Utile

«Guarda, Jesse» lo chiamai, stringendogli la mano. «Guarda come ho legato i capelli.»

Lui osservò la mia acconciatura dal letto dell'ospedale, con sguardo d'interesse, posandosi le dita sul mento in un gesto d'osservazione. Quel giorno mi ero fatta una treccia a spina di pesce, che mi raggiungeva la schiena e dondolava come un'altalena a ogni mio passo. «Ehi, sorellina» mi disse, tirandola come fosse una corda, «hai solo undici anni, chi vuoi conquistare?»

Sorrisi e mi avvicinai ancor più al bordo del materasso, saltellando. «A scuola tutte le bambine si fanno i capelli così, volevo provare anche io.»

«Dovresti imitare me, non loro» replicò, indicandosi il capo calvo. «Non vedi quanto sono bello, così?»

«Tu sei sempre bello, Jesse.»

Mi prese le guance tra le dita e iniziò a smuoverle in su e in giù, quasi fossero il manubrio di un volante. «Devi dire "tu sei sempre il più bello"» mi corresse con fare serio. «Ripetilo insieme a me.»

«Tu sei sempre il più malato» risposi e Jesse scoppiò in una fragorosa risata che lo scosse su tutto il corpo.

«Brava, sorellina, lo sai che adoro l'umorismo nero.» Mi scoccò un bacio sulla gote, prima di lasciarmi andare. «E con quell'acconciatura stai benissimo, sembri una diva di Hollywood. Qualunque bambino ti troverebbe una donna da sposare.»

Sghignazzai e mi feci spazio sul letto per sdraiarmi accanto a lui. Jesse si strinse nel suo posto e mi accolse, permettendomi di posare il capo contro il suo petto, il braccio a cullarmi lungo la schiena. Mi dilettai ad ascoltare il suono del suo cuore, il ritmo dei battiti che mi parlava e garantiva che ancora esisteva, che la malattia non lo aveva ancora interrotto.

«Callisto» pronunciò, «tu hai qualche desiderio che vorresti esprimere?» Si fermò un secondo: «La mia guarigione non vale.»

«Ma è l'unico che ho» mi lamentai, Jesse ridacchiò e mi diede un buffetto sulla punta del naso.

«Devi essere più egoista» disse.

«Allora...» "che mamma e papà mi amino quanto amano te", «che il tuo desiderio si realizzi.»

«Per davvero? Andiamo, non scadermi così nel banale romanticismo fraterno.»

«Tu adori il romanticismo fraterno.»

«Touché.» Si tamburellò un dito sullo zigomo. «Allora facciamo così, dato che ci tieni tanto, sarai tu a realizzarlo.»

«Cosa?»

«Il mio ultimo desiderio» rispose. «Lo realizzerai proprio tu.»

«E quale sarebbe?»

«Ancora non lo so. Strano, vero? Però ancora non me ne viene in mente uno.»

Strinsi la mano sul tessuto del suo camice azzurro. «Lo realizzerò, lo realizzerò senz'altro, Jesse» promisi con voce roca.

«È un giuramento, allora.» Chiuse la mano a pugno e sollevò il mignolo. Annuii e intrecciai quest'ultimo anch'io. «Da un giuramento non si può scappare, ti rimane addosso per sempre, lo sai.»

«Lo rispetterò» garantii. Jesse rise ancora, mi diede un altro bacio sulla guancia e io lo accolsi cercando di assorbirne più calore possibile. Quella era la mia casa: tra le sue braccia. Quello il mio cuore: nel suo petto.

«Un giorno» disse, mentre giocherellava con la mia treccia, «anche tu troverai un tuo desiderio.»

Aprii la bocca per parlare, quando una voce proveniente dalla porta della stanza mi interruppe: «Callisto.»

Mi irrigidii subito, sentii in un istante la prigione dei miei incubi tornare a rilegarmi nell'oscurità.

Sollevai lo sguardo, papà era sull'uscio, gli occhi fissi su di noi, il volto rigido.

«Tuo fratello deve riposare, non dargli fastidio.»

Aveva un tono di voce gentile, era sempre così davanti a Jesse, ma io sapevo... oh, se sapevo, sapevo in che modo quella voce poteva tramutarsi, le nefandezze che era in grado di pronunciare, la freddezza con cui me le lanciava addosso.

«Non mi dà fastidio, papà» intervenne Jesse, ma io stavo già scendendo dal letto. Mi misi in piedi sul pavimento, lo sguardo basso verso la punta delle scarpe da ginnastica. Sentii il rumore dei passi di papà farsi sempre più vicino, e la sua mano grande posarsi sulla mia spalla in quello che avrebbe potuto sembrare un gesto d'affetto, ma che era tutt'altro.

Le fascette di plastica.

Il respiro contratto.

Inspirai a fondo, cercai di non permettere al panico di divorarmi in quel modo.

Papà sorrideva, parlava con felicità a Jesse, non c'era nulla che non andava.

Ma io lo sentivo, lo sentivo come se fosse parte di me, il suo furore, la sua ira funesta, mi pulsavano dentro come un secondo cuore, e ogni battito pompava terrore e follia al posto del sangue.

Ma Jesse era lì.

Jesse era lì.

Sorrisi.

Papà mi prese la mano, guardò mio fratello e gli disse: «Dobbiamo andare, figliolo, Callisto non ha ancora finito i suoi compiti.»

«Posso aiutarla a far-»

«Sei troppo stanco, ora, tu pensa a riposare. Ti verremo a trovare domani.»

