuare a dormire, nulla poté fare per negare ciò che avvertiva, come un assassino che viene ritrovato con l'arma del delitto ancora tra le mani. Non erano suoni reconditi celati da un sogno che svaniva, ma provenivano dal mondo reale, dall'esterno rispetto all'abitazione in cui si trovava Jennifer. Non erano come le melodie che intonavano le canne giù al Derrick, soffiate dalla brezza mattutina d'estate. Erano suoni, anzi rumori, assai più acuti e intensi, che nulla di buono lasciavano presagire. La ragazzina si sfilò la coperta sottile di cotone e con sguardo ancora assonnato guardava fuori dalla finestra di camera sua. Bagliori. Lampi fulgidi, rapidi come piccole scintille che facevano capolino e poi si rintanavano nell'oscurità, come ratti inseguiti dai gatti. Quei flash accendevano le palpebre di Jennifer come un interruttore, un circuito che viene chiuso e poi aperto, chiuso e poi riaperto, come un bimbo troppo frenetico che ha voglia di giocare con la luce. A ogni fascio luminoso improvviso, seguiva un tremolio di vetri, aria che si condensa e poi viene sparata via a gran velocità, come (un'onda d'urto) vento di burrasca la cui coda si avverte per chilometri di distanza. A ogni concitato tremolio, la mente della ragazzina prendeva vigore, come cemento versato su altro cemento. Ormai era chiaro: qualcosa non andava.
I muscoli ancora non rispondevano a dovere e per questo fece non poca fatica a voltarsi verso le due amiche, il cui russare intenso e tremolante rallegrava quella stanza. Finalmente Jennifer riuscì a bisbigliare: «ragazze... ragazze sveglia... ehi! Sta succedendo qualcosa... sveglia!». Erano da poco passate le undici, ma Taylor e Sophia sembravano già in piena fase REM, sognando chissà quali fantasticherie, magari proprio sul loro possibile futuro e sulla loro vita fuori da Primestone. Jennifer le osservava in un misto tra compiacimento e nervosismo. Non voleva destare dal loro sonno quelle dolci fatine, ma avvertiva che una nuova minaccia incombeva sulle loro teste. E sapeva che quella sarebbe stata la minaccia finale, l'ultima sfida, vita o morte, prendere o lasciare, nero o bianco. Nessuna via di mezzo, nessuno scampo, nessun perdono, nessuna possibilità. Spietato come la vita, che inesorabile ti trascina verso la morte, quel pericolo si faceva sempre più intenso nella mente di Jennifer per via dei boati che sembravano sempre più insistenti.
Quando l'ennesimo tremolio fece sussultare il vetro della finestra e con esso Jennifer, quest'ultima sfociò in un grido di spavento, disattivando il limitatore di volume che in apparenza sembrava aver installato sulle corde vocali: «Ragazze, sveglia! PERICOLO!». Le ragazze si svegliarono di soprassalto, con gli occhi sbarrati e la nausea, che sarebbe rimasta con loro per una buona mezz'ora. «Che succede, Jennifer!?» domandò Sophia, rigida come il mare di prima mattina e impallidita in volto. Sembrava più preoccupata per il sonno interrotto che per un eventuale pericolo.
«Che succede, sorellona?» fece eco Taylor, tra uno sbadiglio e uno strofinio di occhi con il dorso della mano. «Ascoltate!» sembrò quasi ordinare Jennifer, portandosi la mano all'orecchio come a consigliare alle amiche di fare silenzio e ascoltare. E silenzio fu.
