Sciarpa

Emma Marlow mi guardava tra lo stupore e la perplessità.

Era una donna minuta, ma dal viso scalfito da una maturità che era rara da vedere anche in molti adulti, le sopracciglia sottili sollevate, le labbra a cuore schiuse in un'espressione incredula.

«Sì» rispose, «sono Emma Marlow. Anche se da quando mi sono sposata ho preso il cognome di mio marito, Smith.» Inclinò il capo. «Ci conosciamo?»

Faticavo ancora a respirare, dovetti appoggiarmi con la mano al muro del pub per cercare di riprendere fiato.

«Cara, tutto ok?» mi domandò lei a quel punto, e l'uomo alle sue spalle con la bambina in braccio le si avvicinò, confuso quanto lei nel vedermi. «Non hai una bella cera, ti senti bene?»

Ero una sconosciuta, una totale sconosciuta che l'aveva approcciata dal nulla gridando il suo nome, e comunque si stava preoccupando per me e per il mio stato di salute. Il sollievo mi travolse.

«Sì, io...» deglutii. «Non ci conosciamo, in realtà» mi costrinsi a parlare. «Mi scusi, non volevo spaventarla. Il fatto è che...» Chiusi gli occhi, li strizzai con forza. «Ecco, io sono Callisto Murray, sono-»

«Murray? Callisto Murray?» mi interruppe lei tutto d'un tratto. Una luce di stupore le annegò gli occhi. Abbandonò la mano ancora stretta alle chiavi infilate nella serratura della porta e avanzò un passo verso di me, la voce più acuta: «Sei la sorella di Jesse? Jesse Murray?»

Rimasi a bocca aperta. Non avevo preso in considerazione la possibilità che si ricordasse di mio fratello. In fondo, erano passati così tanti anni dall'ultima volta che si erano visti, e da quanto mi aveva detto Jesse non avevano alcun tipo di rapporto, non l'avrei biasimata se l'avesse completamente rimosso dalla sua memoria.

D'improvviso, tutti i discorsi che mi ero preparata in testa per convincerla a farmi quel favore, nonostante fosse per un totale sconosciuto, presero fuoco. Diventarono inutili quanto carta straccia e più non seppi cosa dire, come comportarmi.

«Oddio» bisbigliò Emma, la mano sulla bocca. «Non ci posso credere... Cosa ci fai qui? E Jesse... Jesse è...» Non osò finire la frase.

Scossi la testa. «È ancora vivo» risposi. «Ma... manca poco. Molto poco. Per questo... Per questo sono qui.»

Mi risollevai in piedi, staccando la mano dal muro, cercai di assumere una posa dignitosa, uno sguardo deciso, un sorriso maturo, da donna, ma mi sentii sfiorire nel guardare i suoi occhi, la maturità che li dipingeva.

L'uomo dietro di lei le posò una mano sulla spalla, Emma lo guardò per qualche secondo, parvero comunicare senza dire una sola parola. Lui le sorrise, non aggiunse altro, e fece ricadere la mano per tornare a stringere la bambina tra le sue braccia. Una piccola, meravigliosa creatura dai capelli corvini come Emma e gli occhi azzurri del padre che la reggeva, che ci guardava senza dire una sola parola, succhiandosi il pollice.

È la sua famiglia, realizzai. Quelli erano suo marito e sua figlia. La sua nuova vita, e io stavo per...

No, non dovevo pensare così.

Era per Jesse, per mio fratello, per il mio unico cuore.

Inspirai con forza, gonfiando il petto. «Mrs Smith...»

«Chiamami pure Emma, cara.»

Aveva una voce delicata, una piuma che le carezzava la gola e le usciva volteggiando dalle labbra. Per qualche secondo, mi persi ad ascoltarla.

«Emma» ripresi, appigliandomi a tutto il mio coraggio. «Mi rendo conto che siamo totali sconosciute e che non ha senso quello che sto per chiederti, ma vedi... Io vorrei fare un regalo a Jesse, o meglio, una sorpresa, prima che sia troppo tardi.»

Lei mi scrutò confusa, senza comprendere.

Strinsi i pugni.

«E lo so che è crudele da parte mia arrivare così all'improvviso e pretendere tanto da te che neanche mi conosci, ma per favore...» Mi tremava il cuore, lo sentivo far vibrare le costole fino a farmi credere si stessero spezzando. «Potresti venire con me e andare a trovare Jesse, solo una volta?»

Mi guardò sgomenta. Me lo aspettavo. Nei film, certe situazioni si risolvevano facilmente, ma sapevo bene che la realtà era molto diversa dal cinema.

«Il regalo-la sorpresa per Jesse... sarei io?» domandò, sempre più smarrita.

Deglutii a fatica, annuii.

Emma aggrottò la fronte. «Ma io e lui... non eravamo neanche amici, alle medie. Ci parlavamo a stento.»

«Lo so, ma mio fratello-» Mi bloccai di nuovo. «Se incontrerai Jesse, capirai perché.»

Si scambiò un'altra occhiata col marito, confuso quanto lei, per poi tornare a guardarmi.

«Da dove vieni, Callisto?»

«Littburg.»

Spalancò la bocca. «Ti sei fatta tutto questo viaggio solo per incontrarmi?»

«Io-» Mi morsi il labbro. Non sapevo davvero da dove iniziare. «Io, per Jesse, andrei anche in capo al mondo.»

Mi osservò, mi studiò da cima a fondo. Sembrava cercare degli indizi nel mio corpo, nei miei occhi, nelle labbra che mi tremavano.

Guardai di nuovo alle sue spalle, sua figlia aveva iniziato a giocare con la punta del naso del padre, e lui le fece delle smorfie assurde, gonfiando le guance, incrociando gli occhi e uscendo la lingua. La bimba scoppiò a ridere. Sentii di nuovo un profondo senso di colpa invadermi il cuore. Quella donna adesso aveva una vita tutta sua, era felice, e-

No.

Era per Jesse, per Jesse.

Mi sentii le gambe tremare, mentre lì, sul marciapiede, mi inginocchiavo. Emma lanciò un grido di sorpresa, e io mi piegai in avanti, lasciando che la fronte si posasse sul duro strato di cemento.

«Ti prego» ripetei. «So che sto chiedendo tanto, so che siamo solo due sconosciute, so che per te non ha senso, ma per Jesse, per me, significherebbe tantissimo. Pagherò io tutte le spese, farò tutto quello che vuoi, ma per favore, ti supplico, incontra mio fratello solo questa volta.» Deglutii ancora. «Se vuoi dei soldi, te li darò. Farò il possibile, ma ti scongiuro-»

«Callisto, oh tesoro, sollevati, per favore» mi pregò lei, ma io mi rifiutai, rimasi ferma, prona.

«Jesse... Voglio fare qualcosa per Jesse» gracchiai, e fui felice che il mio viso fosse sull'asfalto, perché così nessuno avrebbe potuto vedere il dolore che lo trafiggeva. «Voglio renderlo felice un'ultima volta, e so che se ti incontrasse ci riuscirei.»

«Tesoro.» La sua mano sulla mia spalla mi costrinse a sollevare lo sguardo. Addosso aveva un sorriso genuino, delicato. Mi ritrovai a pensare che fosse quello il sorriso di una vera mamma. «Non ti umiliare così, non te lo meriti, non stai facendo nulla di male. So quanto tu e tuo fratello vi amate, non c'è bisogno che ti distruggi così.» Mi carezzò il capo, delicatamente. «Perché non ne parliamo meglio dentro il pub? Così mi spieghi cosa sta succedendo.»