Lo sguardo di Jesse indugiò su di me, sul mio sorriso contratto, e io continuai a mostrarlo imperterrita.

Sarebbe andato tutto bene, sarebbe andato tutto bene.

«A domani, sorellina.»

«A domani, Jesse!»

Il ritorno a casa fu silenzioso.

Non parlò mai, nemmeno mentre guidava, nemmeno mentre apriva la portiera, nemmeno mentre salivamo nell'ascensore fino al nostro piano.

Non parlava mai prima della punizione, era così che andava, era da quel silenzio che sapevo che l'incubo sarebbe iniziato.

Aprì la porta d'ingresso del nostro appartamento senza dire una parola e, non appena la richiuse alle nostre spalle, la sua mano mi raggiunse.

Afferrò la treccia che mi ero fatta, la tirò con forza fino a quando non sentii il cuoio capelluto iniziare a bruciare e sanguinare.

«Come osi» tuonò «vantarti dei tuoi capelli di fronte a tuo fratello?»

Non lasciai andare alcun verso. Sapevo che non sarebbe servito. Sapevo che lo avrebbe solo fatto arrabbiare di più.

Mi trascinò via lungo l'ingresso tirandomi per la ciocca con una violenza tale da farmi sentire già il rumore blando dei capelli che si strappavano. Cercai di stare al suo passo, di non piangere, di non urlare, di fare tutto il necessario per impedire di accrescere la sua ira, ma non fu sufficiente.

Papà mi portò fino al bagno grande dell'appartamento, dalle piastrelle bianche e i sanitari moderni in porcellana.

«Tu devi imparare cos'è l'umiltà!» latrò, con così tanta forza che sentii la sua voce provenire da tutte le parti, sopra, sotto, destra, sinistra, ai miei piedi, alle mie spalle.

Respiravo a stento. Cercavo di trattenere l'aria per non piangere. Sentivo il gelo ustionarmi lo stomaco, un dolore così acuto da farmi desiderare di morire sul posto, ma non potevo, non osavo. Jesse poi non avrebbe più avuto nessuno.

«Ti prendi gioco di tuo fratello, eh? Ti prendi gioco del fatto che non ha più i capelli! Piccola bastarda ingrata!»

Mi morsi il labbro con così tanta forza da sentire il sapore ferroso del sangue, ma continuai a rimanere in silenzio. Fissai il nostro riflesso sullo specchio del lavandino: papà sembrava un mostro, una creatura uscita da un libro mitologico, e io la sua preda preferita, destinata a venir uccisa.

Mi tirò ancora per la treccia, sollevando la presa in alto, con così tanta forza che dovetti mettermi sulle punte per soffocare almeno in parte il dolore.

«Adesso ti insegno io cos'è la vera umiltà! Te lo insegno io!»

Spalancò l'anta dell'armadietto accanto allo specchio e da uno degli scaffali tirò fuori il rasoio elettrico.

Fu allora che compresi.

Ebbi un attimo di panico, un momento in cui desiderai poter ribellarmi. Aprii la bocca per parlare, per controbattere qualcosa, dirgli che mi ero fatta la treccia solo per mio fratello, solo per vederlo felice, ma non ci riuscii. Mi bastò vedere i suoi occhi, i suoi occhi che più non avevano un colore, dipinti solo dalla collera ancestrale, per appassire sul posto.

«Ora capirai cosa prova Jesse.»

Di quel giorno, avrei per sempre ricordato il rumore elettrico del rasoio.

Una rapsodia che accompagnava la mia paura.

La pioggia di capelli che mi si accumulò attorno ai piedi, a montagne,

Le ciocche che piangevano al posto mio.

*

Quel giorno, quando entrai nella stanza di Jesse, lo trovai intento a leggere un libro, sdraiato sul suo letto. Una flebo era attaccata al suo braccio sinistro e i suoi occhi erano particolarmente interessati dalla lettura, al punto che non sentì la porta aprirsi.

«Jesse?» lo chiamai, e le sue spalle sussultarono. Voltò il capo verso la mia direzione, un sorriso immediato gli si formò sulle labbra.

«Callisto!» Richiuse il libro con velocità e lo ripose sul comodino accanto al letto. Il suo sguardo ricadde sulla busta di plastica che stringevo in mano. «Ti prego, dimmi che sono marshmallow, dimmi che sono marshmallow, dimmi che sono marshmallow.»

Infilai una mano dentro la busta e tirai fuori il pacchetto di marshmallow della sua marca preferita. Il sorriso gli occupò tutta la faccia, divorandogliela, e io ridacchiai. Gli porsi il pacchetto e mi misi a sedere sulla poltrona al suo fianco, Jesse lo aprì con furore. Appena ne assaggiò uno, si lasciò andare a un verso di puro godimento.

«Oh sì» gracchiò, prendendone un altro, «questa è la vera felicità.»

«Solo per questa volta» lo avvisai. «Non puoi mangiare troppi zuccheri.»

«Sai quanto insapore e scolorito è il cibo qua in clinica?» si lamentò mentre masticava. «Ho bisogno di risollevare la mia glicemia, il cancro va matto per lo zucchero, lo sai.»

«Non usare il tumore come giustificazione alla tua voglia di dolci.»

«Wa è fero» rispose con quattro marshmallow in bocca. Sghignazzai ancora e feci cadere il mio sguardo sul libro che stava leggendo prima. Lo presi in mano e lo studiai con attenzione.

«Apologia di Socrate?» lessi ad alta voce. «Hai rinunciato ai tuoi romanzi trash?»

