CAPITOLO 10 (Parte 2)

14 agosto 2006

Settimane erano passate. I ragazzi avevano ricevuto tempo addietro una sfida da parte del demone. Li aveva invitati nei loro sogni a dirigersi sulla Dock Street, nella vecchia villa abbandonata, per combattere contro di lui. Gli Sfigati avevano deciso di trascorrere quel lasso di tempo ad allenare le loro abilità, in particolar modo la resistenza allo sforzo prolungato. Avevano notato che l'arsenico ormai aveva ben poco effetto sul loro fisico. Il giorno prima, neanche pensarono di non mangiare. In quella calda e afosa mattina, tutti e nove i nostri protagonisti erano sulla soglia del grosso cancello in ferro battuto che separava la strada da quell'enorme villa, maestosa proprietà privata un tempo, acquisita per una cifra spropositata da qualche nobile di lunga data, il cui cognome era stato cancellato dalle intemperie che avevano abbattuto la targhetta d'oro, trascinandola in qualche buca.

Jennifer Pittsburgh era proprio alla destra di Leonard Star e pensò che sarebbe stato un fulgido sogno a occhi aperti con uno squisito finale, se il ragazzo l'avesse presa per mano. Era già stata sul punto di baciarlo, così com'era stata presa in braccio da lui dopo la vasca. Quei ricordi infierivano su di lei con accese vampate di calore che le facevano gocciolare lacrime di sudore sulle braccia appena scottate dalla luce solare. Le sembrò che una fiammella fosse stata accesa al centro del suo petto, brillante chiarore, e sorrise in segreto guardandosi la mano sinistra. Poi guardò la mano destra. Tremava. Ma non era per via di una sua recondita paura, quanto piuttosto era la mano di Ed che tremava nella sua. Viso pallido, lividi sotto gli occhi come se fosse stato pestato. Il suo visino ricordava in tutto e per tutto quello di un topo morto annegato, con quei grossi occhiali, troppo grandi per il suo faccino, che ogni volta era costretto a portarsi su con il dito indice.

Nell'aria c'era come un sentore, una sorta di energia statica, ma molto più energica, potente, vibrante. Qualcosa d'inquietante sarebbe successo, era una vivida paura consapevole, di quelle che s'instaurano poco prima di compiere l'ultima battaglia, e coraggio. Il coraggio di non arrendersi, di credere che insieme si possa fare qualsiasi cosa. Avevano la sensazione che se avessero aperto bocca, uno qualunque di loro, tutti insieme avrebbero preso la scossa, un unico corpo, un'unica anima. Scintille diaboliche animavano i loro occhi insieme a un tremolio di paura. Solo Ed sembrava frastornato, barricato com'era in un florido mondo di fantasia auto-costruito. Ma, prima o poi, anche lui avrebbe dovuto affrontare la sua paura.

Quello era un giorno afoso e carico di umidità, senza neanche una goccia di vento. Fu l'ultimo giorno di caldo soffocante su tutta Primestone. Sarebbero seguiti cieli più coperti e rovesci temporaleschi sempre più frequenti. Clima anomalo. Erano alla fine della Dock Street, ma nessuno di loro ancora aveva compiuto il primo passo oltre la soglia, ammirando quel mostro bianco in decadenza, con le tegole sbiadite e rotte, le assi di legno alle finestre cadenti. Solo il prato era rasato. Un prato abbandonato rasato. Nulla di più inquietante, un manto di fili d'erba che già sembravano emanare un riflesso slavato alla luce del sole, un verde troppo pigro per mostrare le sue sfumature, come un uomo incapace di destarsi dal letto e scoprirsi dalle sue calde coperte. Quelle piante sembravano avere una vita propria, troppo pigre per crescere. Piante malate. Ora le finestre della casa sembravano tanti occhi, occhi sporchi e ciechi che fissavano i ragazzini con malizia, occhi di diavolo che seguono l'anima del peccatore in qualunque angolo del mondo.

«Tutti convinti, vero?» domandò Leonard. Gli altri annuirono solenni, non senza una punta di terrore. Tutti tranne Ed. Lui finì solo con l'impallidire ancora di più. I loro occhi tornarono a studiare la casa. Per una frazione di secondo, Jennifer si voltò. Lungo la Dock Street, non c'era un'anima viva. Poi tornò a fissare in avanti. Appena dietro la villa, le mura interne della città. Come d'istinto, gli venne di guardare Sophia, che si trovava alla sua sinistra, dopo Leonard e Chris. Notò che gli occhi dell'amica emanavano una luce troppo seria e concentrata per rendersi conto di essere così vicini alle mura che tanto detestava. Jennifer tornò a posare il suo sguardo sulla villa.

