Sigarette
Avevo smesso di piangere a undici anni.
Le mie ultime lacrime si erano consumate nell'oblio di un'oscurità così fitta da non riuscire neanche a vedere me stessa, tra l'odore lurido dell'urina che mi bagnava le cosce e una follia talmente profonda da sembrare sana.
Dopo quel giorno, non le avevo più versate.
Non me lo ero più potuta permettere, perché lo avevo giurato, una scelta presa nell'unico momento di razionalità che una bambina di quell'età può avere. Lo avevo promesso a me stessa, e così era stato.
Avrei dovuto aspettare il momento.
Fino ad allora, la libertà del pianto non mi era concessa, e quella era una condanna che ero costretta a pagare ogni giorno, ad ogni secondo, ad ogni emozione. Una pena che mi ero auto imposta per sopravvivere e tirare avanti, e di cui ne sentivo la tortura in qualsiasi momento e respiro.
Solo io conoscevo il supplizio di quella realtà, quell'odiosa sensazione di avere una bestia proprio dentro lo stomaco che azzanna e graffia tutto quanto nel tentativo di uscire, e l'atrocità di doverla rinchiudere, di non poterla lasciare scappare.
La fatica di essere malata di un tumore diverso da quello di Jesse, un cancro che mi infettava l'anima, e di non potergli permettere di diffondersi troppo, di combatterci ogni giorno perché le sue metastasi non si prendessero tutto, non mi uccidessero una volta per sempre.
Il tarlo di non potersi lasciare andare, nemmeno per un secondo, la consapevolezza di non potermelo permettere anche se ci fossero state persone disposte ad accoglierlo. L'afflizione di essere una bomba creata solo per distruggersi, ma non poter esplodere.
Io solo lo sapevo, io solo lo conoscevo.
E nelle lacrime che lei stava versando, percepii tutta la mia invidia sradicarsi e troneggiarmi dentro. Le guardavo e mi sentivo corrodere da una ruggine di gelosia così violenta da arrivare al cuore e modificarne le pulsazioni.
Solo Dio sapeva quanto in quel momento avrei voluto fare a cambio con quella ragazza, chiederle il permesso di prendere il suo posto solo per qualche minuto, far diluviare dai miei occhi fino ad allagarmi dentro.
Avevo tante cose per cui piangere, io.
Tanti motivi che avevo collezionato nel corso di moltissimi anni, e che ora splendevano nei loro appositi scaffali, gli uni accanto agli altri, in ampolle che li sigillavano e aspettavano soltanto di esser distrutte.
Avrei voluto chiederle di prestarmi per un attimo la sua vita, permettermi di fingere che fosse la mia, solo per avere la scusa di disperarmi come lei.
Trovare il sollievo di un'intera vita passata a sorridere nelle stesse lacrime che ora le scheggiavano il viso.
Ma non era ancora il momento.
Non era ancora il momento.
E così masticai l'invidia con il sorriso che le regalai durante il suo sfogo, la rimandai giù per la gola e la sentii ricadermi nello stomaco con un tonfo. Tirai fuori, invece, dallo zaino preso dall'armadietto, un pacco di fazzoletti e glielo porsi. «Tieni» dissi serafica, «asciugati con questi.»
Lei singhiozzò ancora, si asciugò il volto con i dorsi delle mani, e così facendo il suo trucco, già sciolto di suo, si sparpagliò ancor più sulla faccia. Sfumature corvine gli pennellavano la carne degli zigomi e le palpebre inferiori. «S-Scusa» balbettò, mentre si strofinava il fazzoletto addosso. «Oggi sono particolarmente emotiva.»
«Hai vissuto quello che è l'incubo di ogni ragazza» notai, «è normale che ti senta così. Vuoi un po' d'acqua?»