«Dopo averne letti un paio ho bisogno di ripristinare la mia intelligenza con qualcosa di serio.» Addentò un altro marshmallow. «Lo sai che adoro tutta la letteratura dell'Antica Grecia. Non a caso ti chiami Callisto, sorellina.»

Mi rigirai il libro tra le mani. Sembrava trattare argomenti molto seri, ma non avendo la stessa conoscenza di Jesse, non sapevo proprio dire di che genere. «Cos'è un'apologia?» domandai con interesse.

Jesse si fermò per un secondo, il marshmallow bianco ancora tra le dita, e per un istante una strana luce gli carezzò gli occhi, illuminandoglieli fino a farli sembrare quasi irreali. Era strano, ma non riuscii a interpretarla, e questa cosa mi confuse: sapevo praticamente tutto di lui, il significato di ogni sua più piccola azione, quella era la prima volta che mi sentivo ignara al suo cospetto.

«Un'apologia» mi spiegò con un sorriso amaro, «è un discorso che si fa in difesa di un'ideologia o di una persona.»

«Quindi questo libro è il discorso in difesa di Socrate?»

«Sì, una cosa del genere.»

«Perché lo stai leggendo?»

«È interessante.» Me lo rubò via dalle mani e lo rimise sul ripiano del comodino. «Com'è andata la giornata?»

Era raro per lui voler cambiare così presto discorso, di solito adorava parlare delle sue ultime letture, specie quelle classiche, mi domandai se mi stesse nascondendo qualcosa. Provai ad osservarlo, ma il viso non lasciava tradire nulla: era la solita faccia entusiasta di sempre, il mio solito ironico fratello.

«Jesse» lo chiamai.

«Sì?»

«C'è qualcosa che non mi stai dicendo?»

Ridacchiò, mi mise in bocca un marshmallow. «E tu? C'è qualcosa che non mi stai dicendo, Callisto?»

Capii allora che non avrebbe risposto, aveva tirato in su un muro invalicabile che nemmeno io potevo superare, perché avrebbe significato far crollare il mio. Masticai la caramella e mi sollevai per sistemargli meglio il cappellino che portava in testa: quel giorno era verde come i suoi occhi. «Stavo pensando» mormorai, «adesso che non devi fare più la chemio, perché non provi a farti ricrescere i capelli?»

«Dici che è ora? Non ricordo più neanche di che colore sono, ormai. O forse dovrei tirare fuori una parrucca.» Si grattò il mento. «Azzurra, sì. Così sembrerò un nuovo membro dei BTS.»

«Saresti terribile.»

«Ehi! Dovresti incoraggiarmi! "Sì, fratellone, saresti bellissimo, tutti si innamorerebbero di te!"» recitò con voce dolce e acuta, nel tentativo di imitarmi, le mani strette a pugno ai lati del volto in un gesto di delicatezza e femminilità. «"Io sarei senz'altro la tua più grande fan".»

«Ma davvero? Come intitoleresti la tua prima canzone?»

«Baciami il cancro.»

Risi fragorosamente insieme a lui. Jesse mi porse la mano destra, e io la strinsi con forza. Aveva le dita fredde, la pelle cerulea, ma era comunque lui, era comunque mio fratello.

«Callisto» mi chiamò, e io affondai i miei occhi nei suoi, nel suo sorriso che continuava a splendere anche dentro l'oscurità partorita dalla malattia. «Cos'hai intenzione di fare, quando io non ci sarò più?»

La domanda mi lasciò sconvolta, raggelò le mie labbra inarcate, i battiti del cuore.

Lo guardai senza rispondere, osservando l'espressione che aveva in viso, quella curiosità che non lasciava tradire alcuna paura da parte sua, seppur stesse parlando di un mondo in cui non sarebbe più esistito, un mondo in cui non avrebbe più respirato.

Era spaventosa la sua serenità, quella calma con cui si interrogava sul futuro che non gli sarebbe mai potuto appartenere; pareva quasi stesse parlando della morte di un'altra persona, un ragazzo identico a lui che gli era del tutto sconosciuto.

Aveva gli occhi gentili, gentili come solo Jesse poteva possederli, con quella tiepida luce a scaldarti dentro e a farti sentire a tuo agio anche di fronte a un quesito così spinoso.

Ma io, da parte mia, non potevo sentirmi così. Ciò che percepivo era invece l'ineluttabile solitudine che mi avrebbe travolto il giorno in cui il momento sarebbe arrivato, e che adesso gli si rifletteva nello sguardo, nella pacatezza con cui tentava di consolarmi con la mano.

Avrei voluto dirgli di smetterla di dire così, che ancora era troppo presto, che aveva appena cominciato quella terapia sperimentale, non doveva essere così pessimista.

Ma sapevo che sarebbe stata una menzogna che non potevo dargli, un'illusione che non si meritava.

A quel mondo avevo sempre avuto solo due certezze: che mio fratello era la mia vita e che mio fratello sarebbe morto prima di me.

La mia vita sarebbe morta prima di me.

E proprio per questo motivo, non avevo mai provato neppure a pensare a un possibile "dopo", un futuro del genere, perché il mio tempo e la mia esistenza si sarebbero fermati nell'esatto momento in cui si sarebbe fermato anche lui.

«Ci sarà qualcosa che vorrai fare, no? Vorrai iniziare subito a lavorare o pensi di frequentare un'università?»