Passarono circa una decina di secondi. Sophia stava per dire che lei non sentiva niente, quando da un punto che sembrava lontano (mura interne) si sollevò un rombo che fece vibrare la finestra. «Non mi piace per niente» commentò Sophia, abbassando la voce come a voler nascondere la punta di nervosismo e paura che ora cominciava a provare. Ora pensava che essere stata interrotta nel sonno, forse, non era stata così una pessima idea. «Ragazze, vestiamoci e andiamo a bussare ai ragazzi. Sta succedendo qualcosa» le esortò Jennifer, con un viso che sembrò ingrigirsi per la serietà e la preoccupazione che trasparivano dai pori, accentuati dalla lieve patina di sudore che si era formata sulla fronte. Mai le tre ragazze furono così rapide a vestirsi. Non era necessario lavarsi o truccarsi, d'altronde la situazione non lo permetteva. Quando Jennifer spalancò la porta di casa, pronta a precipitarsi con le amiche al piano superiore per avvertire i ragazzi, si ritrovò davanti prima il volto di Leonard e poi quello di tutti gli altri.
«Ragazze, avete sentito che roba!?» sembrò quasi esultare Thomas, in un misto tra viva preoccupazione ed eccitazione. «Cosa credi che sia, Jennifer?» chiese Leonard, già immaginando le possibili risposte. Jennifer fu spietata quanto precisa nel rispondere a quella domanda, come a non volersi neanche curare di spaventare i suoi amici. C'erano ormai dentro fin troppo e abbozzare mezze frasi in quella circostanza non sarebbe servito a nulla, anzi, avrebbe solo fatto calare il loro livello di concentrazione. «È quello là. Sta combinando qualcosa».
A quelle parole, seguì un susseguirsi di volti perplessi e pallidi, nervi tesi e gocce di sudore che attraversavano la pelle, ora accaldata e dopo poco gelata da spade di ghiaccio immaginarie che facevano rabbrividire i poveri ragazzini. «E che facciamo ora?» domandò Lucas portandosi una mano alla bocca, pronto a mangiarsi le unghie dal nervosismo. Quelli sarebbero stati i cinque secondi più lunghi della loro vita. Prima che un suono acuto squarciasse l'aria, i loro sguardi s'erano intrecciati e mescolati. La solida amicizia che ormai li univa permetteva alle loro anime di riflettersi le une nelle altre, come in un gioco di specchi, di quelli che si trovano nei luna park. Ciascuno di loro cercava di trovare la risposta nel riflesso del compagno. Non cercavano parole, ma sguardi, cenni d'intesa. Un secondo prima che il suono delle sirene invadesse Primestone, gli sguardi degli Sfigati erano confluiti tutti verso quello di Jennifer, che per un attimo parve lo "specchio madre", quello che contiene tutti gli specchi. Fu un momento rivelatore, malgrado i ragazzi non ne comprendessero appieno il significato. Qualcosa che andava ben oltre l'ordinario, qualcosa che non apparteneva a dei ragazzini e nemmeno a degli adulti forse. Era qualcosa di estremo, sfuggente all'immaginario collettivo, una forza che si ritrova nella purezza degli occhi di un infante che, per un momento breve e infinito, rispecchia la purezza di tutti gli occhi dei bimbi del mondo, infrangendo qualsiasi cuore umano, come la lama che trema prima che il fratello uccida l'altro fratello.
Quella potente visione, baluardo di una realtà fin troppo lontana per gli animi degli uomini, svanì subito dalle loro memorie, portata via dalle sirene d'emergenza di Primestone. Per Jennifer quel suono era nuovo, ma non per gli altri, che erano in città da più tempo di lei. Era passato oltre un anno dall'ultima esercitazione e da allora quel suono non era più stato udito. In un primo momento sembrò sconosciuto, ma quando il bibliotecario nel cervello di ognuno di loro trovò il libro giusto, il ricordo divenne chiaro.