La vergogna mi assalì nel realizzare con quanta maturità stava gestendo quella situazione che in tanti non avrebbero saputo comprendere. Non c'era giudizio nei suoi occhi, solo una sincera e gentile preoccupazione per me. Era un'adulta, un'adulta come mai ne avevo incontrate prima d'ora, e mi sembrò assurdo: aveva solo ventitré anni, eppure mi sembrò così grande e saggia, così mamma. Anche se tutti i passanti per la strada si voltavano per guardare quella scena, non se ne preoccupava affatto, sembrava non vederli neanche.

Mi aiutò a rimettermi in piedi, aveva un tocco delicato quanto la sua voce. Mi ripulì i pantaloni dalla polvere dell'asfalto che li aveva sporcati sulle ginocchia, battendoci le mani sopra.

«Mai nella vita avrei creduto di poter incontrare la sorella di Jesse Murray in persona» disse ridacchiando. Si voltò verso il marito. «Tesoro, puoi coprirmi tu per l'apertura?»

L'uomo sembrò persino più adulto di lei, perché senza chiedere nulla si limitò ad annuirle e a darle un bacio sulla fronte. «Mi spieghi tutto dopo.»

Emma gli sorrise, pizzicò la guancia della figlia, prima di tornare a parlarmi. «Sei qui da sola, Callisto?»

«Ah, no» mormorai, e voltai lo sguardo dall'altra parte della strada. Ruben aveva la schiena posata sulla parete di un edificio, le braccia incrociate al petto, guardava in silenzio la scena.

«Ah, sei venuta col tuo ragazzo?» domandò lei, seguendo i miei occhi.

Mi umettai le labbra. «Ecco, non è proprio il mio ragazzo...» mi ritrovai a dire. Non avevo preso in considerazione l'eventualità di dover definire la mia relazione con Ruben – di cui poco o niente ancora ci capivo – proprio a lei. «Lui è... è...» Ero più in difficoltà di prima.

Emma inarcò un sopracciglio. Poi, dopo qualche secondo, scoppiò a ridere. «Ho capito» disse con tono canzonatorio, «allora perché non dici al tuo... accompagnatore di entrare con noi al pub? Sarebbe ingiusto farlo aspettare fuori al freddo.»

Ad ogni parola che pronunciava mi sembrava di sorseggiare cioccolata calda in una fredda giornata d'inverno. Annuii, quasi imbarazzata, e con la mano feci cenno a Ruben di raggiungerci.

Lui inclinò di poco la testa, sciolse le braccia e si mosse verso di noi a passo lento. Quando mi fu accanto, Emma sorrise a entrambi.

«Hai buon gusto, Callisto» fu il suo commento. «Allora, entriamo?»

*

Il pub Make a Dream era molto spazioso, e il suo design si ispirava palesemente a quelli dei film western per cui da bambino Jesse andava pazzo. Ogni cosa era in legno: il pavimento, i tavoli, le sedie, il grosso e lungo bancone che si affacciava alla porta d'ingresso, le pareti sature di poster dei primi film di Clint Eastwood e Per un dollaro d'onore.

Il locale era illuminato da lampadari vintage, la cui luce era così tenue da donare un senso di sonnolenza e rilassatezza all'aria che si respirava.

Emma entrò con passo deciso insieme al marito e alla figlia, il tacco dei suoi stivaletti echeggiò contro il parquet come zoccoli. Si tolse il cappotto e il cappello e li appese all'appendiabiti accanto alla porta d'ingresso. Con un cenno del capo, invitò me e Ruben a fare altrettanto.

«Il pub dovrebbe aprire tra un'ora» mi spiegò. «Ma io mi preoccupo ogni volta di non fare in tempo a preparare tutto, quindi arrivo sempre troppo in anticipo. È una mia mania.»

Il marito rise con forza, mentre prendeva uno dei seggioloni alti per bambini posati sulla parete e vi faceva sedere la figlia, trasportandola davanti al bancone. «Una mania che ci ha salvato il culo un sacco di volte, però» fu il suo commento.

«Nick, niente parolacce davanti a Lizzie» lo rimproverò subito lei.

«"Culo" non è una parolaccia.» replicò determinato lui. «Solo un'espressione anatomicamente forte.»

Emma gli lanciò uno sguardo di rimprovero, ma il marito non ci badò affatto, preso a giocherellare con i capelli della figlia e a usarne le lunghe ciocche per fingere di avere dei baffi giganti sopra il labbro superiore. La piccola, nel vederli, scoppiò a ridere.

Lei schioccò la lingua, lo guardò torva per qualche secondo, per poi tornare a rivolgersi a me e a Ruben, che avevamo appena finito di posare le nostre giacche. «Venite» ci spronò. «Immagino di non potervi offrire un drink. Siete ancora minorenni, giusto?»

Annuii in silenzio mentre, titubante, mi facevo avanti in quel locale così bizzarro. Era caldo, confortante... Era la prima volta che ci mettevo piede dentro, e anche se ancora vuoto, riuscivo già a immaginare lo sfarzo e la festosità che doveva caratterizzarlo nelle serate più proficue coi clienti.

La bambina, Lizzie, ancora sul suo seggiolone, tamburellava le mani minuscole sul bancone e osservava il padre che si trovava dietro. «Cosa posso offrirle, gentile cliente?» lo sentii chiederle. «Roba forte, vero? Doppio latte, scommetto, corretto con un bel po' di cacao e miele. Ah, lei sì che se ne intende di drink, donzella. Sono in pochi quelli capaci di reggersi ancora in piedi dopo una simile miscela.»

Emma, a pochi metri da me, scoppiò a ridere.

Mi domandai se fosse così che dei genitori dovevano essere. Se quella... quella era una vera famiglia. Si muovevano con naturalezza, comunicavano senza parlare, e nei loro occhi si poteva leggere l'affetto che provavano l'uno per l'altra, quella luce di fuoco che li accalorava.

Non avevo mai visto una cosa simile.

«Non potranno bere alcool» disse a quel punto Nick, mentre Lizzie sorseggiava il bicchiere di latte che le aveva preparato, facendolo colare tutto sul suo mento. «Ma grazie a Dio l'uomo ha inventato anche i drink analcolici.»

«Tu odi gli analcolici» gli fece notare Emma.

«Per me, non per gli altri.» Le strizzò l'occhio, per poi guardare me e Ruben. «Dolce? Amaro? Acido?»

«Ah...» Non mi sembrava il caso di riferirgli che non avevo mai bevuto un cocktail, anche solo analcolico, in tutta la mia vita. Guardai Ruben, i suoi occhi fissi nei miei. «Amaro va bene.»

«Dolce, per lei» mi corresse Ruben. L'angolo delle labbra di Nick guizzò in alto, divertito.

Mi accorsi in quell'istante che Lizzie si era voltata con la testa verso di noi. Non riuscii a trattenere una risatina quando scorsi l'espressione con cui guardava Ruben. Glielo si leggeva in faccia: si era appena innamorata. Gli occhioni grandi e azzurri erano sgranati, il faccino pallido si era fatto tutto rosso, come una fragola, e un sorriso gigantesco le curvava le piccole labbra.

Non potevo certo biasimarla. Anzi, provavo un senso di grande solidarietà nei confronti di quella piccola bambina.

Anche Emma se ne accorse, le bastò guardare il visetto imbambolato della figlia per un istante per capire tutto. Scoppiò a ridere ancora. «Sono contenta che tu sia venuta qui, Callisto Murray» mi disse, «solo perché mi hai permesso di poter vedere Lizzie così felice.»

