CAPITOLO 1 (Parte 1)

Jennifer e Sam, ottobre 2006

Possessione. Può una città, una contea intera essere posseduta da un demone?

E con "tutta" s'intende proprio tutto. Soprattutto le persone, manipolate e violentate nei loro sogni, logorate e divorate nello spirito e poi nel corpo e infine uccise. Perché lo fa? Perché è come un predatore, ha fame e caccia! E cosa mangia? Un po' di tutto: radiazioni, sogni, carne umana, soprattutto quella dei bambini e dei giovani, e paura. La paura? I sogni? Ma si possono davvero mangiare? Così sembrerebbe. Sembra uno di quei posti magici, abitato da creature magiche che fanno cose... magiche... terrore... è tutto ciò che riesco a vedere nei suoi occhi e null'altro. Come ha fatto a sopravvivere? Come fa ancora a vivere? Può davvero una ragazza di tredici anni affrontare un simile orrore ed essere ancora sana di mente? Jennifer... Primestone...

La città e l'intera contea erano come avvolte da uno schermo magico invisibile. Sam non lo sapeva davvero, così come non lo sapeva Jennifer, ma lo avvertivano, sentivano che si stavano avvicinando a qualcosa, a quello là, come quando si ha un brutto presentimento sulla sorte di uno dei propri cari o su sé stessi. Era come un mondo a parte, dimenticato dagli uomini, escluso contro la loro volontà dalla conoscenza e dall'osservazione. Nessuno si avvicinava alla zona di Primestone, quasi che una forza misteriosa volesse celarne la presenza, come l'isola che non c'è di Peter Pan; così doveva essere: un luogo frutto di leggende e dimenticato dal mondo. Ma non era sempre stato così. Fino a venti anni prima almeno, oltre quattrocentomila persone vi abitavano. Ora forse ne erano rimasti o ritornati un centinaio nella zona, immersi nella maestosità delle foreste del centro-nord delle WesternLands, attraversata dal fiume Pinnot con la cittadina ormai fantasma di Primestone, giacente come un corpo morente all'ombra del monte Sik. E con ostinazione, a bordo di un vecchio e malandato pick-up rosso, Sam Peterson e Jennifer Pittsburgh si avvicinavano a quel luogo che non esiste, perché se chiedi di Primestone, tutto ciò che ti diranno sarà: che roba è?

Mancavano ancora moltissime ore per raggiungere la cittadina di Primestone. Così tante che senz'altro si sarebbero dovuti fermare per la notte in qualche motel fatiscente lungo la statale sessantasei. Se non ne avessero trovati, si sarebbero dovuti accontentare di quello squallido veicolo, che con la ruggine sembrava più vecchio di quanto in realtà non fosse. E il tempo non era stato clemente neanche con i sedili, strappati in certi punti lungo i fianchi, con l'imbottitura che in parte era fuoriuscita. E tra tappetini e plastiche logore, e immersi nella puzza di auto usata e maltrattata, se ne stavano seduti Sam e Jennifer, il primo alla guida, la seconda seduta accanto, con i piedi sul cruscotto. I due finestrini erano di pochi centimetri aperti, non troppo, in modo da non far entrare il forte vento che soffiava, ma abbastanza per non soffocare tra quelle lamiere che si scaldavano così in fretta da poterci cucinare un pollo in estate. Fortuna che era autunno, ma bastava un po' di sole per trasformare l'auto in un forno. E quel giorno, anche quei flebili raggi di luce erano stati oscurati dalle nuvole che via via si ingrigivano.