«Allora procediamo» disse Leonard, anche se avrebbe preferito non parlare per via della tensione che c'era nell'aria. Le loro bocche erano secche e impastate. Preferivano parlare il meno possibile. Avrebbero conservato il fiato per le urla che senza ombra di dubbio avrebbero lanciato, scontato come il fatto che una moneta ha solo e soltanto due facce. Testa o croce. Sempre se non sia truccata. Quella era un'altra loro grande preoccupazione. Quali trucchi avrebbe usato questa volta quello là? Quali mostri gli si sarebbero palesati? Sarebbe stata una toccata e fuga? Avrebbero combattuto solo contro un cane un po' troppo cresciuto? Forse. Ma qualcosa gli diceva nella mente che, questa volta, non sarebbe stato facile come fare un cerchio con una matita utilizzando un bicchiere. «Certo, che se qui con noi ci fosse qualche vero supereroe, tipo Batman, Iron Man o Captain World... sarebbe tutta un'altra storia» pronunciò Thomas. Tutti si girarono verso di lui, convinti che avesse fatto una delle sue solite battute. Ma con loro grande sorpresa era serissimo. Thomas mandò un sospiro stanco. «Già, ci vorrebbe davvero un eroe» commentò Lucas, a cui seguì a ruota Taylor: «sarebbe tutto più facile se al nostro fianco avessimo uno forte forte».

Leonard percepì le avvisaglie di un cedimento nella loro risolutezza. I loro occhi diabolici stavano diventando patine immerse in un lucido liquido trasparente. Fu Jennifer a richiamarli all'ordine, prima ancora che Leonard potesse iniziare a tremare con le labbra: «ragazzi, avanziamo. Vinceremo anche questa volta, ve lo prometto. Seguitemi». E fu così che Jennifer compì il primo passo, trascinando con sé Ed, che sembrava avere le suole delle scarpe incollate al terreno. Avanzarono fino a spostarsi sul lato destro della villa. Notarono due cose. La prima era una vecchia Rolls semidistrutta, con il tetto scoperchiato. Risplendeva ancora di un accecante riflesso. Dilaniata. La seconda cosa che notarono, alla loro sinistra, era la porta d'ingresso della villa, un portone verde sbiadito a due ante, più cupo rispetto alle erbette del prato. In un primo momento, il loro intento era quello di raggiungere il retro della villa da cui a Ed si era palesato il grosso barboncino. Ma quando videro la porta d'ingresso scuotersi all'improvviso, producendo sinistri e sommessi lamenti, desistettero, non senza prima essere sbalzati e aver cominciato a incespicare con i piedi, tastandosi l'uno con l'altro, una schiera di soldatini che cercava di ritrovare la sua naturale compostezza. I loro volti assunsero la smorfia che avrebbe qualcuno a cui viene fatto uno scherzo da un amico. Un misto tra risentimento e divertimento. Il fatto di essersi divertiti in una simile circostanza li fece trasalire. E preoccupare. Si guardarono negli occhi pallidi, per vedere se nel fondo oculare di ciascuno di loro la sanità fosse ancora ben ancorata o avesse lasciato il posto alla follia. Nulla di tutto ciò. Ammiccarono un sorriso, come a voler scaricare la tensione.

«Credo ci stia dicendo di entrare» commentò Chris. «E dovremmo farlo?» domandò Bobby, le cui antenne ora vibravano come un segnavento sotto il vento di maestrale sferzante. Leonard fece spallucce e rivolse il suo sguardo a Jennifer. La ragazza si limitò ad annuire. «Andiamo allora» disse Leonard. Salirono sulla breve scalinata di marmo e raggiunsero la porta, il cui colorito sembrava sempre più annerito e defunto. «Ultima volta, tutti sicuri?» chiese Leonard. Per un momento nessuno rispose. Non lo sentivano, a eccezione di Jennifer. Ora nessuno di loro era davvero più convinto di volerlo fare. Sentivano come se fosse diverso dalle altre volte. Più difficile in qualche modo. Sebbene percepissero che Leonard e Jennifer sarebbero andati comunque avanti, anche senza di loro. Ma non potevano lasciarli, sarebbe stato da codardi. «Cazzo, piantiamola e apriamo questa dannata porta!» ringhiò Bobby. Il ragazzo afferrò il pomello placcato d'oro, sferico, e spalancò la porta verso l'interno. Una nube di pulviscolo fuoriuscì come un vecchio tappeto battuto. Una tosse stizzosa venne a tutti i ragazzi.