«Adesso sono geloso» mormorò Nick, ma sorrideva a sua volta, mentre prendeva delle bottiglie dagli scaffali in cui si trovavano, sulla parete dietro il bancone. «Sedetevi pure, i drink arriveranno tra poco.»

Ruben mi guardò in silenzio per qualche istante. Con un cenno del capo, mi indicò Emma. Deglutii, per poi annuirgli. Mi colpì la fronte con le dita, un tocco leggero, prima di lasciarmi da sola e andarsi a sedere a sua volta al bancone. Forse per far contenta Emma, si mise sullo sgabello accanto al seggiolone della figlia, il cui sorriso divenne una vera e propria cometa.

Non mi era mai capitato di pensare a come si sarebbe comportato davanti a un bambino. Non era di certo un tipo giocoso, anzi; con quel suo atteggiamento sempre scontroso e aggressivo, avevo difficoltà a immaginarmelo andare d'accordo con creature così piccole.

Invece, con mia grande sorpresa, sembrò totalmente a suo agio là, al fianco di quella piccoletta che lo fissava come se fosse un principe azzurro dall'armatura scintillante. Non le sorrideva, ma il suo volto non era corrucciato e non trasmetteva alcun astio. Si lasciò persino toccare da lei, che gli prese la mano e la posò contro la sua, solo per meravigliarsi di quanto fosse gigante il suo palmo.

Emma sghignazzò ancora. «Lizzie è in paradiso» commentò, per poi tornare a guardarmi. «Vogliamo andarci a sedere a un tavolino? Così mi racconti tutto.»

Non sapendo cosa dire, mi limitai ad annuire. Era la prima volta che mi trovavo così senza parole.

La seguii a uno dei tavolini in legno, quadrati, vicino alle vetrate che si affacciavano sulla strada. Ci sedemmo in silenzio. Sorridevamo entrambe, ma mentre io apparivo ancora immatura, Emma sembrava una donna fatta e finita.

Mi ritrovai a pensare che era così che doveva essere una vera madre.

Aveva... aveva degli occhi gentili. Forse persino più di quelli di Jesse. Nel sentirmeli addosso, percepivo la bambina che ero stata un tempo desiderare con tutte le forze di prendere il posto di sua figlia, solo per scoprire, anche solo per un secondo, cosa si provava ad essere amata dalla propria mamma.

«Il locale è bellissimo» mi ritrovai a dire.

«Ti ringrazio» mormorò. «Era di mio suocero. Io e mio marito ne siamo diventati titolari dopo la sua morte e lo abbiamo un po' ristrutturato. Nick, sai, è un amante dei film western. O, per meglio dire, un ossessionato.»

«L'amore per il western è come il cibo per il pranzo di Natale» sentii dire da Nick alle nostre spalle. «È sempre troppo poco.»

Emma ridacchiò. «Allora» disse poi, tamburellando le dita sul tavolino, «Jesse vuole vedermi?»

Raddrizzai la schiena, esibii il mio sorriso più educato. «Non... esattamente» mormorai. «La verità, ecco, è che un po' di tempo fa mi ha parlato di te.» Il suo sopracciglio destro si inarcò. «E ho pensato che, se ti avesse rivista, ne sarebbe stato molto felice. Per questo sono venuta a cercarti.»

Aprì la bocca per parlare, ma fu interrotta dall'arrivo del marito. Lui posò davanti ai nostri occhi due drink. «Una Virgin Piňa Colada per te» disse, facendomi l'occhiolino, «e per la mia dolce metà un Jack Daniel's, il suo preferito.»

«Devo lavorare dopo, Nick» gli fece presente lei.

«Appunto, sarai ancora più efficiente» le rispose il marito senza esitazione, con tono gongolante.

Lei sospirò, mentre lui se ne tornava al bancone.

Osservai il mio drink, il calice, il liquido color crema che schiumava sull'orlo quasi fosse panna, la ciliegina rosa che navigava sui bordi, come un nuotatore a bordo piscina che si rilassava a prendere il sole.

Presi con estrema cautela il bicchiere tra le mani, il vetro freddo mi pizzicò i polpastrelli, ed esitante diedi il primo sorso dalla cannuccia. Il sapore dolce mi esplose in bocca, lasciandomi stupita.

Emma sorrise. «Nick è un ottimo bartender» commentò. «Ma non dirglielo, o il suo ego rischierà di esplodere.»

«È già esploso, amore, ma si ricostruisce subito, non ti preoccupare. È uno dei miei mille talenti.»

Risi con la cannuccia ancora in bocca. Emma tamburellò l'indice sul tavolino, mi scrutò per qualche secondo. «Jesse ti ha parlato di me?»

Annuii a stento.

Lei afferrò il suo bicchiere, diede un sorso veloce, fulmineo. «È... difficile da credere» rispose. «Io e Jesse non avevamo alcun tipo di rapporto. Eravamo solo compagni di classe alle medie. Mi sconvolge già la sola idea che si ricordi ancora della mia esistenza.»

Affogai l'ansia nel cocktail, prima di riprendere a parlare: «Ti ho riconosciuta subito dal neo sotto l'occhio sinistro.» Indicai il punto in cui si trovava sul mio viso. Emma sgranò gli occhi. «È stato Jesse a dirmi che c'era.»

Lei non parlò per qualche minuto. Fissò il liquido ambrato del suo Jack Daniel's, per poi portarselo alle labbra. Quando lo riposò sul tavolo, ne era rimasto a stento un goccio. «Mi ricordo molto bene di Jesse» disse poi, a occhi chiusi, «era l'idolo della scuola, tutti impazzivano per lui, specialmente le ragazze.» Le sfuggì una risatina. «E io ero tra quelle. È stato il mio primo amore.»

Rimasi sorpresa. Non era quello che mi aveva detto Jesse.

Emma proseguì, travolta dai ricordi: «Ma, a differenza delle altre ragazze, lui non mi piaceva per il suo aspetto. Certo, anche quello ha contribuito molto. Alla fine, era davvero un bel ragazzo. Con quei riccioli biondi, gli occhi verdi come una foresta in un oceano, e il sorriso sempre addosso. Aveva anche un carattere fantastico: era consapevole della sua avvenenza e sì, se ne vantava sempre scherzandoci su, ma continuava ad essere umile e a trattare tutti, studenti e insegnanti, con rispetto, non si riteneva mai superiore agli altri. Una cosa rara, se ci pensi, specie per un tredicenne.» Iniziò a ricalcare il bordo del suo bicchiere con l'indice, lo sguardo perso oltre le vetrate. «Ma no, non era solo per quello che mi piaceva. Io lo adoravo perché parlava sempre di te

Non potei nascondere la mia espressione di puro stupore. Nel vederla, Emma sghignazzò.

«Ogni giorno entrava in classe e annunciava con orgoglio i tuoi ultimi traguardi. Potevano essere anche i più stupidi, come aver calciato un pallone, preso una sufficienza in matematica o disegnato un cerchio, ma da come ne parlava lui, sembrava che avessi appena posto fine a tutte le guerre del mondo.» Socchiuse gli occhi, ammaliata dalla nostalgia. «Alcuni ragazzi, i più invidiosi, tentavano costantemente di umiliarlo e prenderlo in giro per questo, ma Jesse non ci badava affatto, anzi. Più provavano a sminuirlo per il suo amore per sua sorella, più lo invogliavano a condividerlo con gli altri.»

Mi sentii sciogliere dentro, non seppi se con dolore o sollievo.