Trattenni il sorriso dal crollare, lo fissai come cemento sulla bocca senza permettere alla paura di tradirmi. Ciò di cui stava parlando era un universo completamente ignoto a me, un mondo a cui non avevo mai pensato di far parte e che, a tratti, dimenticavo anche esistesse.

«Non lo so» riuscii a mormorare alla fine, «ci penserò quando arriverà il momento.»

«Devi pensarci ora» mi strinse con più forza la mano. «Devi prepararti, non avrai mica intenzione di lasciarti andare alla disperazione e non fare più niente per il resto dei tuoi giorni.»

Quella era assolutamente la mia intenzione, ma non avevo cuore di ammetterglielo. Inoltre, c'era anche un altro problema che lui non aveva preso in considerazione.

Ovvero i nostri genitori.

Perché in qualsiasi universo, che fosse il nostro o un parallelo, non esisteva un mondo in cui loro mi avrebbero lasciata andare una volta che Jesse fosse morto. Questo lo sapevo bene.

E mi ero già abituata a ciò, a quel pensiero che al contrario di preoccuparmi aveva iniziato ad allietarmi, perché in qualche modo, avrei potuto continuare a rivederlo nei loro volti, nei loro tratti somatici che lui aveva ripreso così bene.

Anche se farlo avrebbe significato uccidermi.

Ma non vedevo altra scelta, non riuscivo comunque a immaginare a un futuro in cui gli sarei sopravvissuta: sapevo da anni che il giorno in cui Jesse sarebbe morto lo avrei fatto anche io, perché il mio cuore avrebbe smesso di battere e l'anima sarebbe andata in setticemia.

«Se proprio devi disperarti» proseguì, «fallo proprio mentre sto morendo. Strappati i capelli, urla, sai da quanti anni non ti vedo più piangere? Da quando eri una bambina. Dammi almeno questa soddisfazione.»

Mi sfuggì una risata. «Non lo farò mai» dichiarai con enfasi. «Sorriderò fino alla fine.»

«Sadica donna!» inveì lui, pizzicandomi il dorso della mano. «Nemmeno una lacrimuccia? Una gocciolina? Nessun "Oh, fratellone, ti prego, no, non lasciarmi da sola?"» Imitò il piagnisteo di un bambino. «E io che avevo già preparato l'ultima frase da dirti.»

«E sentiamo, quale sarebbe?»

«Soffiati il naso che ti cade il muco in bocca.»

Gli diedi uno spintone sulla spalla e lui, tra le risate, ricadde sdraiato sul letto, la testa affondata nel cuscino. Mi sorrise di nuovo, con ancor più delicatezza, e la sua stretta si fece più calda, il suo tepore mi scivolò sotto la pelle e raggiunse il cuore. «Starai bene, Callisto» fu la promessa che mi fece quel giorno, «te lo giuro, sorellina, starai bene. Ce la farai, anche senza di me.»

Non ebbi il coraggio di contraddirlo, la forza di rivelargli che lui mi era dentro in un modo che non poteva essere spiegato a parole, e che quando mi sarebbe stato strappato via io non avrei più potuto essere la stessa, mai più.

Era questa la crudeltà di amarlo: sapere di non poter spezzarlo ancora di più.

Perché davanti a me c'era un ragazzo che dalla vita non aveva ricevuto altro che schiaffi e ingiustizie, e che comunque aveva deciso di lottare, comunque aveva deciso di sopravvivere il più a lungo possibile.

Non ero in grado di rivelargli che io, al suo posto, non ne sarei mai stata capace. Che una volta che se ne sarebbe andato, mi sarei ammalata a mia volta, ma di un male che nessun esame medico può diagnosticare: un male che non mi avrebbe più resa me stessa, che mi avrebbe lasciata per sempre sconfitta e sola.

Io lo amavo, lo amavo tanto quanto odiavo me stessa.

E proprio per questo motivo, non potei dirgli niente.

Sorrisi.

*

Mi accorsi tardi di essermi addormentata.

Quando riaprii gli occhi, anche Jesse era crollato nel mondo dei sogni. Dormiva beatamente, con la bocca aperta e un po' di bava che gli colava all'angolo delle labbra, un russare profondo, la mano ancora stretta alla mia.

Mi risollevai dalla poltrona e sentii tutti i muscoli dolere per la posizione scomoda in cui ero stata per tutto quel tempo, ma poco importava. Sciolsi l'intreccio delle nostre dita, presi il pacchetto vuoto di marshmallow che Jesse aveva ancora sulle gambe, e stando attenta a non svegliarlo gli diedi un bacio sulla guancia.

Era bello, mio fratello.

Bello in un modo tutto suo, bello in un modo che anche la malattia non può toglierti.

Mi concessi qualche minuto di silenzio per osservarlo, prima di andare via dalla stanza e richiudere la porta alle mie spalle.

Fuori il sole aveva iniziato a tramontare, e su tutto il mondo un velo arancione era calato per donare nuove sfumature ai colori del mondo. Anche il corridoio della clinica non era stato esente dal suo tocco, le pareti chiare assumevano toni più forti sotto quella tinta, e io navigai in esse beandomi di quella visione.

Salutai le infermiere che ormai mi conoscevano così bene da sapere sin da subito chi fossi e quale paziente avessi appena finito di vedere. Fu proprio dopo aver ricevuto un cenno del capo da una di loro e averle superate, che sentii un tintinnio metallico provenire dai miei piedi.

Mi fermai, calai lo sguardo sul pavimento e per qualche minuto non compresi cosa potesse aver provocato quel suono, fino a quando un luccichio argentato, proprio vicino alla punta delle mie scarpe, non attirò la mia attenzione.