Sam fumava una sigaretta e di tanto in tanto buttava la cenere oltre il finestrino. Aveva i capelli castano chiari arruffati davanti alla fronte e uno sguardo pensieroso e preoccupato rivolto dritto verso quell'infinito serpente che era la statale sessantasei. Ma degli occhiali da sole a goccia, con le lenti ambrate, riuscivano a nascondere almeno in parte il suo stato d'animo. Jennifer invece era come un gracile pulcino. Superava a stento il metro e cinquanta e forse dire che pesava quaranta chili significava esagerare. Aveva dei capelli nero corvino che le cadevano sulle spalle, con una frangetta che terminava poco sopra le sopracciglia. La sua pelle era pallida, candida come neve abbagliata dalla luce. Sam si voltò per qualche istante verso di lei. Jennifer aveva degli stupendi occhi verdi e sul suo viso morbido e allo stesso tempo spigoloso nei punti giusti, era possibile scorgere la bellezza della donna che sarebbe diventata. Ma lo sguardo dell'uomo ricadde su altro. Aveva grosse occhiaie nere e borse sotto gli occhi, così livide che da lontano potevano sembrare un trucco e facevano da contrasto al pallore del suo viso, spezzato da un paio di guance rosate e da sottili labbra appena evidenziate da un lucidalabbra trasparente. Jennifer sospirava fiacca e di tanto in tanto sembrava addirittura ansimare.

«Ehi, caccola, come stai?» chiese Sam timoroso. «Bene, bene... sono solo un po' stanca e... ho sonno». L'uomo rimase per qualche secondo in silenzio, poi riprese a parlare: «Perché non provi ad addormentarti? Può essere che ora ci riesci, ci sono io con te». «No, n-on posso, non aspetta altro. E ora che ci avviciniamo diventa sempre peggio». La voce di Jennifer si fece più bassa e tremolante. «Da quanto tempo non dormi?». Jennifer fece una pausa. Abbassò il capo e chiuse gli occhi. Poi li riaprì. «Negli ultimi due mesi credo di aver dormito non più di un'ora a notte...». Sam sentì un nodo alla gola. Povera caccola. Cominciò ad agitarsi e fu preso da una lieve ma fastidiosa rabbia. «Caccola, il piano è semplice, andrà tutto bene, fidati. Andiamo lì, tu fai quello che devi fare con la tua super testolina e io lo finisco a mazzate. Così dopo io me ne ritorno a dare la caccia a quel tizio e tu puoi riposare e vivere la tua vita serena con Millie». Jennifer mise i piedi a terra e sbuffò. «La fai fin troppo facile Sam! Non ho più i miei poteri e pensi che lui si lascerà prendere a sberle in faccia senza reagire? Sam, è pericoloso, non saremmo dovuti venire... io... non sono fiduciosa...». Sam le mise una mano sulla spalla. «L'hai già battuto una volta... lo batterai anche questa volta, fidati, ce la faremo. Mi sono offerto di aiutarti e manterrò la mia promessa. Per te, per tutti gli Sfigati e per tutti quelli che ci hanno rimesso o che potrebbero farlo». Sam sorrise, e Jennifer ricambiò il sorriso. L'ho battuto perché qualcuno mi ha aiutata. Per poi fargli una pernacchia. «E non chiamarmi caccola, non mi piace!». «D'accordo... caccola». Sam scoppiò a ridere, mentre Jennifer provava a trattenere le risate. A lei piaceva il vezzeggiativo che le aveva dato, ma non voleva che lo sapesse. Incrociò le braccia e si voltò dall'altra parte, a osservare l'immensità dei campi e della foresta poco oltre. Un sorriso le percorse le labbra. Un sorriso amaro però.

Era quasi mezzogiorno. Il vento continuava a soffiare forte e il sole era ancora più coperto dalle nuvole, come un pesante piumone copre un corpo d'inverno. Jennifer sentiva tutta la stanchezza sulle spalle e ora cominciava anche ad annoiarsi per il lungo viaggio. Aprì il cassetto di fronte a sé e prese un pacchetto di sigarette già aperto. Ne estrasse una e mise il filtro in bocca, poi con due dita estrasse l'accendino dallo stesso pacchetto e fece ruotare la rotellina con il pollice. L'accendino fece un paio di scintille, ma prima della terza, Sam le afferrò il polso.

«Signorina, che cosa pensa di fare?». Lo sguardo dell'uomo appariva severo. «Ah, ora sono signorina e non più caccola?». Jennifer diede uno strattone e si liberò dalla presa di Sam. Provò ad accendere la sigaretta, ma l'uomo con un leggero schiaffetto le fece cadere l'accendino. «Ehi! Ma perché non ti fai gli affari tuoi?». «Mi dispiace, ma non posso permettere a una caccola di consumare tabacco, è un fatto di morale. E poi ti fa male... e poi Millie mi ucciderebbe se scoprisse che ti ho lasciato fumare...». Jennifer rispose con una smorfia: «E allora tu non dirglielo! E poi né tu, né Millie siete i miei genitori... e sono una mutante, quindi i miei polmoni si rigenerano». «Ma non abbastanza in fretta, senza contare che può venirti un tumore. Poi voglio vedere se si rigenera pure quello che farai...». Jennifer sollevò gli occhi al cielo e mosse le dita per schernirlo. «Gne, gne, gne!».