«Andava in giro a mostrare le tue foto continuando a dire: "Guarda, non è la più carina? La sorella più bella del mondo?"» Le sfuggì una risatina, mentre io arrossivo fino alla radice dei capelli. «A quell'età, i ragazzi sono soliti vergognarsi dei loro sentimenti, dell'affetto che provano verso gli altri, specie i propri familiari. Pensano che confessare di amare sia motivo di grande umiliazione, perciò tendono a negare, negare costantemente. Io ero così.» Abbozzò un mezzo sorriso, amareggiata. «Mi vergognavo talmente tanto di me stessa da non riuscire neanche a parlare dei miei genitori. Loro, sai, mi hanno avuta tardi, rispetto ai genitori degli altri ragazzi erano molto più vecchi. La gente li scambiava sempre per i miei nonni e questo mi imbarazzava come non mai. Facevo di tutto perché i miei compagni non li vedessero o sapessero la loro età. E per questo motivo li trattavo anche molto male. Litigavo costantemente con loro. E poi, una volta finita la discussione, mi odiavo così tanto che avrei solamente voluto morire.»

Inspirò a fondo.

«Jesse, però, era diverso. Era così orgoglioso dell'affetto che provava per te, così fiero di sua sorella, che quando lo guardavo non potevo fare a meno che ammirarlo. Sognavo di diventare coraggiosa e sincera come lui, di essere così forte da non preoccuparmi affatto dell'opinione altrui. Ma fallivo ogni volta. Non riuscivo a fare altro che restarmene zitta e allontanarmi dal resto del mondo. Mi detestavo davvero, non ricordo un solo giorno di quel periodo in cui non abbia desiderato scomparire.»

Molte cose, adesso, mi apparivano chiare.

Emma sospirò. «Non parlavo con lui. Era un estroverso, uno di quelli che quando vedeva una persona isolarsi, tentava di adottarla e renderla sua amica. Ci provò anche con me, in un paio di occasioni, ma fallì.» Iniziò a giocare col bicchiere, sollevandolo di qualche centimetro dal tavolo per poi riposarlo di nuovo sul ripiano, ancora e ancora. «Un giorno, durante la pausa pranzo, mi trovò nell'aula vuota in cui mi nascondevo per mangiare. Vide che stavo leggendo un fumetto e provò a dirmi qualcosa. Ma io ero terrorizzata che mi volesse prendere in giro per quel passatempo, non gli diedi neanche modo di parlare. Scappai via e gli urlai di lasciarmi in pace.» Un tic nervoso alle labbra. «Col senno di poi, mi rendo conto che voleva solo chiacchierare con me. Non hai idea di quante volte, una volta cresciuta, mi sono pentita di non essermi fermata ad ascoltarlo. Ma da ragazzina ero troppo spaventata. Ero così ossessionata al pensiero di essere giudicata da non vedere altro. Avevo la paura folle che scoprisse che mi piaceva e che per questo mi avrebbe derisa. Se ci avessi riflettuto con calma, avrei capito sin da subito che non lo avrebbe mai fatto. Jesse non era un bullo, non lo sarebbe mai stato. Nonostante il suo carattere allegro e spavaldo, era molto più adulto di tanti insegnanti e genitori. Ma, ahimè, l'adolescenza implica anche la stupidità. E io ero davvero, davvero stupida.»

Avrei potuto giurare di star rivivendo insieme a lei quei ricordi. Mi tremavano le mani con cui stringevo il bicchiere.

«Lui fece finta di niente, continuò a salutarmi sempre con un sorriso, anche se io non gli rispondevo mai, e poi... beh, lo sai.»

Sì, lo sapevo, lo sapevo meglio di tutti.

Emma sospirò.

«Noi ragazzi non potevamo capire fino in fondo» disse. «Eravamo troppo immaturi, il concetto di malattia e morte... ce l'avevamo in testa, ma non era ancora così concreto. Scoprire che uno dei nostri compagni di classe lo stava vivendo sulla propria pelle destabilizzò tutti.» Finì l'ultimo goccio di Jack Daniel's. «Ricordo che piansi tutta la notte, quando seppi la notizia. La classe decise di andarlo a trovare in ospedale, persino quelli che avevano tentato più volte di umiliarlo accettarono di partecipare, e anche io lo feci.»

Mi ricordavo quel periodo. La camera d'ospedale di Jesse era sempre intasata da un viavai continuo di persone. Amici, vicini di casa, professori, compagni di scuola, persino le vecchie maestre dell'asilo e delle elementari.

Mi ricordavo il modo in cui Jesse li trattava, sempre col sorriso sulle labbra e l'ironia a intessergli la voce, ma anche da bambina riuscivo a vedere quanto a fondo si stava sforzando, quanto a fondo si violentava per affrontare tutte quelle visite di cortesia e compianto, come se fosse già nella tomba.

Non ero rimasta affatto sorpresa dopo, quando aveva deciso di non ricevere più nessuno.

«Sinceramente, odiai quel giorno. Fu tremendo. Vederlo su quel lettino, così deperito, senza più capelli, intubato... Non riuscivo neanche a riconoscerlo nella figura del ragazzo di cui ero innamorata.» Si scostò una ciocca corvina dal viso, sistemandosela dietro l'orecchio. «E vedevo come lui, seppur continuasse a scherzare e a chiacchierare proprio come prima, si vergognava della propria condizione, di mostrarla a quelli che finora l'avevano solo conosciuto come un ragazzo in salute. Era la prima volta che... anche lui badava al giudizio degli altri.»

Era un'attenta osservatrice. In pochi avevano notato quel particolare, neanche i nostri genitori ci avevano fatto caso.

«Una parte di me avrebbe solo voluto continuare ad andare a trovarlo, l'altra, invece, lo compativa, sapeva che, se lo avessi fatto, lo avrei ferito ancora di più. In fondo, non eravamo neanche mai stati amici. Si può dire che fossimo solo due sconosciuti che avevano condiviso molte ore insieme nelle stesse classi. Ricevere continue visite da una ragazza con cui non aveva neanche mai parlato veramente, solo perché si era ammalato, non lo avrebbe certo aiutato.»

Serrai la mascella, mandai giù un bel po' del mio drink, per annegare l'acidità che aveva iniziato a pizzicarmi lo stomaco.

«Mi ha detto...» dissi poi, «che gli hai regalato un portachiavi a forma di libro.»

Lei sussultò sorpresa. «Se lo ricorda?» Una risata leggiadra le illuminò il volto. «Non ci posso credere. Pensa, mi ero arrovellata per giorni al pensiero di cosa dargli. Mi sentivo già in colpa a fargli un regalo. Voglio dire, ricevere doni solo perché ti sei beccato la leucemia non deve essere particolarmente piacevole, ma la classe aveva stabilito che ognuno di noi dovesse farli.» Chinò lo sguardo sul suo bicchiere. Aveva delle ciglia davvero lunghissime, e il neo all'angolo dell'occhio ti ammaliava, catturava tutte le tue attenzioni, proprio come aveva detto mio fratello. «Mi sono ricordata che lui amava leggere qualunque genere di libro. Passava da argomenti complicatissimi come le opere omeriche a libri assurdi come "Le mille barzellette più inutili del mondo."» Rise di cuore, e io con lei.

«Mi ricordo quel libro» commentai. «Per un anno intero non ha fatto altro che tirar fuori quelle barzellette stupide nei momenti più inopportuni, solo per farmi ridere.»

Una sfumatura d'amarezza le tinteggiò il sorriso. «Non tornò più a scuola, dopo la diagnosi» disse. «Per qualche anno, continuai a sentire sue notizie dalle bocche degli altri studenti. Ma lui, pian piano, aveva iniziato a chiudere fuori tutti. Pochi erano quelli che ancora riuscivano ad andarlo a trovare. L'ultima informazione che ebbi di lui fu quando avevo diciassette anni, poco prima che mi trasferissi coi miei qui a Nicewood. Mi dissero che era sopravvissuto per miracolo a una brutta polmonite.»