«Cos'è?» chiese Jennifer perplessa, intimidita dagli sguardi degli altri, ora sollevati verso l'alto a guardare il soffitto del pianerottolo, concentrati come a volere captare la fonte del suono. «Sono le sirene d'emergenza, Jennifer» spiegò Chris. «Quando suonano, ci hanno insegnato che dobbiamo correre all'interno del laboratorio presente nel monte Sik». «Be', allora che aspettiamo? Andiamo, no!?» esclamò Bobby allargando le braccia, come a chiedersi perché i suoi compagni fossero così lenti nel prendere una decisione. Poi si rese conto che non erano indecisi, stavano aspettando l'assenso di Jennifer. Quegli sguardi speranzosi e persi la fecero quasi intimidire. Ma che diamine, di nuovo che mi guardano come se fossi un grande mago, pensò la ragazzina dagli occhi verdi, luccicanti di mille pagliuzze diamantate al chiarore della luce lunare. Quella fioca luce fu offuscata quando i lampioni della città si accesero all'improvviso, mentre il lamento quasi lancinante delle sirene continuava a echeggiare per tutta la città, rimbalzando sulle pareti dei palazzi.
«Jennifef, allofa, andiamo al labofatofio?». Gli occhi della ragazzina si posarono sul volto fragile e smilzo di Ed, che ora più che mai le ricordò quello di un grazioso e bellissimo bimbo, con quegli occhialoni sempre troppo grandi per la sua statura. «Sì... corriamo al laboratorio» annuì Jennifer, seppur con una punta di incertezza nel tono. In realtà, neanche lei sapeva cosa stesse facendo e cosa bisognasse fare. Avere un punto di riferimento era di sicuro una buona cosa, ma per il resto si doveva affidare all'unica arma che, oltre ai poteri, aveva sempre avuto dalla sua parte: l'intuito. Mentre la mente di Jennifer era ancora frastornata dall'insicurezza, gli altri Sfigati annuirono convinti dell'affermazione dell'amica, sicuri che le sue idee li avrebbero portati in salvo. Fu proprio nell'attimo successivo che i ragazzi ebbero il sentore che, forse, sarebbe stata proprio quella la sera in cui sarebbero fuggiti da Primestone. E non badarono a riflettere sul loro futuro.
Un minuto dopo erano già sulla Main, correvano come forsennati, sfiorando appena il cemento con le suole, come delle moto d'acqua che lambiscono appena la superficie dell'acqua, saltellando sulle increspature del mare. Una volta giunti alla porta d'acciaio nascosta dietro la boscaglia, dopo aver seguito un piccolo sentiero che si dipartiva dalla Piazza dei Caduti, si sarebbero sentiti estenuati e doloranti. Jennifer, mentre provava a tenere il passo, si accorse di essere troppo debole. Leonard le si affiancò e la spronò a non mollare. Controllando il respiro, il ragazzo le suggerì: «mi metto davanti a te. Segui la mia scia!».
Lei annuì con guance gonfie e paonazze e rivoli di sudore che le solcavano le tempie. Quando Leonard si posizionò innanzi a lei, poté ammirare le spalle del ragazzo, così grandi e muscolose per una persona di quell'età. Fu quell'immagine tanto dolce che diede alla ragazza la forza di non arrendersi e continuare la sua folle corsa. Lo Sfigato in testa al gruppo era Thomas, seguito da Bobby e Lucas. Poi c'era Ed e appena dietro Chris. A chiudere la fila, Sophia con Taylor e Leonard davanti a Jennifer. I loro campi visivi si restringevano per via dell'adrenalina, condensandosi intorno a un unico punto al centro dei loro sguardi, come se la strada davanti a loro assumesse la forma di una freccia, mentre il rumore delle sirene continuava a imperversare.
Poco dopo, altri gruppetti di ragazzini si unirono a loro, fuoriusciti dalle vie più disparate. Voltarono appena gli sguardi, per non perdere la concentrazione. Tutti quei volti erano così familiari. Compagni di scuola, così lontani nei loro pensieri fino a qualche secondo prima, ora così presenti. Avevano vissuto anche loro quelle tragiche esperienze? Si erano mai sentiti osservati? Avranno mai avuto paura di stare soli in una città che non gli apparteneva? Avranno formato dei gruppi tutti loro? Per un attimo, sembrò che tutte quelle persone fossero loro amiche, come se avessero condiviso con loro esperienze comuni ma mai dette, come a un circolo di alcolisti anonimi il primo giorno. Non conosci le storie degli altri, ma sai che sono simili alla tua. Tanti altri sfigati.