Si abbassò con difficoltà, per via della cintura di sicurezza che la teneva ben stretta al sedile. Raccolse la sigaretta e l'accendino e questa volta la accese al primo colpo. Inspirò per poi espirare una piccola nuvoletta di fumo. Guardò Sam, gli fece un sorrisetto ironico e gli cacciò la lingua, sollevando il dito medio. «Ma tu guarda un po' questa gran pezzo di... caccola! Sai che ti dico? Hai ragione, affari tuoi, goditi il fumo!». «Oh, Mister Morale ha smesso di fare il sermone per fortuna!» osò con sarcasmo Jennifer. La ragazzina fece cadere delle cicche per terra. «Caccola, non per terra!». «Oh, scusa, in effetti è un'auto di lusso, hai ragione, non vuoi che si sporchi...». «Ohhh, perdonami se non sono ricco quanto la qui presente caccola, chiedo venia!» rispose Sam questa volta in modo ironico anche lui. Ma Jennifer subito ribatté: «Ero ricca! Peccato che si sia fottuto tutto quel bastardo di mio padre!». «Signorina, linguaggio! Non sei una scaricatrice di porto!». «Ti ha istruito bene Millie, come ci è riuscita, ti ha fatto vedere il suo tesoro nascosto lì sotto?». Sam la guardò incredulo, con bocca spalancata e occhi sgranati. «Che diamine...». Jennifer guardò per un attimo negli occhi di Sam e poi si limitò a un leggero inarcamento delle labbra. Si voltò e non disse più nulla. Ma tu guarda questa, pensò l'uomo.

Il viaggio continuò per altri venti minuti e non una parola fu pronunciata dai due. Jennifer accavallò le gambe. Prima la destra sulla sinistra, poi la sinistra sulla destra. Gettò via anche ciò che restava della seconda sigaretta, facendo una profonda espirazione. L'auto si riempi quasi del tutto di fumo. «Devo pisciare − disse Jennifer − e ho fame». Sam si voltò verso di lei mostrandogli un'apparente pacatezza nello sguardo, nervi che avrebbero voluto tendersi, ma che furono costretti a rilassarsi. «"Urinare", si dice "urinare", caccola, non "pisciare". Per favore, parla in modo civile». «Parla in modo civile» bisbigliò la ragazzina, imitando la voce di Sam. «Cosa hai detto? Hai detto qualcosa?». «No, nulla!» disse Jennifer con tono squillante. Sam fece un sospiro. «Ecco, siamo fortunati! Vedo una stazione di servizio laggiù!». Jennifer subito aguzzò la vista.

La stazione di servizio sembrava sbucata fuori dagli anni Cinquanta, come in uno strano gioco temporale. C'era un grosso palo alla cui sommità era presente un'ellisse rotante con la scritta "OIL". Le pompe di benzina, così come il negozietto annesso erano di un arancione sbiadito e apparivano assai malmesse. Il pick-up lasciò la statale e si catapultò a velocità sostenuta sulla terra battuta. Un grosso polverone si sollevò e il mezzo si fermò a una delle pompe, con un fastidioso stridio di frenata e lasciando l'impronta ben visibile degli pneumatici.

«Ora faccio rifornimento, poi entriamo nel negozio». «Ciao Sam, io vado a piscia... cioè, volevo dire a urinare!». Jennifer si slacciò la cintura, aprì lo sportello, lo sbattè forte e corse verso la porta d'entrata del negozio. «Ma fosse una volta che mi desse retta!» sentenziò rassegnato Sam. Jennifer intanto si precipitò con il suo giubbotto di un paio di taglie più grandi e svolazzante verso l'entrata, illuminata da luci al neon di tutti i colori di cui una in particolare riportava la scritta "OPEN". Oltre le vetrine, piuttosto sporche, si potevano intravedere le file di scaffali bianchi in ferro battuto. Quando Jennifer aprì la porta, una campanellina suonò. Dietro al bancone, un uomo tarchiato sulla quarantina con un cappello di paglia in testa se ne stava seduto a leggere un giornale. Sollevò lo sguardò al suono della campanellina e vide una ragazzina magrolina, pallida e spiritata correre verso di lui. Abbassò del tutto il giornale.