Sì, ricordavo anche quello.

Era stato il giorno in cui avevo pensato che il momento era arrivato.

Gli sguardi dei medici, le urla di papà, le lacrime della mamma che si era accasciata a terra e aveva stretto per le gambe il dottore, supplicandolo di far qualcosa.

La camera asettica della terapia intensiva, il suo corpo intubato come non mai, le luci dei macchinari.

La sua mano fredda nella mia.

«Nel corso degli anni mi sono sempre chiesta cosa avrei dovuto fare» continuò Emma, «se la mia scelta fosse stata quella giusta. Se avessi potuto fare qualcosa di più. Ma credo che, in certi casi, non esiste veramente un concetto di "giusto" e "sbagliato".»

«No» concordai. «Non esiste.»

L'angolo della sua bocca si sollevò. «Sai, quando lo andammo a trovare, davanti ai nostri volti così tristi, lui ci urlò di non preoccuparci.» Rise ancora. «Disse che prima di morire doveva aspettare che tu compissi diciott'anni, solo allora se ne sarebbe potuto andare in pace.»

Il bicchiere tra le mie mani iniziò a tremare, cercai di impedire al sorriso di fare altrettanto.

Lo sguardo di lei era una carezza, un abbraccio invisibile che accoglieva tutti i miei tremiti.

«Volevo...» mi sforzai di parlare. «Volevo fare qualcosa per lui, qualcosa che non si aspetterebbe mai...» Deglutii. «Ormai... ormai non c'è più niente da fare. Manca poco, pochissimo, e io...» Inspirai. «Quando mi ha parlato di te, l'ha fatto col sorriso» spiegai. «Io sono sicura... sono sicura che se Jesse ti incontrasse, adesso, ne sarebbe entusiasta.»

Emma reclinò la schiena sul sedile della sua sedia, il volto addolorato con una sincerità disarmante. «Mi dispiace di essermi presentata così all'improvviso, senza nessun preavviso, dal nulla» dissi. «Ho pensato di scriverti sul tuo profilo Instagram, ma ho visto che non lo utilizzi molto, le tue foto più recenti risalgono a otto mesi fa. Temevo che non avresti letto il messaggio in tempo.»

«Sì, è vero. Non sono una grande fan dei social.»

«E poi sono dell'idea che simili favori... simili richieste, debbano essere fatte di persona.»

Posò il gomito sul tavolino e usò la mano per reggersi il mento, non smise mai di sorridere.

«E mi rendo conto che è molto inquietante venir raggiunti al pub in cui si lavora da una totale sconosciuta che ti ha trovato solo grazie a una ricerca su internet, e sì, alcuni miei amici sono andati anche a cercarti alla Caritas per cui fai volontariato.» Era meglio dirglielo subito, non volevo che lo scoprisse più tardi, per caso, e per questo si spaventasse. «Ma ti posso giurare che non sono una stalker e non voglio neanche prenderti in giro. Posso provartelo, se vuoi, ho qui la mia patente e ti posso mostrare tutte le foto e le conversazioni che ho con mio fratello nel telefono. So che non mi crederai, ma per Jesse tu sei stata importante. Volevo solo...»

«Lo so, Callisto» m'interruppe lei. «Te lo leggo negli occhi, tesoro, l'affetto che provi per Jesse. So che stai dicendo la verità.»

Era così strano venir creduta in quel modo. Ero abituata ai giudizi di mamma e papà, la loro abilità innata a trovare spine anche in tutte le mie rose, a cercare colpe anche nel più innocente dei gesti.

Mi ritrovai a pensare che era naturale, quella donna era stata amata da mio fratello, e Jesse non avrebbe mai potuto amare una persona crudele.

«Anche Jesse si trova ancora a Littburg, vero?»

Annuii, il sorriso mi divorava.

«Lo sa che sei qui?»

Scossi la testa, Emma scoppiò a ridere.

«Scommetto che ti farà una ramanzina coi controfiocchi, non appena lo scoprirà» disse.

Tacque per qualche minuto, qualche atroce, straziante minuto. Aveva lo sguardo di nuovo sulla vetrata, ticchettava il dito sul bicchiere, a ritmo deciso, gli occhi erano persi a riflettere e non riuscivo a capire se preoccuparmene o esserne felice.

Alla fine, si passò una mano tra i capelli, un sospiro le sciolse tutto il corpo, susseguito poi da un altro sorriso.

Guardò alle mie spalle, verso il bancone. Non eravamo troppo distanti da esso, perciò immaginai che sia Ruben che Nick avessero sentito tutto. Ad alta voce chiese al marito: «Tesoro, secondo te possiamo prenderci un paio di giorni di ferie?»

Il sollievo e la felicità che provai in quel momento rischiarono di farmi cadere dalla sedia, con una forza di volontà che non sapevo di possedere mi costrinsi a restare seduta.

La voce di Nick, dietro di me: «Non sarebbe male, sai?» Non sembrava per nulla sorpreso dalla decisione della moglie, al contrario, pareva quasi gongolare. «Ho sempre voluto vedere Littburg, in fondo è la città dove hai vissuto la tua fase più emo. Sarà uno spasso prenderti in giro.» Udii la risatina di Lizzie. «E poi ho sentito che lì hanno aperto da poco uno dei più grandi negozi Disney della California. Lizzie lo adorerebbe.»

«Sei tu il fanatico della Disney, non Lizzie» gli ricordò Emma.

«Non svelare subito le mie carte, donna, ho una reputazione da mantenere.»

Emma si voltò a guardarmi. «Domani andrebbe bene?» domandò.

Stavo per svenire dal sollievo.

«Sì! Sì! Sì!» Non riuscivo a trattenere l'entusiasmo, se avessi potuto, sarei scoppiata a piangere. «Oh Dio, grazie, Emma! Grazie! Giuro che ti ripagherò tutte le spese del viaggio e del pernottamento! E-»

«Non ce n'è bisogno, Callisto.»

«Ma-»

«Sono io l'adulta, qua, non tu. Spetta a me preoccuparmi di queste cose.»

«Ah, così sei un'adulta?» la prese in giro Nick. «Devo essermelo perso.»

«Taci, uomo che ha pianto per giorni dopo aver visto il finale di Rapunzel

«Eugene stava morendo! Ha rinunciato alla sua vita tagliandole i capelli per liberarla da Madre Gothel! E le ha detto che lei era il suo nuovo sogno! E lei gli ha detto che anche lui era il suo!» si difese indignato. «Solo un mostro sadico e senza cuore non piangerebbe davanti a una simile scena.»

Scoppiai a ridere. Adoravo quella coppia.

«Con che mezzo sei venuta, Callisto?»

«Il treno.»

«Volete tornare a Littburg con noi?» Il suo suggerimento mi lasciò a bocca aperta. «Nick ha la brutta abitudine di mettere sempre le sigle dei cartoni animati per cantarle a squarciagola, quando guida, e fidati, un'unghia sulla lavagna è più intonata di lui, ma a parte questo sappiamo essere una buona compagnia.»

«Ehi!» s'indignò Nick. «La mia voce è fantastica! Sono un vero e proprio usignolo

Ridacchiai ancora. «Sono venuta fin qui con i miei amici. Siamo quattro, in totale, non credo che entreremmo tutti quanti in una macchina. Ma grazie per l'offerta.»