«Dio mio, chissà quanti acari!» protestò Lucas. «Ti sembra il momento di pensare agli acari?» lo richiamò Leonard. Lucas calò la testa imbarazzato. «Entriamo» disse Jennifer con una tale carica negli occhi da sembrare piccole micce. Varcò la soglia e trascinò con sé Ed come un bimbo che fa i capricci e non si vuole schiodare dalla sua giostra. A uno a uno entrarono e si disposero a ventaglio, spalla a spalla. In un primo momento, sembrava non vedessero nulla, perché in effetti non filtrava luce. La polvere intasava le loro narici bruciandole. A Ed venne da fare uno starnuto che echeggiò come se si trovassero all'aperto in montagna. Si voltarono verso di lui. Ed li guardò e abbozzò un sorriso. Gli altri lo videro fragile, timido, più bello che mai. Poi Ed disse: «fono con i miei amici. Ora ho un po' meno paufa». I loro cuori, a sentire quella vocina a metà strada tra un bimbetto e un adolescente, si sciolsero come cristalli di ghiaccio alla mattina, sotto le lance infuocate che provengono dal sole. Ora tutti si sentivano più al sicuro ed era una buona cosa, visto l'alone che emanava quell'abitazione. Velenoso. Quello là sembrava invisibile, ma la sua presenza era palpabile come l'aria che entra nei polmoni, come pioggia che cade sulla pelle con piccoli e impercettibili tonfi. Boato!

Gli Sfigati sussultarono come scossi. Un violento rumore aveva soffiato sulle loro schiene. Si voltarono e videro che la porta d'ingresso s'era chiusa. «C-chi è stato?» domandò terrorizzato Chris. Ed si portò le dita alla bocca e cominciò a mangiucchiarsi le unghie. «È stato quello là, ovvio» sentenziò Jennifer quasi sorpresa dell'ingenuità di Chris. Poi i loro occhi cominciarono a brillare. Piccoli coni di luce ora erano proiettati in tutto l'ambiente rendendolo visibile. Le luci si erano accese all'improvviso, ma erano luci spente, morte come candele in un cimitero. E nel tanfo di polvere, muffa e amaro acido tannico d'altri tempi, si palesava ai loro occhi un ampio atrio. Quadri appesi raffiguranti... scheletri di persone morte, a metà busto. Gli Sfigati sentirono i loro occhi tremare. Ai loro lati, due porte in legno scuro e opacizzato allo stesso tempo erano chiuse, mentre sulla destra, un'ampia scalinata portava al piano superiore. Alcuni scalini, la cui moquette era macchiata di nero in alcuni punti, erano saltati via, mostrando il mastice sottostante. Al termine delle scale, un piccolo pianerottolo, su cui c'era una porta aperta. «Certo, si sta dando davvero da fare» ridacchiò isterico Thomas. Nessuno lo ascoltò. La paura cominciava a pulsare e a pompare nelle vene e nelle arterie, miscelandosi al sangue. Sangue di paura. Tra un battito di ciglia e quello successivo sobbalzarono di nuovo e fecero tutti un passo in dietro. In alto, in fondo alle scale, illuminata da una luce demoniaca, un riflesso distorto dai vetri opachi rossi, s'intravedeva una sagoma scura, alta più di due metri, forse due e mezzo, che brillava come se il contorno fosse stato cosparso di brillantini. E poi sfere, occhi fucsia fosforescenti, pallidi e vibranti d'ira.

«Ultimo round, signori miei... vita o morte, questa è la posta in palio oggi... basta scherzare, abbiamo giocato fin troppo... ora si balla per davvero. Vediamo se alla fine quest'orgia si farà...».

Puff. L'ombra svanì, lasciando il posto a nuvolette di pulviscolo rese tetre dalla luce rossa della finestra retrostante e portandosi via quella voce spettrale, cupa, roca, carica di un sincero odio demoniaco, ben lontano dal male che può provare un uomo e i ragazzi sapevano quanto male potesse provocare un adulto. Un fremito elettrico fece tremare gli arti degli Sfigati. Le loro gole erano diventate ancora più secche, quasi bruciavano. Paonazzi e gocciolanti di sudore per il caldo che ora aleggiava nell'abitazione più intenso di prima, si decisero a salire le scale, tenendo fissi gli sguardi sulla porta aperta, un gentile e fatale invito che il demone gli aveva lasciato. «Molto ospitale il padrone di casa» rise istericamente Thomas. Gli altri, per riflesso, lo seguirono a ruota. Erano così carichi di orrore che sarebbe bastato un alito di vento per farli saltare come scimmie che svolazzano da un albero a un altro nella foresta. Anni dopo, quando avrebbero rammentato ciò che era successo quel giorno, avrebbero constatato che di divertente c'era ben poco. Oltre la porta, sulla sinistra si apriva un lungo corridoio con tre porte, mentre sulla destra c'erano tre fioche luci giallognole impolverate. «Dobbiamo proprio andare?» chiese lagnoso Ed. «Sì señor, è il suo momento» puntualizzò Thomas. «Ok» pronunciò strozzato Ed, con la fronte imperlata di sudore e il respiro affannato. I ragazzi avanzarono disponendosi in questa sequenza: Leonard, Jennifer, Ed (che stringeva sempre più forte la mano della ragazza), Lucas, Bobby, Taylor, Thomas, Sophia e infine Chris.