Capii subito cosa poteva averlo provocato.

Uno dei miei bracciali.

Il più grande tra tutti, quello che copriva il mio polso destro, una fascia d'argento grande almeno due centimetri, dalle frange a forma di stelle.

Sentii tutta l'aria rimasta nei polmoni piombarmi nello stomaco come un gigante masso rovente, la gola occludersi per un panico che non era descrivibile a parole, per un segreto che non avevo mai rivelato a nessuno, nemmeno a Jesse.

Subito, in un gesto automatico, coprii la parte rimasta nuda del polso destro con la mano sinistra e ripresi il bracciale. Mi guardai attorno e sospirai quando mi accorsi che ancora non c'era nessuno abbastanza vicino da poter vedere il mio segreto.

Lasciai andare la mano e guardai il punto che il bracciale caduto aveva lasciato scoperta: la cicatrice che come uno spago sottopelle s'inerpicava lungo tutto il perimetro del polso, unendosi in un cerchio perfetto. Era spessa, in rilievo e ancora rossa, fiammeggiante, gli altri gioielli la coprivano a stento.

Guardai il bracciale, lo analizzai con attenzione. Era strano... non era rotto da nessuna parte, i suoi anelli erano ancora tutti integri, quindi com'era possibile che mi fosse caduto in quel modo? Lo avevo chiuso male quella mattina, prima di svegliarmi? Mi sembrava l'unica possibilità sensata.

Lo rimisi a posto, e la cicatrice svanì sotto il suo riverbero argentato.

Era un bene che mi fosse caduto ora, e non prima.

Se fosse scivolato via mentre ero con Jesse, non avrei saputo che scusa dargli di fronte a quella ferita che possedevo.

Nessuna giustificazione avrebbe potuto ingannarlo.

Strinsi il polso in mano con forza, inspirai a fondo.

Nessuno...

Nessuno avrebbe mai dovuto sapere.

Nessuno avrebbe mai dovuto vedere.

Il mondo dietro quell'armadio, quello accanto al termosifone.

Il mondo nel mio stomaco, di cui nessuno sapeva il nome.

Ma io sì.

E si chiamava Inferno.

*

«Stai ferma un attimo... Ok, ci siamo quasi...»

«Avevi detto che volevi truccarmi, non torturarmi.»

«Ti sto truccando infatti! Guarda che questo è solo un po' di mascara!» si difese in fretta Eve.

«Mascara? A me sembra il marchingegno con cui costringono Alex DeLarge a tenere gli occhi aperti in Arancia Meccanica.»

«Dai che ho quasi finito, aspetta solo un secondo...» La udii schioccare la lingua. «Ecco fatto! Guardati, sei una meraviglia!»

Ero seduta sulla panchina del cortile della scuola, e Eve, in piedi di fronte a me, mi passò il telefono così che potessi guardarmi dalla telecamera frontale.

Mi aveva messo un po' di ombretto azzurro sulle palpebre, il rimmel e un lucidalabbra rosa, e non potevo negare che aveva fatto un ottimo lavoro, era sempre meglio del mio solito aspetto struccato, tuttavia...

«Allora?»

La guardai, aveva il petto gonfio di orgoglio e un sorrisone gigante sulle labbra, si vedeva da lontano un miglio che era pronta a ricevere complimenti. Stringeva la pochette dei trucchi ancora tra le mani con una fierezza inaudita.

«È okay.»

Spalancò la bocca. «Okay? Okay? Tutto qui quello che hai da dire?»

«Cosa vuoi che ti dica, esattamente?» domandai confusa.

«"Oddio, Eve, così mi sento bellissima!"» squittì. «Oppure: "Non sapevo che truccarsi fosse così bello."»

«Infatti non è bello, è una tortura cinese.»

Sbuffò. «Che esagerata. Ti dà fastidio solo perché non l'hai mai fatto prima d'ora» mi punto il dito contro. «Non ti vedi più carina, ora?»

Carina?

Io?

Tornai a guardarmi: il volto ovale, i capelli castani a caschetto dalla lunga frangia, gli occhi nocciola, il naso dritto, un bel po' di brufoli addosso. Nell'insieme non un orrore, ma comunque una faccia che si poteva incrociare in qualsiasi luogo e momento, simile a tutte le altre.

Sì, era un bel trucco, questo non potevo negarlo, ma addirittura definirmi carina... «Mi sembro la solita ragazza anonima di sempre.»

Mi puntellò l'indice sulla fronte, attraverso la frangetta. «Avere un viso comune non vuol dire essere anonimi» mi spiegò con fare da maestra. «Ognuno ha i suoi pregi fisici, anche se tu magari non riesci a vedere i tuoi.»

«Non so, per qualche motivo non riesco a prendere seriamente questo discorso se a dirmelo è una che ha l'aspetto di una diva di Hollywood» confessai con sincerità.

«Ah!» chiosò lei, stringendosi le braccia al petto. «Credi che la mia bellezza sia innata? Questa è il risultato di anni e anni di duro lavoro e dedizione.»

Non lo mettevo in dubbio: solo a guardarla si capiva che era attenta alla linea e a mantenersi in forma. La ammiravo per questo suo spirito combattivo, ma proprio non sapevo vedermi a fare la stessa cosa.

«Per essere bella» dichiarò con veemenza, «devi prima esser disposta a sentirti bella.»