«Possiamo andare con due macchine» suggerì Nick, sbigottendomi ancor più. «Così almeno quell'ingrata di mia moglie non potrà lamentarsi della mia stravolgente e magnifica voce. Ah Lizzie» sospirò con tono sognante, «tu sei l'unica vera donna che sa apprezzarmi.» La bambina ridacchiò.

«Non sarebbe una brutta idea. Ma Lizzie starà in macchina con me. Sei pericoloso, quando guidi senza la mia supervisione.»

«Il tuo concetto di pericoloso è alquanto opinabile, vita mia, visto che per te anche fare un banale sorpasso in autostrada lo è.»

Mi girava la testa. Mi sembrava quasi impossibile quello che stava succedendo. Avrei solo voluto lanciarmi su Emma e stringerla in un abbraccio con furia, ringraziarla fra le lacrime, ma mi costrinsi a restare ferma.

«Grazie» riuscii a stento a sussurrare. «Grazie, grazie, grazie davvero, Emma. Farò di tutto per ripagare questo favore, lo giuro.»

Lei sbuffò, prese la mia mano ancora stretta al bicchiere e la strinse nella sua. «Non devi ripagarmi niente, Callisto» mormorò. «Credo anzi che con la tua richiesta tu mi stia dando l'occasione di poter finalmente riscattare la me stessa del passato. Dovrei essere io a ringraziarti.» Un sorriso amaro la travolse. «Mi capita spesso di ripensare a Jesse, soprattutto quando gioco con Lizzie. Ha il suo stesso entusiasmo e spavalderia. Mi piacerebbe davvero tanto poterlo rivedere un'ultima volta.»

Un nodo mi chiuse la gola, non riuscivo più a parlare.

Emma parve comprenderlo, la mano con cui mi stringeva era calda, bollente. Ingenuamente, mi ritrovai a pensare: Così è questo che si prova ad essere accarezzati da una mamma.

«Quello che sto per dire suonerà molto... controverso, a primo impatto, ma non è quello il reale senso che intendo, spero che tu lo possa comprendere» continuò Emma, la voce serafica. «Ho sempre pensato che il più grande amore di Jesse Murray sarebbe stato, fino alla fine, sua sorella.» Mi sorrise. Un sorriso che mi si sciolse nell'anima in una cascata di lacrime dolcissime. «E credo di non essermi sbagliata affatto.»

Mi ritrovai a ridere sommessamente, afflitta da un dolore che mi recideva i pensieri e un orgoglio che mi gonfiava il petto.

«Sì» bisbigliai. «E lui è il mio.»

*

Nick ed Emma ci dissero che sarebbero passati a prenderci l'indomani alle dieci del mattino, davanti all'hotel in cui pernottavamo. Ci scambiammo i numeri di telefono.

Quando li salutammo, era ormai orario d'apertura per il pub, e Nick dovette lottare con estrema fatica per cercare di calmare Lizzie che, vedendo Ruben andarsene via, scoppiò in un pianto a dirotto così forte da far tremare tutte le bottiglie dietro il bancone. La piccola era una vera e propria fontana, cercò di aggrapparsi con le sue mani minuscole alle braccia di Ruben, tentando di trattenerlo, gridando parole impastate dalle lacrime e supplicando di non portargli via il suo principe azzurro.

Quella visione mi fece ridere tantissimo, forse più di quanto fece ridere Emma e indignare Nick, il cui orgoglio paterno era rimasto atrocemente ferito davanti alla palese preferenza della figlia per un totale sconosciuto rispetto a lui.

Ruben si limitò a carezzarle il capo, l'espressione scialba, spettinandole la chioma corvina, per poi darle un buffetto sulla guancia. A quel punto Lizzie singhiozzò e tacque, sul suo seggiolone, e non permise ad altre urla di scalfirla, lasciò soltanto che fossero le lacrime a gridare il dolore del suo cuore spezzato.

Davanti alla porta del pub, Emma mi salutò con una stretta di mano e un sorriso gentile sulle labbra.

Nemmeno il cielo poteva immaginare la gratitudine che provavo nei confronti di quella sconosciuta. Se come Eve aveva detto e la maggior parte dell'altruismo nasceva come strumento per farsi notare, avevo davanti ai miei occhi uno dei pochi esemplari di persone che aveva invece ricamato la bontà sul pizzetto dell'anima non per sfoggiarla, solo per possederla.

Usciti da Make a Dream, ci dirigemmo verso l'hotel, a venti minuti a piedi da dove ci trovavamo. Era ormai sera, il cielo si era completamente annerito, ma dopo qualche metro sentii le gambe cedermi completamente, e solo per miracolo Ruben riuscì a prendermi in tempo, prima che crollassi a terra sull'asfalto.

«Ehi» lo sentii dire, mentre mi stringeva per le spalle, aiutandomi a rimettermi in piedi.

«Scusa» balbettai con una risatina. «Ero così nervosa... Ero certa che avrebbe rifiutato la mia richiesta.» Inspirai con forza. «Voglio dire, ha pure una bambina piccola a cui badare, muoversi così all'improvviso da una città all'altra non deve essere facile. E il modo in cui l'abbiamo trovata avrebbe inquietato chiunque... Ero piuttosto sicura che non ci sarei riuscita.» Sentii fuoco nel petto. «Non pensavo che esistessero persone così buone.»

La sua stretta si fece più dura. «Ti sei mai guardata allo specchio?»

Lo scrutai confusa. «Ho un aspetto così orrendo?»

Lui sospirò, non rispose al mio sguardo interrogativo.

«Dammi... Dammi qualche secondo» dissi nell'affanno, un sorriso tremulo in bocca. «Sono così sollevata che non mi sento più i piedi.»

Ruben mi scrutò da sotto le sue lunghe ciglia, nell'occhio azzurro zampillò una luce che non seppi tradurre. Soffiò ancora dalle labbra e in un istante sentii le sue braccia sul mio corpo, una a cingermi la vita, l'altra le gambe. Lanciai un grido di stupore quando mi sollevò da terra e mi prese in braccio, in quella posa fiabesca da cavaliere che tante ragazze sognavano da piccole. Mi aggrappai con le mani alle sue spalle.

«Non ci sarà una terza volta» disse con voce aspra, mentre iniziava a incamminarsi e gli sguardi dei passanti cominciavano a inseguirci fra il divertimento e lo stupore.

Sentii le guance andarmi a fuoco, ma non seppi contenere le labbra.

«Niente sorriso» tuonò.

«Ma è sincero, stavolta.»

«Peggio ancora. Toglitelo subito.»

Ridacchiai, la testa posata contro il suo petto, e anche attraverso lo spesso strato del cappotto che indossava, riuscivo comunque a sentirgli il cuore. Un suono avido, orgoglioso quanto il suo proprietario.

«Lizzie ha perso la testa per te» mormorai mentre avanzavamo lungo la strada. «Spero che Nick riesca a consolare il suo cuore spezzato.»

«I bambini di solito si innamorano ogni tre secondi» rispose. «Le passerà in poco tempo.»

«Tu hai mai avuto una cotta da piccolo?»

«Ho detto "di solito".»

Ero sicurissima che mi stesse mentendo. Non riuscivo a credere che non avesse mai avuto una cotta per qualcuno, neanche un personaggio televisivo, ma sapevo che avrebbe negato fino alla fine dei suoi giorni.

«Te la cavi, coi bambini» commentai. «Nick mi ha detto che, mentre io ed Emma parlavamo, hai giocato con lei. Era super geloso.»

«Non ho giocato. Le ho impedito di rovesciarmi il suo latte addosso.»