Mentre i loro fiati si mescolavano con quelli degli altri, in direzione contraria alla loro corsa, un manipolo di cinque o forse sei Guardie di Sicurezza armate di mitra sopraggiunse, per poi scivolare tra la piccola folla e proseguire lungo la Main. A uno a uno, senza fermarsi, gli Sfigati si voltarono, vedendo scomparire all'orizzonte quegli uomini, scintillanti nella loro armatura. Tra carcasse d'auto, crepe nell'asfalto, luci a intermittenza e sirene, i cui suoni stavano davvero spaccando i timpani, giunsero alla fine alla Piazza dei Caduti.
Una dozzina di guardie armate, con le braccia sollevate, indicava ai giovani mutanti la direzione da seguire, come lampade su una pista d'atterraggio. Come uno sciame di api che ritornano all'alveare, furono indirizzati al lato sinistro di un edificio abbandonato che prima dello scoppio della centrale era la sede di un importante sindacato. Mentre avanzavano su un piccolo sentiero circondato da alberi bassi, intravedevano il gigante roccioso, il monte Sik, la cui punta aguzza era illuminata dal bagliore lunare, un gigantesco cono gelato capovolto, vecchio di millenni e millenni. Prima che il sentiero si facesse troppo stretto, si aprì innanzi a loro uno spazio più aspro e privo di vegetazione, con ciottoli e pietre in ogni dove. Corsero per quasi tre minuti, prima di arrivare a un enorme portone di metallo che permetteva l'accesso al cuore della montagna. Appena all'esterno, c'erano delle Guardie di Sicurezza appostate dietro a dei grossi sacchi di sabbia, di quelli che si usano per rinforzare gli argini di un fiume che sta per straripare, e sulle jeep. Imbracciavano armi di grosso calibro e proteggevano l'entrata. Quando varcarono la porta dell'enorme portone metallico, tutti i corridori si fermarono, come allertati da un risucchio nell'aria.
Proprio in quel momento, l'eco delle sirene cessò. Si voltarono tutti, curiosi, ma allo stesso tempo frenati dall'immagine apocalittica che stava avanzando alle loro spalle. Era già troppo tardi. Seguirono attimi assoluti di silenzio e a nulla valsero le grida di alcune guardie all'ingresso che ordinavano di proseguire all'interno del laboratorio. Anche loro si erano placati, come invocati da un lamento lontano, un richiamo come quando qualcuno grida il tuo nome tra la folla e non sai se si sta rivolgendo a te o a qualche omonimo. Una lieve brezza che poi divenne tempesta sferzò per qualche secondo per poi arrestarsi. Nessuno fiatò. Solo i respiri ancora affannosi e il tanfo di sudore si avvertivano nell'aria, ora attraversata da una inspiegabile carica elettrica, come quando è in arrivo un forte temporale. Una leggera pioggerella cominciò a cadere. Da allora non si sarebbe quasi mai più fermata, almeno fino all'ultimo giorno di ottobre, quando Sam e Jennifer avrebbero raggiunto la città. Calò una nebbia, simile a zucchero filato, che sembrava voler celare intenti minacciosi. Un susseguirsi di ombre e latrati di uomini che imitano cani si palesarono in lontananza, in fondo al piccolo sentiero che li aveva condotti sul fianco del Sik. Poi, dei lievi bagliori confusi, che divennero lucine con forme geometriche ben definite. Sfere. Puntini luminosi che si facevano sempre più grandi. Il colore non prometteva nulla di buono: fucsia fosforescente.