«Assorbenti! Dove sono?». L'uomo rimase per qualche attimo in silenzio, sorpreso dalla domanda. «Terza fila, in fondo a sinistra». Jennifer si voltò subito e corse nella direzione indicata dall'uomo. Il negozio vendeva qualsiasi tipo di articoli, dai tabacchi ai giocattoli, dalle riviste agli alimentari. Jennifer frenò di colpo e guardò in mezzo agli scaffali. «Vende solo questi? Pazienza, mi servono». Afferrò il piccolo pacchetto viola e si precipitò di nuovo verso la cassa. «Presto, prima che rientri quel signore, ho vergogna!». Il negoziante rivolse lo sguardo verso le pompe di benzina. C'era un uomo con un giubbotto di pelle nera che stava facendo rifornimento e aveva lo sguardo rivolto al cielo, mentre fischiettava. «E di me non hai vergogna?». «No, lei è il negoziante, lei è neutrale!». Alla risposta della ragazzina, l'uomo fece un leggero sorriso. «Fanno un dollaro e venti». Jennifer mise la mano destra nella tasca ed estrasse delle monete. Le posizionò sulla mano sinistra e si mise a contare. Una volta raccolte tutte quelle necessarie, le passò all'uomo. Quest'ultimo aprì la cassa, posò il denaro, fece lo scontrino che passò a Jennifer e poi la richiuse. «Dov'è il bagno?» chiese Jennifer con voce allegra. «Il bagno? Nell'angolo in fondo a destra!». «Grazie!».

Si diresse verso l'ultima fila del piccolo negozio e l'attraversò tutta. Giunse alla porta del bagno, stretta e usurata dal tempo, di colore arancione, lo stesso dell'esterno del negozietto e delle pompe di benzina. Una volta entrata, richiuse la porta. Piccole piastrelle bianche e azzurre decoravano sia il pavimento che le pareti. A sinistra c'era un lavabo con lo specchio, in fondo una finestra, i cui contorni erano stati intaccati da un sottile strato di muffa nera, formatosi a chiazze come delle macchie nere di caffè cadute su una maglietta. A destra c'erano invece due piccole cabine arancioni, i due bagni, anche loro piuttosto vecchi. Jennifer ebbe un piccolo giramento di testa. Forse era per la polvere presente in quantità nel locale, forse per gli odori, un mix di urina stagnante, acqua di scarico e muffa vecchia di anni, o per la fioca luce di una pallida lampadina retta al soffitto solo da un paio di fili. Notò che negli ultimi due mesi aveva messo insieme poco più di trenta ore di sonno e tutto in un attimo sentì la stanchezza accumulata, dapprima dimenticata mentre cercava gli assorbenti senza farsi beccare da Sam, perché a lei non andava che lui fosse a conoscenza di quando aveva le sue cose da donna. Appoggiò la mano pallida alla parete vicino alla porta, abbassò il capo e prese fiato.

Che schifo, non avrei dovuto toccare questa parete sudicia. Con scatto deciso e a passo svelto, entrò nella prima cabina che trovò e chiuse la porta. Le pareti della cabina, come un azzurro cielo di primavera appena sopra l'aperta campagna, erano costellate da numeri di telefono di persone che offrivano "servizi particolari" a chi li avesse contattati. Un paio di scritte invece erano cuori con iniziali di nomi. Abbassò i pantaloni e poi le mutandine rosa, decorate da un sottile merletto rosso al bordo superiore. Odio i mal di pancia. Ma perché? Odio queste cose da donna. E il sangue, e gli assorbenti e... i mal di pancia! Dio, se odio i mal di pancia! Meglio essere un uomo, oh sì, meglio uomo! È anche più comodo farla. E poi questa puzza... non la sopporto! Questo water... chissà cosa ci sarà sui bordi, meglio che mi allontani ancora un po'. Ci sarà di certo qualche esotica malattia, magari l'ebola, o il vaiolo, o l'aids, o quella dell'est, come si chiama? La febbre gialla! Magari c'è anche la peste bubbonica!