Aggrottai la fronte. Il suo ragionamento... in qualche modo poteva funzionare. «Non l'ho mai vista sotto questa prospettiva» ammisi. «Quindi implichi il fatto che sono io il primo ostacolo per me stessa?»

«Esattamente. Ti impedisci di analizzarti con sguardo positivo, sei troppo critica nei tuoi stessi confronti.» Si sistemò una ciocca corvina dietro l'orecchio, prima di riprendere a parlare: «Il primo passo per migliorarsi è imparare a esser gentili con noi stessi, e questo vale per tutto, anche per l'aspetto fisico.»

Iniziavo a capire il concetto che voleva spiegarmi. Non era poi così sbagliato, e anzi, trasmetteva un messaggio positivo quasi confortante per un'anima come la mia che aveva passato anni ad odiarsi davanti al proprio riflesso.

Tuttavia...

Tuttavia c'erano catene che non potevo ancora spezzare, che mi legavano a un giudizio crudele da cui mi era impossibile fuggire. C'erano gli occhi di mamma e papà, i loro sguardi afflitti, le labbra ricurve in basso per la delusione che ogni giorno donavo loro.

«Non lo so» dissi alla fine, con un sorriso amaro, «ti confesso che mi viene un po' difficile.»

«È tutta questione di allenamento» dichiarò la mia amica con sicurezza. «Ogni giorno devi partire col presupposto di volerti sentire bella, anche quando ti senti uno schifo. Devi aprire quella possibilità, se desideri davvero che si avveri.»

Mi sollevai dalla panchina e ridacchiai, iniziando a incamminarmi con lei dentro la scuola. «Ci proverò» mentii sfacciatamente, ed Eve mi lanciò un'occhiataccia. «Ho solo bisogno di tempo, lo giuro.»

«Ah, voi giovani d'oggi» dichiarò mentre entravamo da una porta laterale al piano terra, in un'imitazione dei vecchi di paese, «cos'è che vi turba così tanto da distruggere in questo modo la vostra autostima? Io proprio non comprendo.»

«Scusami, nonna» risposi stando al gioco, «forse era meglio tornare ai tuoi tempi, quando per aver disobbedito venivamo mandati in ospedale in prognosi riservata.»

«Prognosi riservata e un papabile desiderio di diventare serial killer.»

«Quello è rimasto ancora adesso. Guarda solo a tutte le stragi nelle scuole.»

«Ah, non era colpa della circolazione delle armi che verrebbero vendute pure a un bambino di un anno se sapesse parlare?»

Ridemmo insieme, e lei fece per dire qualcos'altro, ma lo squillo del suo cellulare la bloccò. Se lo sfilò dalla tasca dei pantaloncini neri che indossava e guardò lo schermo per qualche secondo, per poi bloccarsi a metà corridoio. «Scusami, Callisto» disse, «devo incontrarmi con qualcuno? Ti dispiace se ti lascio da sola?»

«Fa' pure» le feci cenno con la mano di proseguire, «però, mi raccomando, ricordati sempre-»

«Il righello è bello solo con l'ombrello» concluse lei con fare edulcorato, e io le strizzai l'occhio.

«A dopo.»

Se ne andò a passo sgambettato verso il primo piano, supposi per tornare di nuovo all'aula di teatro, ma non ci pensai su troppo. Avevo ancora venti minuti di tempo prima che la pausa pranzo finisse, e l'unico modo che mi venne per trascorrerli fu andando alle macchinette automatiche verso l'aula d'ingresso. Un succo di frutta mi sarebbe piaciuto.

Camminai per un po', prima di arrivare al luogo destinato. Alla macchinetta non c'era ancora nessuno, perciò mi presi tutto il tempo per osservare i prodotti a disposizione e sceglierne uno.

Succo alla pera o alla ciliegia?

«Ehi, ma tu non sei la ragazza della pomata?»

La voce di Conrad alle mie spalle mi colse di sorpresa nel momento esatto in cui inserii le monetine. Mi voltai con un'espressione gentile in viso, ritrovandomelo davanti in condizione pietose.

Ruben era stato molto attento con lui: non gli aveva lasciato nessun livido evidente in zone che potessero risultare scoperte, ma dalla faccia era ovvio che quel ragazzo aveva vissuto giorni migliori. Aveva il volto emaciato, gli occhi stanchi e gonfi, e si era coperto tutto il corpo con un maglione dalle maniche lunghe e larghi pantaloni che gli strisciavano ai piedi. Le mani e la testa erano gli unici punti visibili. Eppure, si vedeva lontano un miglio che provasse dolori in tutto il corpo: spostava il peso del corpo da una gamba all'altra e ogni movimento di troppo gli strappava una smorfia di sofferenza.

Mi domandai perché avesse deciso di parlarmi, ma non mi interessava poi così tanto. «Ti è servita la pomata?» domandai, cliccando sul numero del succo alla ciliegia e aspettando che la macchinetta lo facesse cadere.

«Sì, ti ringrazio» aggrottò le sopracciglia, osservandomi con attenzione. «Perché ci hai aiutato?»

«Non vi ho aiutato» lo corressi, prendendo il mio ultimo acquisto dalla macchinetta. «Non mi piacciono i lividi, su nessuno, tutto qui.»

«Sei la ragazza di quello stronzo, non è così?»

Sgranai gli occhi, sbattei le palpebre un paio di volte, confusa, il sorriso ancora fisso in bocca. «La ragazza di chi?»

«Di quel bastardo del Dump.»