Mentre agli altri ragazzini quella sfumatura nella nebbia provocò uno stato di malessere e giramenti di testa, per gli Sfigati era la macabra e ricorrente realtà che tornava a manifestarsi. Quei latrati confusi divennero ghigni famelici e urla indemoniate. Come un uomo che fa uno scherzo a un amico, sbucando da dietro un divano, dalla nebbia sbucarono, correndo come levrieri, degli uomini vestiti di stracci, dalla pelle macilenta e dalle carni appese, pallidi e insanguinati, con occhi alieni. Sembravano zombie. A quel punto fu tutto un susseguirsi d'emozioni corporee e mentali. Paura, terrore, brividi alla schiena, pallore in volto e occhi strabuzzati, tali che i muscoli dei ragazzi si irrigidirono, impedendogli la fuga. Le Guardie fecero fuoco, illuminando l'aria circostante di violenti bagliori, seguiti da ruggiti metallici e da bossoli rotolanti.
Le bestie sataniche rovinavano a terra, crivellate dai colpi, sanguinando nero e con le viscere di fuori. In un primo momento, il muro di fuoco e fumo eretto dalle guardie sembrò reggere, mentre i giovani mutanti osservavano attoniti e con le mani portate alle orecchie, accucciandosi come cagnolini feriti. Quando i proiettili cominciarono a infrangersi su delle lastre di metallo fluttuanti, la situazione sembrò cambiare radicalmente. Dal sentiero, gli alberi in un primo momento avevano cominciato a vibrare, come ulivi scossi da una macchina per la raccolta. Poi un grido da creatura mitologica, un verso non definibile da qualsiasi manuale di zoologia squarciò l'aria come l'onda d'urto generata da un colpo di carro armato. Dal sentiero fece capolino all'improvviso il telaio vecchio e arrugginito di un autobus. Era tenuto sollevato da qualcosa che sembrava uscito da un libro fantasy e trasformatosi in un'opprimente e spaventosa realtà, come un sogno troppo nitido.
Metà uomo e metà cavallo, sorreggeva con le possenti braccia la carcassa del veicolo, che usava come uno scudo contro i proiettili. Ancora celato era il suo viso, ma quel poderoso busto di uomo incastrato nel corpo di un cavallo nero mandò in cortocircuito i cervelli di tutti. Mentre il muro di fuoco continuava a infrangersi sulle lamiere, alle spalle del Centauro (così lo chiamò Thomas) si libravano decine di indemoniati, vespe assassine che si lanciavano in direzione delle guardie, incuranti di qualsiasi cosa gli venisse lanciata contro. La bestia scagliò l'autobus contro le Guardie. Con un boato tremendo, si schiantò contro una delle jeep, facendo schizzare in aria gli uomini che erano a bordo, sollevando cumuli di terra e un polverone di quelli che si vedono durante le tempeste di sabbia.
Quella piccola apertura che si generò, per via dello spavento e dello stupore generale nell'animo dei soldati, fu sufficiente affinché gli uomini che sembravano zombie prendessero il sopravvento sull'avamposto, dilaniando le guardie con la semplice forza bruta. Una di loro fu afferrata per le braccia e le gambe da quattro indemoniati e fu spezzettata come manzo in brodo. Le ossa frantumate e le carni dilaniate facevano un rumore orribile, che raggelò tutti i presenti, provocando conati di vomito. Fu sufficiente la vista di quella mattanza per indurre una delle Guardie a ordinare al collega al suo fianco di premere il pulsante per la chiusura del portone. Alla pressione del palmo, si avvertì un cigolio metallico. Le ante cominciarono a muoversi tremolanti, per via dell'enorme sforzo che i meccanismi dovevano sostenere per serrare la porta. I cuori degli Sfigati battevano all'unisono, mentre osservavano con chiarezza il volto scoperto del Centauro, i cui zoccoli avevano cominciato a infrangersi con violenza sul terreno, sollevando pietruzze come schegge di vetro di una lampadina esplosa. Trottava, travolgendo con la sua immane forza fisica tutti gli uomini che incontrava, riducendo i loro volti a una poltiglia cremisi sotto il peso delle zampe, lasciando intravedere i suoi capelli lunghi, sporchi e arruffati, color terra, come lacci di scarpe impolverati, i denti gialli e marci proprio come quelli di un equino e un busto scolpito di addominali d'acciaio, le sfere fluorescenti sul volto del giovane, come se l'uomo montato sul corpo del cavallo avesse avuto non più di venti anni.