Scosse la testa. Eravamo inginocchiate sulle piastrelle dello spogliatoio, e le nostre voci rimbombavano tra le pareti in modo quasi lirico. Anche così, però, anche in quelle condizioni, piangente e con il trucco sciolto addosso, lei era la creatura più bella che avessi mai visto. Riluceva di un bagliore tutto suo, di una magnificenza che sembrava incarnarsi nel suo stesso respiro, negli occhi chiari che brillavano sotto il riflesso del pianto.
Arrossii nel vederla, e mi schiarii la gola. «C'è qualcosa che non va?» domandò confusa.
«Scusa» mormorai, con un sorriso imbarazzato, «la verità è che sei così bella che mi sento divorata dall'invidia.»
Lei sbatté le palpebre per qualche secondo, sorpresa, e poi scoppiò in una risata fragorosa, cristallina, che scacciò via tutta la sofferenza che finora l'aveva afflitta. «Oddio» gracchiò tra uno sghignazzo e l'altro, «è la prima volta che... una ragazza ammette di essere invidiosa di me.»
«Immagino sia difficile confessarlo.»
«Se sei invidiosa...» Si asciugò le palpebre inferiori col fazzoletto. «Perché mi hai aiutata?»
La sua domanda mi lasciò confusa. «La colpa dell'invidia è sempre di chi la prova, non di chi la provoca» spiegai, «perché non dovrei aiutarti se è colpa mia se provo quel sentimento?»
Mi studiò per qualche minuto in silenzio, gli occhi attenti ad analizzare qualunque mio movimento, il sorriso onnipresente. «Tu» dichiarò alla fine con una risatina, «sei una strana ragazza.»
«Mi viene detto spesso.» Mi risollevai in piedi e le porsi la mano, lei la afferrò e si alzò a sua volta. «Adesso pensa a cambiarti.»
Le prestai il necessario e la accompagnai fino a una delle cabine del bagno perché potesse sistemarsi meglio. Aspettai davanti alla porta chiusa, con la schiena poggiata sulla parete di fronte.
D'improvviso sentii la sua voce oltre la cabina: «A proposito, non ci siamo ancora presentate. Io sono Eve Macks.»
«Callisto Murray.»
«Callisto?» ripeté confusa. «Non l'ho mai sentito.»
«È greco, lo scelse mio fratello a sei anni.»
«Come ha fatto a trovarne uno così strano?»
«C'era un cartone animato che si chiamava "Viva l'antichità!". Ogni episodio riadattava un vecchio mito. Il suo preferito era quello della ninfa Callisto.»
Da oltre la porta la sentii sghignazzare. «Ha dei gusti strani.»
«Puoi dirlo forte.»
Il pomello della porta si abbassò e l'uscio si aprì. Si era ripulita tutto il volto e indossava i miei pantaloni che, come sospettavo, le andavano corti sulle caviglie, alta com'era.
«Ti ringrazio» mi disse alla fine, con un sorriso appena accennato, gli occhi ancora lucidi a causa del pianto.
«Ero in debito con te» le ricordai. «E scusami ancora per... quello che è successo.»
Eve rise con forza. «La ragazza ombrello» disse, «così ti chiamavo nella testa, prima che sapessi il tuo nome.»
«È sempre meglio di Callisto.»
Ero contenta di vederla rasserenata. Guardare qualcuno di fronte a me che piangeva era una delle sfide peggiori che potessi mai affrontare, perché più che pensare a come consolarlo, mi ossessionavo sul desiderio di farlo a mia volta, e questo proprio non potevo permettermelo. Non ancora.
«Sei nuova, qui, vero? Non ti ho mai vista prima.»
Annuii.
Il suo volto si fece più serio. «Sono davvero contenta che mi hai aiutato, però... d'ora in poi ti conviene stare alla larga da me.»
Mi domandai se fosse quello il mio destino: avere a che fare solo con persone che mi ordinavano di non avvicinarle. Che avesse anche lei intrapreso la stessa strada di Ruben: quella di scacciare via chiunque avesse al proprio cospetto?
«Perché?» chiesi.
«Quello che hai sentito su di me, sul fatto che sono la puttana della scuola... è vero.»