Mi domandai che razza di ragionamento avesse fatto il suo cervello per arrivare a quella conclusione. Infilai la cannuccia nel brick del succo e iniziai ad aspirare con forza il suo contenuto. «Non mi piacciono i lividi» ripetei. «Tutto qui.»

«Perché non sei intervenuta, se sapevi quello che stava succedendo?»

Presi un altro sorso. «Perché avrei dovuto?»

«Non dovrebbe essere naturale per un essere umano voler aiutare un altro?» domandò con ira, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni.

Ci riflettei su. «Non dovrebbe essere naturale per un essere umano non denigrarne un altro per motivi stupidi come il luogo da cui proviene?» domandai a mia volta, il sorriso a trentadue denti.

La mascella di Conrad si contrasse. «Stai difendendo quel pezzo di merda?»

«Sto facendo una domanda, in realtà.» Sorseggiai ancora dal brick, prima di sorridere di nuovo.

Lui si lasciò andare a una risata amara. «Quindi ti piacciono i casi di carità, eh? I reietti come quelli del Dump o le prostitute della scuola.»

Compresi allora cosa stava succedendo. Non potendo più prendersela con Ruben, aveva deciso di rendere me il suo prossimo obiettivo. Il succo alla ciliegia d'improvviso non era più così buono. Lo finii con un ultimo sorso e mantenni la mia espressione più entusiasta e cordiale mentre dicevo: «Lo vedi, è proprio per questo motivo che hai fatto quella fine.»

Lo scorsi sgranare gli occhi dalla furia, ma non gli diedi tempo di interrompermi: «Onestamente, non sono intervenuta perché penso che ti meritassi tutte quelle botte. Anzi, penso che te ne meriteresti anche altre. Abbastanza da farti capire che persona orrenda sei.»

Una vena gli si gonfiò sul collo, si avvicinò a me di un passo, ma proseguii: «Non credo nella giustizia, io, e nella dolce e cara redenzione delle persone cattive. Per me, semplicemente, se sei uno stronzo, meriti tanti pugni in faccia, tutto qui, e tu te ne meriteresti almeno un centinaio.»

«Tu, piccola-»

«Non ti preoccupare, però, ti darò sempre un po' di pomata per guarire i lividi e-»

Fui interrotta ancora una volta, ma stavolta da una mano che mi afferrò completamente il sopra del capo. Ne sentii le dita arpionarsi tutt'attorno, e scorsi un'ombra gigante alle mie spalle inglobare la mia, piccola e minuta.

Conrad, di fronte a me, si fermò dall'avanzare ancora, guardò ciò che si trovava dietro di me e tutto d'un tratto ammutolì, l'ira che gli aveva divorato la faccia scomparve e fu presto sostituita da una paura che non riuscì a mascherare, per quanto si sforzasse di farlo. Nel vederlo reagire così, compresi subito chi era il proprietario della mano che mi stava bloccando tutta la testa.

«Tu» Ruben parlò con tono normale, ma una normalità atona, fredda, che fece accapponare la pelle ad entrambi, «non hai ancora imparato la lezione?»

Conrad indietreggiò di un passo, la bocca serrata.

«Eppure» proseguì l'altro, con un pizzico di violento sarcasmo, «nel video che possiedo sei così disperato... Forse dovrei mostrarlo a tutti quanti per farti ricordare quella sensazione.»

Il ragazzo provò a dir qualcosa, ma la voce non gli usciva dalla gola, muoveva le labbra in silenzio, tra tremiti e panico.

«Sparisci» ordinò Ruben. «E ricorda: non ci sarà una seconda volta.»

Conrad esitò, per qualche secondo, ma evidentemente l'istinto di autoconservazione ebbe la meglio sul suo orgoglio, perché dopo un paio di attimi, decise di dileguarsi: ritornò sui suoi passi e sparì in fondo al corridoio, senza più dire una parola.

Io rimasi immobile sul mio posto, con le dita di Ruben ancorate alla mia testa. Aveva la mano così grande da riuscire ad afferrarmi tutto il capo con le dita, e con quella stessa mano mi obbligò a ruotare il volto verso di lui, verso il suo viso austero e impassibile, gli occhi ricolmi di giudizio, il sempiterno ciglio addosso.

Gli sorrisi affabile, ma la sua freddezza non scomparve. Sembrò addirittura più adirato di prima. Da come mi guardava, si sarebbe potuto credere che volesse aprirmi il cranio e studiarmi il cervello da vicino.

«Non ho bisogno» tuonò, «di un difensore, men che meno di uno come te.»

Ruotai tutto il corpo verso di lui, così che finalmente potessimo trovarci faccia a faccia, e con le dita andai a tastare le sue, ancora ferme sul mio capo. «Ma io non ti stavo difendendo» replicai con fermezza e un ennesimo sorriso, «dicevo solo quello che pensavo.»

Provai a staccare la sua presa dalla mia testa, ma la sua mano era inamovibile, dura come il marmo, e rimase ferma, incastrata lì.

«Non ti piacciono i lividi» disse laconico, «ma pensi che certe persone meritino di esser picchiate?»

«I lividi sono solo un effetto collaterale, un brutto effetto collaterale, che cerco di eliminare il prima possibile. Ma sì, penso che alcune persone se lo meritino. Voglio dire, non è che se odi l'uovo allora per forza odi anche la gallina, no?»

Socchiuse appena gli occhi, mi studiò con attenzione.

«E poi» aggiunsi, «aveva insultato anche la mia amica.» Strinsi i pugni e mi misi in posizione di battaglia. «È la mia prima vera amica, devo difenderla anche con i denti, se necessario! Tu eri solo un'inclusione non voluta.»