Quando ebbe finito di sistemarsi, tirò lo scarico usando il gomito. Uscì dal bagno ed estrasse dalla tasca una sigaretta che aveva preso dal pacchetto di Sam e l'accendino. La accese. Quando espirò la stanza si riempì di un denso fumo grigiastro. Si avvicinò alla finestra, prese un fazzolettino e tirò la leva per aprire la finestra a ribalta, proteggendosi la mano con il pezzo di tessuto che aveva appena estratto. Lo gettò poi in un secchio dell'immondizia vuoto posto poco distante dal lavabo. Fece altri tre o quattro tiri dalla sigaretta, provando a gettare il fumo fuori per far arieggiare il bagno, nel tentativo di liberarsi di quell'odore pestilenziale che lo impregnava, come una spugna che assorbe tutte le impurità.

A un tratto, dal bagno dove era stata, sentì un gorgoglìo, come quando dell'acqua risale da uno scarico. In un primo momento non ci fece caso, poi il suono divenne più intenso e insistente. Cominciò ad avvertire odore di sangue. Il suo. La sua pelle divenne fredda e anche quel poco di rossore che aveva sulle guance svanì. Piccoli tremolii le invasero gli arti superiori e inferiori, ma cominciò comunque a camminare in direzione del rumore. Più si avvicinava, più lo avvertiva in maniera nitida e anche l'odore si faceva più acre, più penetrante. Iniziò a provare un leggero formicolio alle narici e poi un leggero bruciore ai polmoni e fu colta da una leggera nausea. Posò titubante la mano sinistra sulla maniglia della porta. Il fazzoletto, dovevo usare un fazzoletto, la maniglia è sporca. La tirò verso il basso e aprì. Osservò il water come se fosse un oggetto alieno. Proseguì nella sua lenta e folle corsa. I battiti del cuore si facevano sempre più rapidi e ora poteva sentirli netti e all'altezza della gola. Le vene sui polsi e sulle tempie pulsavano, come piccoli tamburelli. Avvicinò con flemma la testa in avanti, in direzione del buco del wc. L'acqua sembrava come ribollire. Piccole bolle si formavano per poi scoppiare quasi subito e gorgogliavano come in un gargarismo. Poi l'acqua divenne rosso opaco, prima a chiazza, poi del tutto e poi divenne cremisi e poi... iniziò a salire, rapida e impetuosa, come un fiume in piena. Jennifer emise un grido sommesso, portò entrambe le mani sulla bocca e camminando all'indietro e come un granchio uscì dalla cabina.

Il sangue, perché era sangue, schizzò in aria per quasi due metri, come se fosse un piccolo geyser. Le pareti della cabina e il soffitto in corrispondenza ne furono imbrattati, così come il pavimento che pochi secondi dopo fu del tutto sommerso dal liquido rosso che cominciava a uscire dai bordi come la lava di un vulcano effusivo. Ben presto, il sangue invase tutto il bagno, fermandosi a pochi centimetri dalle scarpe di Jennifer che era arrivata nei pressi del lavabo, tenendosi ancora le mani alla bocca. Poi una voce le arrivò alle orecchie da dietro, una voce sinistra e familiare, ma di quelle che non vorresti mai risentire. Si girò di colpo e fece qualche passo indietro. Finì con il calpestare il melmoso strato di sangue e produrre piccoli schizzi. Si guardò intorno e notò che anche le pareti del bagno, tra le sottili incanalature delle piastrelle, trasudavano lunghe gocce di liquido cremisi raggrumato. Jennifer tolse le mai dalla bocca, prese tre o quattro sospiri rapidi e cominciò a parlare nevrotica.

«Non sai fare di meglio? Tutto qui? Sangue dalle pareti e dal cesso? L'hai visto in qualche film? Ti stai iniziando ad appassionare alla televisione di noi umani? Lo sai benissimo che questi trucchetti non funzionano più con me, non più. Potrai anche cogliermi di sorpresa, ma ora non puoi più nulla... a parte non farmi dormire!».