Continuai a sorridere, e lei aggrottò la fronte.
«Non ti preoccupa?»
«Perché dovrebbe interessarmi la tua attività sessuale?»
«Sono la sgualdrina di questo posto.»
«Usi l'ombrello?»
Sgranò gli occhi. Una risata la scosse. «Sì, lo uso sempre.»
«Allora non c'è problema.»
«Diranno che anche tu sei come me, se mi stai attorno.»
«Okay?»
Non riuscivo a capire dove volesse arrivare con quel discorso.
Eve mi scrutò a sua volta perplessa. «Non vuoi farti degli amici qua dentro?»
Ci riflettei su. «Mi hanno ordinato di farmeli» ammisi alla fine, «però non mi è stato detto un quantitativo specifico, perciò anche se ne ho uno solo, ho comunque mantenuto la richiesta.»
Lei scoppiò di nuovo a ridere, le spalle tremanti. «Callisto, sei così buffa» mormorò.
«Grazie?» Non ero sicura se il suo fosse un complimento, ma decisi di considerarlo tale.
Eve sorrise, stavolta con sincerità, le guance scavate dalle labbra sollevate, gli occhi felici quanto la bocca. «Ti va di pranzare insieme, oggi?» domandò, con una semplicità che quasi mi lasciò senza parole.
La guardai per un istante, senza sapere che dire.
«Ti hanno invitato a pranzo?»
La mamma era in piedi dietro la penisola della cucina, stava affettando il pane. Lo sguardo severo di ogni giorno, gli occhi acerbi che nell'osservarmi non sarebbero mai fioriti in sentimenti di calore.
«S-Sì, mamma. È un'amica di scuola... Mi ha detto se domani... posso andare da lei a pranzo, così giochiamo insieme e-»
Non la vidi neanche arrivare, sentii solo il ruggito dello schiaffo che mi fece girare il mondo attorno, o forse fui io che girai attorno ad esso. La mia guancia dolorante, il bruciore angosciante nello zigomo, l'orrore di comprendere di aver sbagliato di nuovo, ancora una volta.
«Tuo fratello» latrò come un animale, «sta letteralmente morendo! Tuo fratello sta letteralmente marcendo! E tu, tu, insulsa, stupida, spocchiosa bambina pensi a fare la bella vita con i tuoi amichetti?»
L'altro schiaffo arrivò come una pugnalata sulla guancia rimasta illesa. Vidi la cucina ruotarmi addosso, infilarsi in me e iniziare a vorticarmi nello stomaco.
«Non osare mai più! Mai più, hai capito?»
Mi sfiorai le guance con le dita. Erano passati anni, ma ancora di tanto in tanto tornavo a sentire quell'orrendo ardore che le aveva divorate, l'agonia degli schiaffi che le avevano trafitte.
Sorrisi.
«Certo, mi farebbe tanto piacere.»
*
La luce del salone era ancora accesa.
Dall'uscio schiuso della mia camera, riuscivo a scorgere le ombre di mamma e papà, fuse tra di loro, che creavano un mostro informe, lungo e spigoloso sul parquet lucido.
Le loro voci che non riuscivano a trattenersi, le loro lacrime.
«Ha solo tredici anni» balbettava la mamma tra i singhiozzi. «Come puoi ammalarti di un male del genere a tredici anni?»
«Troveremo una soluzione, Jennifer, una cura.» Papà voleva apparire forte, ma anche per me che avevo appena spento sette candeline, era un'evidente finzione.
Non capivo cosa stava succedendo, però, non capivo.
C'erano tante cose che non capivo.
Credevo che il problema di Jesse fossero solo i lividi. Se ne faceva troppi. Ma lui giocava tanto, per questo se li procurava.
Uscii a passo felpato dalla stanza, attenta a non fare rumore. La camera di Jesse era proprio attaccata alla mia, raggiungerlo senza farmi vedere sarebbe stato facile.