«Ha detto che le hai insegnato il gioco del battimani.»

«Se batteva le mani, non poteva usarle per far cadere il bicchiere. Mero senso di sopravvivenza.»

Il mio sorriso si fece più grande e lui se ne accorse, fulminandomi con lo sguardo.

«Ti piacciono i bambini, eh?» chiesi con tono provocatorio.

«Sai cosa mi piace? Il silenzio. Quello che tu continui a negarmi.»

«All'inizio ho pensato fosse strano, ma dopo, nel vedere come Lizzie si aggrappava a te, mi è sembrato quasi... naturale.» Accomodai meglio il capo contro il suo petto. «Credo che abbia visto subito la bontà che cerchi tanto di nascondere.»

«Non c'è bontà, semplicemente sono bello.»

Il sorriso adesso mi arrivava fino alle orecchie. Trattenermi dal ridere fu un'azione contro natura, ma riuscii comunque a realizzarla. Quando Ruben se ne accorse, si fermò a osservarmi con sguardo disgustato. Immaginai volesse martellarmi di nuovo in testa, ma aveva entrambe le mani occupate nel reggermi.

Sollevai le sopracciglia, in un gesto di sfida, con la bocca che tremava.

Mi colpì la fronte con la sua, con forza.

«Ahia» mi lamentai, massaggiandola, mentre riprendeva il cammino. «Finirai per provocarmi un trauma cranico.»

«Non darmi false speranze.»

Gli diedi un pugno sul petto. Non gli facevo niente, ormai lo sapevo, ma era comunque divertente. E poi mi piaceva toccarlo.

«Peso molto?» gli chiesi a quel punto. Non mi sembrava affaticato, ma era ancora reduce dai calci di Rick della notte scorsa, e non avevo dimenticato i lividi sulla sua schiena e i graffi in viso.

«Sei un elefante a un gravissimo stadio di obesità.»

Il sorriso mi divorò le guance infuocate. Mi guardai attorno, stavamo percorrendo un marciapiede in ghiaia che si affacciava ai margini del fiume. Ringhiere di ferro separavano quel percorso dal precipizio che conduceva all'acqua e un sentiero di alberi di quercia delimitava il confine tra la passerella e la strada.

Ripensai al nostro precedente discorso. «La mia prima cotta è stata un oncologo di Jesse.»

Si voltò a guardarmi, il sopracciglio inarcato. «Non è così strano» mi difesi. «Ogni volta che mi vedeva mi regalava una caramella e mi faceva mille complimenti. Mi diceva che ero bravissima e bellissima. E poi era davvero un bell'uomo.»

Silenzio, per un minuto intero.

«Sai chi altro fa queste cose?» La sua voce era svergognatamente profonda.

«No, chi?»

«Quelli che rapiscono i bambini ai parchi.»

Spalancai la bocca, oltraggiata. Lui proseguì imperterrito: «Ma, effettivamente, se ci rifletti, la tua cotta ha senso. Sei così scema che è un miracolo che davvero non ti abbiano mai rapita. Si spiega tutto.»

Gli diedi un altro pugno sul petto. «Non è vero!» Ero indignata al massimo. «Il dottor Sanchez non era così!»

«Anche il cognome sa di uomo che rapisce bambini ai parchi.»

Ancora un pugno.

«Scommetto che se ti avesse detto di aver perso il cane e ti avesse chiesto di salire in macchina con lui per aiutarlo con le ricerche, lo avresti fatto a occhi chiusi.»

«Il dottor Sanchez non aveva un cane!»

«Quindi, se l'avesse avuto, lo avresti fatto.» La sua era una certezza. Il giudizio con cui mi guardò fu indescrivibile.

Sentivo il volto in fiamme, tra le risate e l'umiliazione cocente. «Il dottor Sanchez non era così!» Continuai a colpirlo. «Era un uomo fantastico, sempre col sorriso. E fidati, oncologi che sorridono se ne vedono veramente pochi. E poi era il più giovane tra tutti gli altri medici del reparto.»

I suoi occhi caddero fulminei nei miei. Mi pentii all'istante delle mie ultime parole.

«Ah sì? E sentiamo, quanti anni aveva?»

Capii di aver toccato un nervo scoperto, ma ormai era troppo tardi. «Credo sui... cinquanta?» provai a sussurrare con meno voce possibile.

«Giovane» ripeté, sputando quella parola come fosse veleno. «Devono aver revisionato il dizionario negli ultimi giorni, perché sono sicuro che l'ultima volta che l'ho aperto il significato di "giovane" era molto diverso.»

«Ehi, rispetto agli altri dottori era davvero giovane!» Ero diventata una fornace ormai. «In quel reparto l'età media dei medici si aggirava sui settanta.»

«Certo» disse lui, con tono crudelmente sarcastico. «Cinquant'anni non sono niente

«Esatto!»

Mi scoccò un'occhiataccia. «E tu quanti ne avevi?»

Affondai il volto nel suo petto. Non ebbi più il coraggio di guardarlo in faccia. «Sette.»

Accelerò il passo con furia.

«Quarantatré anni di differenza. Incredibile. Quasi rimpiango Brad Pitt. Già dalla tua prima infanzia andavi dietro ai vecchi. Inizio a sospettare che il tuo sia un vero e proprio feticismo genetico.»

«Te la sei proprio legata al dito, eh? Questa storia dell'età.»

«Sto solo appurando un dato di fatto.»

Stavo morendo sia dalla vergogna che dalle risate, soffocavo entrambe contro il suo petto, aggrappandomi con le mani al suo cappotto. «Era biondo pure lui» aggiunsi a quel punto. Provocarlo in quel modo stava diventando una sorta di divertimento masochistico.

«Ma non mi dire.» La sua voce canzonatoria, con cui cercava di nascondere lo sdegno, mi stava facendo soffocare per le risate. Tremavo tra le sue braccia.

«E poi, come ho già detto, per le cotte impossibili non c'è limite d'età.»

«Sono sicuro che i pedofili dichiarino la stessa cosa in tribunale.»

Lo colpii di nuovo.

«Almeno il dottor Sanchez non mi insultava come fai tu ogni volta. Mi riempiva sempre di complimenti.»

«Mi pare ovvio: io non ti voglio rapire. Al massimo, ti lancio nel fiume qua accanto. I miei scopi sono decisamente più nobili dei suoi.»

«Da quando in qua l'omicidio è più nobile del rapimento?»

«Il tuo omicidio» mi corresse. «E lo sarebbe perché ti ammutolirebbe per sempre. Un vero e proprio sollievo per il mondo intero. Potrebbero persino darmi il Nobel per la pace. Lo meriterei decisamente più di Obama.»

Trattenevo così tanto le risate che a fatica riuscivo a respirare. Il suo braccio sulla mia schiena mi strinse con più forza, avvolgendomi completamente, la mano sulla mia spalla.

«Povera Lizzie, non sei degno di essere la sua prima cotta.»

«Sempre meglio del dottor Sanchez.»

«La gelosia retroattiva non è attraente, Ruben.»

«Non è gelosia, solo crudo giudizio sui tuoi discutibili e illegali gusti sugli uomini.»

Gli avvolsi le braccia attorno al collo, posai la guancia sulla sua spalla. «Non credevo esistessero.»

«Cosa? I pedofili? Sì, l'avevo intuito.»

Soffocai per qualche secondo. «Mamme del genere» risposi a occhi chiusi. «Emma è così giovane e ha già una bambina. Eppure, mi è sembrata molto più matura e materna di-» Mi fermai.

Non aggiunsi altro, ma sapevo che aveva già capito.