Alle sue spalle, attraversando il sentiero con fare minaccioso, altri tre capi zombie si fecero avanti. Due di loro erano più che familiari agli Sfigati, che li osservavano dall'apertura sempre più piccola del portone, come una palpebra che si chiude prima di appisolarsi. Uno era il Lanciatore. L'altro era il Macellaio. La terza figura invece proseguiva poco dietro di loro. Femminile, anziana, vestita con un grigio abito da suora con tanto di cappuccio, con ciuffi bianchi e neri che svolazzavano a ogni suo famelico passo. Scavate erano le sue guance, profonde erano le sue rughe, molto pallida la sua pelle. Era altissima, molto più di un cestista. Forte dei suoi due metri e mezzo d'altezza, troneggiava su un piedistallo invisibile che la seguiva a ogni passo, ergendo con destrezza la sua falce arrugginita, colorata di un forte fucsia fluorescente. La Vecchia Signora.
Dalla bocca infestata di pus e sangue raggrumato, nelle cui gengive marce erano incastonati come lance spezzate pochi denti cariati, vennero fuori ululati di morte: «Cristo ci ha parlato! Un ordine ci ha dato! Uccideteli, TUTTI! I peccatori non devono vivere più!!!». I suoi occhi sembrarono abbaglianti nella notte nebbiosa, inghiottendo i fari delle jeep come flussi di fotoni stellari sull'orizzonte degli eventi di un buco nero. Un attimo dopo, il Lanciatore, che portava con sé un grosso sacco scuro, sciolse il nodo alla sua sommità e, con fare nervoso, come in preda a una crisi epilettica, tirò fuori una sfera di ferro grigio-nera, dieci chilogrammi di denso metallo. Immediata fu la reazione dei ragazzi, ma solo Leonard tramutò in parole i loro pensieri che già si erano manifestati sotto forma di tensione muscolare: «tutti giù!». Le ante della porta si chiusero, ma nessuno poteva prevedere che non sarebbe servito a nulla. Trenta centimetri di acciaio e titanio non bastarono a reggere la cannonata lanciata da quell'essere con la maschera da hockey macchiata di sangue rappreso e ossidato. Uno sferragliamento acuto e uno scoppio improvviso trapanarono le orecchie degli Sfigati.
Splash.
Un altro boato ancora. Impiegarono una dozzina di secondi per sollevare le teste e voltarsi. Oltre la polvere di metallo, che svolazzava luccicante in aria come bottiglie esposte ai raggi solari, e un polverone di silicio che ne attutiva la lucentezza riflessa, v'era una poltiglia di carni e sangue nella direzione in cui era passata la sfera. Budella, pezzi di cervello e occhi penzolanti dalle orbite dilaniate. Almeno sette giovani mutanti avevano perso la vita all'istante, mentre un ottavo aveva l'osso del braccio che sembrava una lama di una spada attorniata da brandelli di carne. Diede un urlo di terrore e di dolore, prima che i suoi occhi sbiancassero e crollasse a terra. Da quel momento in poi fu il caos puro. L'allarme interno del laboratorio cominciò a risuonare, accompagnato dal lampeggio costante delle luci rosse. Dal buco creatosi nella porta, un manipolo d'indemoniati provava a farsi strada con i loro corpi putrescenti e magri da sembrare anoressici, impilandosi come gatti in un buco per topi. Avevano la bava agli angoli della bocca, una schiuma biancastra e densa, mentre i loro pallori erano appena colorati dalle vene fucsia sui loro volti. Tutti i giovani mutanti cominciarono a strillare terrorizzati.
Spazio autore
Benvenuti nel delirio!
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