«Perché è dovuto proprio venire a lui?» Il pianto della mamma si fece più forte.
C'ero quasi, avevo quasi raggiunto la maniglia della sua porta.
«Perché non poteva venire a Callisto una cosa del genere?»
Mi fermai proprio nell'esatto momento in cui la afferrai.
Cosa?
Cosa mi doveva venire?
Cosa c'era che non andava?
Perché doveva venire a me e non a Jesse?
Perché Jesse era speciale?
Perché io ero cattiva?
Non capivo, erano solo lividi, i lividi venivano anche a me, d'altronde. I lividi venivano a tutti.
Sentii i miei occhi bruciare, la presa sulla maniglia farsi più lenta.
Era questo?
Ero io?
Era per colpa mia, se Jesse si era fatto male?
«Troveremo un modo» continuava a dire papà. «Troveremo un modo, non lo lasceremo morire, te lo prometto, Jenny, lui non morirà.»
Jesse stava per morire?
Per questo aveva quella faccia, tornato dall'ospedale? Per questo mamma e papà piangevano?
Per questo dovevo morire io?
Non capivo. I lividi non uccidevano nessuno. Io pure me ne ero fatti un sacco. Forse si sbagliavano. Forse i medici non erano bravi.
Deglutii e abbassai la maniglia, l'uscio si aprì quel tanto che bastava per lasciarmi scivolare dentro la stanza.
La camera era allagata dall'oscurità. Non riuscivo a vedere nulla, persino la tapparella della finestra era abbassata così che nessuna luce filtrasse.
Io, però, la conoscevo a memoria, potevo attraversarla anche ad occhi chiusi. Ci avevo giocato un sacco di volte là dentro, con Jesse, alle macchinine. Era lì che lui mi aveva insegnato a leggere e a scrivere prima degli altri bambini.
Inspirai a fondo e misi avanti il piede destro, ma mi bloccai ancora, quando, dal fondo delle tenebre, udii quello che era indiscutibilmente un gemito di dolore.
Il primo di tanti singhiozzi.
Jesse... stava piangendo.
Non lo avevo mai sentito piangere, da che ero nata.
Il sorriso era la sua firma, la risata il suo suono preferito.
Eppure lacrime e lamenti rimbombavano in quel tugurio, come una marcia funebre, e nell'udirli percepii tutto il mio dolore accrescere e moltiplicarsi come formiche nel cuore.
«Jesse?» squittii alla fine, con voce fievole.
Il lamento terminò, una voce atona e soffocata lo sostituì: «Vattene via, Callisto.»
Ma lui... lui stava piangendo.
Se Jesse piangeva, aveva bisogno di qualcuno che lo ascoltasse.
Lui lo faceva sempre con me. C'era sempre stato. Anche quando mamma e papà erano cattivi con me. Anche quando si dimenticavano il mio compleanno. Anche quando volevo solo sparire.
Avanzai nel buio, con le mani protese in avanti alla ricerca di un oggetto a cui aggrapparmi. Trovai la fine della tastiera del letto, ne seguii i bordi con le dita fino a raggiungerne l'inizio, dove Jesse si trovava.
«Jesse?»
Lo sentii tirare su col naso. «Vattene via.»
Mi protesi alla ricerca del comodino al fianco del letto e, quando lo trovai, lo tastai fino a toccare l'abate-jour. La accesi in silenzio, un disco dorato di luce illuminò il materasso: Jesse era nascosto sotto il piumone celeste, che si era contorto fino a sembrare un brufolo gigante.
Con la coda dell'occhio, mi accorsi che la camera era completamente devastata. Libri, quadri a terra, il computer rotto sul pavimento, i poster strappati, le piume d'oca del cuscino a ricoprire tutto il pavimento. Solo i disegni che gli avevo fatto erano rimasti intatti alle pareti.
«Vattene via, Callisto» ripeté ancora, ma stavolta la sua voce si era fatta nasale e, nel sentirla, io mi sentii persa.