«E non pensi alle conseguenze che il tuo piccolo atto di vendetta ti potrebbe portare?»

«Intendi che finirò per essere io quella picchiata?» chiesi. «Oh, mi va bene!»

Sbatté le palpebre un paio di volte.

«Le botte non mi spaventano» dichiarai sincera. «Sarebbero spiacevoli e scomode, ma ci si guarisce.»

Non erano bugie, le mie.

La violenza fisica non mi spaventava.

Non erano i pugni, gli schiaffi, i calci, a terrorizzarmi. In qualche modo li preferivo, anzi. Perché erano qualcosa che ti rimaneva impresso nel corpo e poi spariva con qualche pomata e medicina. Qualcosa a cui avresti potuto sopravvivere, e sopravvivere era sempre la cosa più bella.

Io conoscevo un tipo di violenza molto più subdola di un paio di ganci, una fine e sottile che ti si infilava dentro e come una tossina ti ammalava l'anima, ti riempiva di un odio così profondo da sentirlo scorrerti nelle vene al posto del sangue.

Ed era proprio quella a terrorizzarmi.

Una ciotola per cani.

Un termosifone.

Un paio di fascette di plastica.

Le tenebre di un armadio.

Ritornai alla sua mano e stavolta, finalmente, mi permise di staccarla dalla mia testa. La sollevai stringendola tra le dita e in quell'attimo mi accorsi di un grosso livido che gli tinteggiava il palmo, una macchia verde dai contorni violacei.

«Lo so che rifiuterai di nuovo, però» dissi, continuando a tenerla, «la pomata che ho è davvero formidabile, un portento. L'ho usata un sacco di volte io per nascondere-»

Mi accorsi troppo tardi dell'errore, le parole che non dovevo pronunciare erano state pronunciate e lui come me lo intuì subito. Nonostante il mio sorriso non avesse mai smesso di splendere, Ruben colse subito al balzo lo sbaglio che avevo commesso.

L'angolo destro delle sue labbra si arcuò, malevole, e il suo volto assunse un'espressione di sadica soddisfazione. «Ti sei tradita, non è così?» domandò con fare retorico, con la stessa sicurezza con cui ogni giorno camminava a scuola senza temere niente e nessuno. Sapeva bene di aver appena ottenuto un pezzo inestimabile del mio segreto, un tassello del puzzle che mi componeva, e di poterlo usare a suo piacimento per sfruttarmi.

Mi lasciai andare a una risata. «Sì, è così» ammisi, ormai non aveva più senso nasconderlo. «Adesso tu possiedi un pezzo di me e io possiedo un pezzo di te» dichiarai, la sua mano stretta ancora tra le mie dita. «Non posso più farti nulla, se era quello che temevi.»

Aggrottò la fronte, l'orgoglio lo sovrastò.

«Io non potrei mai temere una come te» sillabò a denti stretti.

Era sempre così, era sempre quello il modo in cui reagiva quando qualcuno gli portava avanti le sue paure: negava. Anche se era evidente che ciò che temeva di me in modo assoluto era la mia imprevidibilità, la sua incapacità nel comprendere il perché delle mie mille menzogne e dei miei sorrisi eterni, lui comunque si rifiutava di accettarlo, sia con gli altri che con sé stesso.

Era come se vivesse in un mondo tutto suo, in cui avere spavento di qualcosa era inammissibile, una debolezza che gli sarebbe risultata fatale.

Non potevo capire il perché, ma potevo intuirlo.

Forse per tutta la sua vita non aveva mai potuto permettersi di essere fragile. Forse non aveva mai avuto qualcuno con cui mostrarsi in tutte le sue ferite e cicatrici.

Di nuovo, mi ritrovai a comprenderlo. La scelta più sbagliata tra tutte, da vera Hope Summer Destiny, avrebbe detto Jesse, ma l'unica che una come me poteva fare. Perché io lo sentivo, quel vincolo, sentivo sulle mie spalle la stessa condanna che gravava sulle sue: l'ingiustizia di non poter piangere nemmeno davanti al più crudele dei dolori, la solitudine di convivere con i propri mostri e non poterli liberare.

«Allora pensala così: adesso puoi usarmi quanto vuoi» dissi con il sorriso. «Era quello il tuo intento fin dall'inizio, no?»

Cercò di nasconderlo, ma non riuscì a camuffare la sorpresa che gli illuminò gli occhi. «Cosa ti fa credere che voglia usarti?»

«Non lo credo. Lo so. Potrei aiutarti con le tue scappatelle notturne, in fondo, come ho fatto l'ultima volta, ed impedire alle guardie di beccarti. Siamo vicini di stanza, perciò se ti succedesse qualcosa sarei la prima ad accorgermene, e proprio per questo potrei subito coprirti. Inoltre, in questo modo, potresti capire anche quali sono le mie vere intenzioni. Sono utile, lo so.» Sghignazzai. «Sono sempre stata molto utile, per questo la gente mi usa in continuazione.»

«Perché sorridi nel dire una cosa del genere su te stessa?»

«Perché non dovrei farlo? Essere utile è l'unico modo che si ha per sopravvivere.»

Lasciai andare alla sua mano e feci un passo indietro.

«Perciò suggerisco un patto» dichiarai. «Tu userai me, ma in cambio, accetterai la pomata.»

Ruben aggrottò la fronte.

Ridacchiai.

«Anche io userò te, vedila così.»

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