Dallo specchio del bagno apparve una figura. Uno scheletro nero, a mezzo busto. Il teschio era avvolto da bende anch'esse nere, che lasciavano scoperto solo il foro del bulbo oculare destro. Era ricoperto di una melma nera, filamentosa che somigliava a delle alghe. All'improvviso il braccio destro dello scheletro fuoriuscì dallo specchio rompendolo. Poggiò la mano sul bordo del lavandino. Poi uscì la testa e infine anche l'altro braccio. Il vetro era andato in frantumi e mezzo scheletro sedeva nella conca del sanitario. Dalle bende colava un liquido acquoso e nero e una puzza di feci in decomposizione infestò l'atmosfera. Jennifer portò alla bocca le mani di nuovo, sia per trattenere l'urlo, sia per evitare di rimettere.

«Ciao Jennifer, Ti Sono Mancato!?».

Jennifer aveva gli occhi lucidi e respirava a fatica, ma si fece coraggio. Gonfiò il petto, prese un grosso respiro e fece un paio di tremolanti passi in avanti.

«No, maledetto stronzo, bastardo! Mi hai fatto visita già questa notte! E le notti prima ancora! Quando mi lascerai stare in pace?».

Un grosso ghigno si palesò sul volto dello scheletro. Le bende si strapparono in corrispondenza della bocca fatta come di muscoli e gomma, molto flessibile, sulla quale si delineò una specie di sorriso.

«Jennifer, Lo Sai Che Non Posso Lasciarti Andare, Tu Sei Spe-Cia-Le... Tu Sei Il Mio Umano Preferitooo, Anche Se For-Se Dovrei Dire Mu-Tan-Teee... Anzi... Tu Sei La Mia Preda... Dimmi Jennifer, Cosa Pensi Di Fa-Re? Pensi Davvero Di Uccidermi? Pensi Dav-Ve-Ro Che Tu E Il Tuo Amico Sam Possiate Ucc-Ci-Der-Mi? Ahhhh... A Proposito Di Sam E Di Visite... Anche Tuo Pa-Dre Ti Faceva Visita La Notte... E Ora Che Cosa Desideri Jennifer, Vuoi Che Anche Sam Ti Fac-Cia Visita? Lo Desideri, Verooo?».

Jennifer mise le mani sulle orecchie, chiuse gli occhi e, calpestando il sangue, si diresse verso la porta d'uscita.

«Jennifer Dove Vai!? Tu Sei Una Puttanella, Jennifer! Io Lo So Che Vuoi Fargli Un Pompino! Tu Sei La Mia Preda Jennifer E Io Ballerò Sul Tuo Cadavere!».

Lo scheletro agitò le braccia avanti e indietro premendo con tutta la forza sul bordo del lavandino, fino a quando la ceramica non si spezzò. Cadde a terra franando come un masso che discende senza freni da una rupe e si sentì rumore di ossa spezzate. Jennifer poggiò la mano sulla maniglia e spalancò la porta. Fece un passo e mezzo avanti e senza accorgersene urtò con il naso sullo stomaco di Sam.

«Ehi, caccola, che sta succedendo? È tutto ok? Sono quasi dieci minuti che stai lì dentro». L'uomo osservò gli occhi di Jennifer. Erano tremolanti e lucidi, le sue labbra vibravano. Jennifer però diede una spinta a Sam con una mano. «Non ti fai mai gli affaracci tuoi, vero Sam!?». Si diresse poi in direzione della cassa in tutta fretta. Mentre era girata di spalle, l'uomo notò che le suole delle scarpe di Jennifer erano macchiate di rosso. Corrugò per un attimo la fronte, poi guardò verso il bagno. Fece capolino con la testa appena oltre la soglia. Non notò nulla di strano. Non una goccia di liquido cremisi era a terra, lo specchio era intatto, così come il bordo del lavabo, nessuno scheletro nero ricoperto di bende e melma, né pareti che trasudavano sangue. L'unica cosa che si notava era la polvere, l'incuria e il mix d'odori. Sam fece spallucce e richiuse la porta. «Cose da donna» sussurrò.

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