Non mi piaceva quando Jesse piangeva.
Era brutto, perché poi veniva da piangere anche a me, anche se non sapevo perché.
Così lo toccai attraverso il piumone. «Jesse, Jesse» lo chiamai, «devo farti vedere una cosa.»
«Domani, Callisto.»
«È importante, molto importante.»
Il viluppo del piumone si sciolse un po', dal suo orlo scorsi il luccichio di un paio di occhi verdi fissi su di me.
Mi schiarii la gola e feci qualche passo indietro.
Ero pronta, potevo farcela.
Feci un profondo respiro con la bocca e, dopo un attimo di panico, iniziai a cantare:
"Crystal, Crystal, Crystal Ballerina,
tu sì che sai cos'è un ballo,
perché il sorriso è la tua danza,
e allora salta, ruota,
Crystal, che bella!"
Ballai a ritmo della canzone, eseguendo la coreografia che si vedeva sempre nella sigla. Ma ero impacciata, io, goffa, e i movimenti mi venivano tremendamente meccanici e malconci. Mi vergognavo da morire, avrei voluto solo scomparire e scappare nella mia stanza.
Ma quello era l'unico modo che conoscevo per far sorridere qualcuno.
Continuai nel mio piccolo spettacolo, tra saltelli e piroette, e il piumone iniziò a cadere sempre di più, rivelando il corpo snello di Jesse, il suo pigiama bianco, il volto stupito mentre mi osservava.
"Tu lo sai che il vero potere
è far sbocciare il sorriso
da una lacrima."
E così sorrisi, sorrisi con tutte le mie forze, sorrisi come non avevo mai fatto, spiegando i denti e arrotolando le guance. Sorrisi e lo guardai nella mia ultima danza, battendo i piedi nudi per terra.
Quando finii, avevo l'affanno e il sudore mi colava su tutto il viso.
Per un attimo ebbi paura.
Un terrore dilagante che potessi aver sbagliato di nuovo.
Che anche lui, in realtà, la pensasse come i nostri genitori, che sarebbero dovuti venire a me i lividi che tanto gli facevano male.
Ma tutto quello che ricevetti, invece, fu una risata profonda.
Sussultai sorpresa, e quasi non piansi nel vedere il suo volto felice, l'ilarità che lo attraversava.
Jesse mi afferrò una mano e mi trascinò verso di sé, le braccia mi accolsero e mi strinsero con forza, le mani mi posarono il capo contro il suo petto ancora scosso dalle risa.
«Che ballo tremendo!» commentò, e affondò il viso sull'angolo che collegava il mio collo alla spalla. «Era davvero terribile! Mai visto qualcuno così scoordinato!»
«N-Non è vero!» mi difesi con vergogna. «Mi sono esercitata a lungo, sai? Tanto!»
«Lo so, lo so.» Il suo abbraccio si fece più forte e io quasi mi sentii soffocare, ma in un modo che non mi appariva spaventoso, al contrario mi sembrava confortante. «Però, davvero, è stato tremendo.»
Ero sul punto di obiettare di nuovo, quando sentii il pigiama che indossavo bagnarsi sul punto in cui si trovava la sua faccia. Persino per la mia età così infantile, non ci volle molto per comprendere che gli spasmi che lo stavano scuotendo, ora, non erano dovuti alle risate.
Lo strinsi a mia volta, aggrappandomi alla sua schiena con le mani piccine, sentendo il tremolio delle sue ossa sotto i palmi.
«Callisto» mi chiamò lui, «ti prometto che, finché sarò in vita, anche io ti farò sorridere ogni giorno.»
C'erano tante cose che avrei voluto chiedergli, tante spiegazioni che desideravo mi facesse.
Stava per morire davvero?
Mi avrebbe lasciata sola per sempre?
Perché non potevo prenderli io, i suoi lividi?
Ma tutto ciò che feci, invece, fu annuire contro il suo petto.
«Okay» risposi con voce stridula.