All'improvviso, l'aria sembrò caricarsi di un pungente tanfo di uova marce. «Ci siamo» borbottò Chris dalle retrovie. Gli occhi dei ragazzi perquisivano in modo incessante le porte e la vecchia e ammuffita carta da parati, strappata in maniera tale da far intravedere macchie scure di chissà quale sostanza chimica. I loro sudori si mescolavano con il puzzo generale della casa. Ferormoni e altre misteriose sostanze chimiche. La penombra era resa spettrale da quella luce artificiale sepolcrale e il pavimento scricchiolava a ogni loro concitato passo. Sulla parete alla destra, Chris vide dei quadri. Vi erano raffigurati degli scheletri vestiti di tutto punto. Il ragazzo ebbe la sensazione che una delle figure gli stesse ammiccando. Lo scheletro protese la bocca in avanti, come a mandargli un bacio. Nonostante il sudore, Chris raggelò e decise di distogliere lo sguardo. Ora, nella mente degli Sfigati si palesò una nuova sensazione. Il corridoio, che prima sembrava lungo solo pochi metri, si era dilatato in una misura davvero impossibile. Nessuno di loro proferì parola, convinti che si trattasse solo di un'impressione e che non valesse la pena raccontarla agli altri. Il corridoio ora appariva agli occhi dei ragazzi come lungo mille metri, come se lo vedessero dalle estremità sbagliate di un binocolo, in una sorta di allucinazione onirica. Eppure, quel luogo era reale, così come era reale la puzza nei loro nasi.

Senza neanche rendersene conto, il gruppo che prima era compatto si era separato in tre tronconi. Il primo ad accorgersene fu Lucas, il suo spirito d'osservazione era in assoluto il più sviluppato di tutti. In un primo momento, gli sembrò strano che quello strano fenomeno non avesse attivato la mente super sensibile di Jennifer. C'era qualcosa che non andava. Vedeva la schiena di Ed lontana centinaia di metri. Si portò il dorso delle mani agli occhi e cominciò a stropicciarseli. Quando si rese conto che, nonostante lo strofinio, quell'immagine allucinatoria non se ne andava, si arrestò di colpo. Bobby, che era alle sue spalle, urtò con il ventre contro la sua schiena. «Che fai, Lucas?». Il ragazzo sembrava paralizzato. Un'inquietante presa di coscienza gli stava otturando i circuiti, come polvere che intasa la ventola di un vecchio pc. Si voltò con gocce di sudore che schizzarono via come bimbi sugli scivoli. Oltre Bobby e la biondina Taylor, a distanza siderale c'erano Thomas, Sophia e Chris. Portò di nuovo gli occhi davanti a sé. Non era un'allucinazione, o meglio: era un'allucinazione reale.

«Ragazzi, fermatevi, c'è qualcosa che non va!». Al grido di Lucas, Leonard, Jennifer ed Ed si voltarono come se avessero sentito una vocina provenire da un lontano tombino. Fu allora che i tre si accorsero di quanto fossero dannatamente distanti gli altri del gruppo. Era davvero diventato così lungo il corridoio? Ora quel luogo macilento e puzzolente, sbagliato, si palesava in tutta la sua stranezza, troppo grande, con gli angoli sfalsati e prospettive distorte, proprio come in un sogno. Il pavimento sembrò pendere e contorcersi, mentre le sagome dei loro amici sembravano rimpicciolirsi. Frattanto, i tre ragazzi in fondo alla fila presero finalmente atto che tutti avevano notato che si stessero separando e che non era solo una mera sensazione. Fu un attimo. Le tre porte si aprirono all'improvviso, sbattendo con violenza.

I tre gruppetti che si erano formati furono come risucchiati dall'aria e vennero trascinati oltre quelle porte aperte, come se fossero stati inghiottiti da uragani in miniatura. Gli echi delle loro grida si dispersero nel corridoio in un debole boato non appena le porte si furono richiuse, con un cigolio che più sinistro non poteva essere.

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