E in quell'abbraccio mi sentii perfetta.
*
Quella notte mi svegliai alle tre, dopo solo due ore di sonno.
La testa mi pulsava come se qualcuno ne stesse strizzando le cervella con violenza e tutto il mio corpo mi sembrava disassemblato, perché faticavo a coordinarne i movimenti.
Mi misi a sedere sul materasso e mi massaggiai le tempie con le dita, cercando di scacciare in qualche modo il dolore estremo che provavo, ma tutto risultò vano.
Lo sguardo mi cadde sui miei bracciali, il loro riverbero argentato contro i raggi lunari, e nel loro splendore percepii di nuovo la nausea della prigione, l'olezzo del cibo avariato, catene così dure da insanguinare la gabbia a cui ero rilegata.
Scesi dal letto in fretta, aprii la finestra e mi misi a sedere sul davanzale, alla ricerca di aria pulita, nuova, che potesse purificare quelle sensazioni estreme.
Ciò che ottenni, tuttavia, fu l'olezzo di sigaretta, un profondo effluvio di nicotina che arrivò alle narici e inabissò i polmoni.
Feci cadere lo sguardo contro la parete esterna da cui sbucava la mia finestra, e non mi sentii affatto sorpresa nel trovare, a pochi metri di distanza da me, colui che mio fratello denominava Mr Bad Boy, intento a fumare con la schiena contro il muro.
Doveva essere appena ritornato dalla sua scappatina serale, ma stavolta non aveva addosso segni evidenti di una rissa. Indossava una maglia a collo alto decisamente fuori stagione per quell'estate, nera quanto il cielo di quella notte, e un paio di pantaloni altrettanto scuri che sembravano ingoiarlo nell'oscurità della sera. L'unica luce che donava proveniva dalla punta della sua sigaretta: un pallino scarlatto che si accendeva ai suoi inspiri.
Si accorse subito di me, senza che neanche facessi niente, riuscii a distinguere i suoi occhi muoversi verso la mia presenza per poi tornare a guardare il prato vuoto del cortile. D'altro canto, io decisi di non dire niente. Era stato chiaro, non voleva che gli parlassi, e stavolta io non avevo motivo per farlo, perciò rimasi in silenzio.
Mi domandai perché fumasse proprio ora, perché non l'avesse fatto prima di scalare il muretto ed entrare nell'area dei dormitori. I rischi erano sicuramente minori. Forse non voleva il fiatone prima di arrampicarsi?
«Tu sei» lo sentii pronunciare all'improvviso, lasciandomi basita, «più stupida di quel che appari.»
Giocai con l'orlo di pizzo della mia camicia da notte bianca e gli sorrisi malevola. «È la prima volta che inizi tu la conversazione, dovrei esserne felice?»
Lui fece un verso di disprezzo e steccò la cenere per terra. «Cosa vuoi fare: la crocerossina degli emarginati?» domandò con astio. «Vuoi aiutarci così da sentirti meglio con te stessa e il tuo ego ferito?»
«Aiutarvi?» ripetei. «Io ho sempre un secondo fine quando do una mano a qualcun altro, non credo che valga come aiuto.»
«Davvero? E cosa avresti ricavato dando una mano a quella che viene considerata la puttana della scuola?»
Ridacchiai felice e sollevai il dito indice. «Una.»
Ruben aggrottò le sopracciglia. «Una?»
«Un'amica.» Mi sporsi dal davanzale per guardarlo meglio. «Ci credi che abbiamo pranzato insieme? Ero certa di essere destinata a passare ogni pasto da sola, e invece no, è successo veramente!»
Fece un altro tiro dalla sigaretta, una nuvola di fumo fuggì dalle sue labbra schiuse. «Non ricordo» enunciò con voce severa, «di averti chiesto di parlarmi della tua vita sociale.»
«Era solo per spiegarmi meglio» mi difesi. «E per quanto riguarda la sindrome da crocerossina... Forse ce l'ho davvero.» Mi sfuggì un ghigno. «Non mi piace il dolore in nessuna forma, per questo cerco di curarlo subito, appena lo vedo. È una mia ossessione» confessai alla fine.
«Sbagli.»
«Hai ragione» confermai annuendo, e strinsi tra le dita il tessuto della camicia, accartocciandolo nei palmi. «Ma anche se so di sbagliare, finisco sempre per continuare a farlo. È un istinto puro.»
Ruben non rispose, l'unico suono che udii fu il soffio con cui lasciò scivolar fuori dalla gola una treccia di fumo.
«È una dipendenza simile a quella che si ha dalle sigarette» spiegai dopo qualche secondo, e indicai la sua, pendente dalle labbra, «ti entra dentro senza volerlo e dopo un po' ti rendi conto di non poterne fare più a meno, anche se sai benissimo quanto ti danneggia, quanto ti consuma.»
Con amarezza, tornai a guardare il cielo, la mezzaluna che spuntava nell'oscurità come una virgola bianca, le stelle che la decoravano, lapislazzuli incastonati nella melma dell'inchiostro.
«È assurdo, se ci rifletti, ma ogni pacchetto di sigarette ha la scritta che ti avvisa quanto fumare possa esserti fatale. Ci sono letteralmente le immagini che mostrano le conseguenze che il fumo può causare. Eppure tu e tante altre persone continuate a farlo, nonostante tutto.» Ruben assottigliò lo sguardo. «E non funziona così anche per molti degli errori che commettiamo? Sappiamo benissimo cosa comportano, il dolore che ci provocano, ma imperterriti li ripetiamo ancora e ancora. Non riusciamo a farne altrimenti. Anche se ci causeranno male, anche se ci potrebbero ferire, noi non siamo capaci di evitarli, al contrario li commettiamo di nuovo, senza stancarci mai, consapevoli di star sbagliando e di non voler fare altrimenti.» Mi strinsi nelle spalle. «Immagino di essere così anche io. Sono queste le mie sigarette.»
Non sapevo con quale coraggio mi ero ritrovata a fargli quel discorso, in un momento in cui non era neanche necessario, ma mi sembrò, per la prima volta, di essermi spiegata quel tanto che bastava perché lui finalmente capisse. Il perché della mia ossessione con i suoi lividi, della pomata, della mia volontà di dargli una mano.
La realtà dei fatti, però, era molto più profonda di così, molto più contorta. Aveva radici soffocanti e una claustrofobia asfissiante.
Perché io non funzionavo in modo normale, ormai, c'era qualcosa che più non andava dentro di me.
Un meccanismo che si era rotto e non poteva più tornare a incastrarsi con tutti gli altri, e così l'intera anima finiva per essere menomata, invalida di paura.
Ruben mi osservò a lungo, per così tanti minuti che mi sembrarono ore. Il suo sguardo mi bruciò funesto, ma intinto stavolta in una curiosità che non riusciva a camuffare neanche con la sua solita ira. Mi spinsi in avanti con il sedere fino a quando le gambe non presero a ciondolare dal bordo del davanzale, e ricambiai il suo sguardo con il sorriso. Lo lasciai indagare per tutto il tempo che gli occorse: sui piedi nudi, la gonna della camicia, il petto, la curva del collo e quella delle labbra, il naso, gli occhi aperti nei suoi.
Speravo davvero che in qualche modo comprendesse la verità, la mia natura inoffensiva, e forse fu davvero così, ma durò un istante talmente sottile da attraversarmi come se fossi nebbia.
Spense la sigaretta ormai finita contro la suola della sua scarpa e dalla tasca tirò fuori uno di quei posaceneri portatili che vedevo sempre nei film. Non disse nulla, non aggiunse altro. Buttò il mozzicone là dentro, si voltò, si aggrappò al davanzale della sua finestra, e poi sparì.
Non ebbi occasione di dirgli che non avevo mai capito in che modo imparare a smettere di fumare.
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