«Per un attimo ho desiderato che fosse anche mia madre» mormorai. «Mi sono ritrovata a invidiare Lizzie tantissimo.»

Ci furono svariati minuti di silenzio, scanditi solo dai suoi passi che grattavano la ghiaia del percorso, e poi lo udii dire: «Intanto, quella che è tra le mie braccia, sfortunatamente per me, sei tu. Sono piuttosto certo che l'invidia sia reciproca.»

Scoppiai a ridere. «Non ho mai pensato al mio futuro, sai? Se mai avrò una famiglia mia, un lavoro... Non ci ho mai pensato. Ma credo... Credo che se mai avessi dei figli, vorrei essere un po' come Emma.»

Non rispose, continuò a camminare.

«E com'è Emma, secondo te?»

Chiusi gli occhi, sorrisi.

«Amore» risposi. «Puro e semplice amore.»

*

Prima di arrivare all'hotel, chiamai la clinica di Jesse per essere aggiornata sulle sue condizioni. L'infermiera che mi rispose mi informò che la febbre era calata drasticamente, ma Jesse non si era ancora svegliato. Con la fatica e lo stress che aveva attraversato il suo corpo, disse, non era poi così sorprendente, inoltre la terapia sperimentale che stava facendo aveva tra i vari effetti collaterali la sonnolenza.

Mi informò, anche, che il suo medico aveva stabilito di limitare il più possibile le sue attività motorie, per evitare che sforzasse troppo il cuore. Da quel momento in poi, avrebbe dovuto usare una sedia a rotelle.

Ero contenta di sapere che mio fratello non era ancora a rischio vita, ma sapevo anche quanto gli sarebbe costato accettare l'idea di doversi affidare a una sedia a rotelle per muoversi. Non era la prima volta che succedeva, e anche se aveva sempre cercato di nascondermelo, avevo visto il modo in cui rinunciare a quel poco di autonomia che gli era rimasta l'aveva umiliato e fatto soffrire.

Stavolta, inoltre, sarebbe stato per sempre. Non avrebbe mai più potuto tornare a camminare come prima. L'infermiera non me l'aveva detto, ma era stato facile da intuire. Se volevamo accrescere il più a lungo possibile i suoi ultimi giorni, era necessario che il suo fisico non venisse sottoposto ad alcun tipo di stress, fino all'ultimo.

Quella notizia mi si timbrò nel cuore con lo stesso dolore di un'ustione.

Subito dopo, chiamai Eve. Avevo pensato di aspettare di arrivare in hotel per aggiornarli, ma ero così entusiasta di quello che era successo da volerlo condividere subito. Le raccontai la mia conversazione con Emma, e la mia amica sembrò forse persino più sollevata e soddisfatta di me per il risultato ottenuto.

«Ti suggerirei di andare a cena fuori per festeggiare, ma posso solo immaginare quanto tu sia stanca» mi disse alla cornetta. «Penso che l'unica cosa di cui hai bisogno, adesso, è una bella doccia calda e un letto in cui sprofondare.»

Non aveva tutti i torti. Ero in piedi dall'alba, avevo dormito sì e no quattro ore in totale, tra la notte precedente e il viaggio in treno, e l'idea di collassare sul materasso mi allettava più di quanto volessi ammettere.

Finita la chiamata, controllai il cellulare per vedere se c'erano dei messaggi da parte dei miei genitori. Nessuno.

Non dovevano essere stati ancora informati sulla febbre di Jesse, altrimenti, ne ero certa, il mio telefono sarebbe esploso a causa delle loro chiamate.

Non ero sicura se esserne felice o preoccupata. Jesse aveva impedito alla clinica di aggiornarli sulle sue condizioni, sapevo che, anche solo da un punto di vista legislativo, l'ospedale non si sarebbe mai permesso di violare così le decisioni del proprio paziente. Inoltre, mamma e papà avevano l'abitudine di andare a trovare Jesse sempre negli stessi giorni e agli stessi orari, così da conciliarli col loro lavoro, e quello non era uno di quei giorni, eppure non riuscivo a stare tranquilla.

Se avessero mai scoperto la cosa e fossero venuti a sapere che io non gliene avevo parlato... E se fossero venuti a cercarmi ai dormitori e non mi avessero trovata? E se...

Non ci volevo neanche pensare.

«Se continui a fissare il cellulare mentre cammini» mi disse Ruben, accanto, strappandomelo via dalle mani, «finirai per farti investire.»

«Ehi!» Provai a riacciuffarlo ma lui lo sollevò sopra la propria testa. Tentai di saltare per recuperarlo, ma fu tutto inutile. In confronto alla sua altezza, io ero una vera e propria nana da giardino. «Dovevo solo controllare una cosa.»

«Sono dieci minuti che "devi solo controllare una cosa"» ribatté. «Hai paura di ricevere altre notizie su Jesse?»

Sotto il suo sguardo indagatore, mi risultò molto difficile mentire. Sorrisi. «Sì» dissi. «Sono in ansia per lui.»

Non attese neanche un secondo. «Confiscato» dichiarò con solennità, infilandoselo nella tasca del cappotto e chiudendone la zip.

«Ehi!»

«Un'altra bugia e ti sequestro anche tutti i gadget di Crystal Ballerina.»

Mi sentii avvampare. «Sadico.»

«Almeno io non mento.»

«Come diavolo ci riesci?» mi lamentai. «Hai la telepatia?»

«Grazie a Dio no. Già devo ascoltare parlarti, mi butterei direttamente da un grattacielo se fossi costretto anche a sentirti i pensieri.»

Lo colpii con un pugno sulla schiena.

L'hotel che Eve aveva prenotato per noi era davvero carino. Un posto non troppo lussuoso, un edificio a cinque piani bianco, con finestre ampie che si affacciavano su balconi dalle ringhiere in marmo. Un giardinetto ben curato lo contornava, l'erba debitamente tagliata e una piccola fontanella a decorarlo, con la statua di un angelo che suonava la tromba.

Il vialetto che conduceva alle scalette d'ingresso era in pietra bianca, e quando entrammo nella hall, fui invasa dal calore confortante dei riscaldamenti interni, che andò a scongelare il freddo di fuori. Quel posto aveva colori molto accoglienti: il pavimento in resina beige e pareti crema, lampade che bagnavano il locale con una luce tenue e aranciata. Alla reception, sulla sinistra, una donna stava battendo al computer dietro la vetrata, ci avvicinammo per chiedere informazioni, quando sentii qualcuno saltarmi alle spalle.

«Callisto!»

La voce di Eve, scintillante come una stella, mi fece ridere. Rischiai di cadere sotto il peso della mia amica, ma in qualche modo riuscii a riprendermi. «Queste aggressioni sono pericolose» mormorai, mentre ritornava a terra. Inarcai un sopracciglio, nell'osservarla. «Ti sei cambiata?»

Eve aveva addosso un vestito a collo alto, di lana blu come i suoi occhi, che aderiva in maniera quasi provocatoria alle sue curve prosperose e si fermava a metà delle cosce. Un paio di collant neri sotto e degli stivali scamosciati. «Non ci crederai mai!» dichiarò con voce entusiasta. «Ma qui a Nicewood ci sono dei negozi di vestiti fa-vo-lo-si!» Le brillavano gli occhi. «Ho pensato, dato che nessuno di noi ha avuto il tempo di portarsi un cambio, di andare a comprare qualcosa per tutti, mentre aspettavamo che tu e Ruben tornaste. Dio, Callisto, è stato fantastico! Non ho mai visto certi abiti prima d'ora!»

«Aspetta, hai comprato vestiti per tutti?»

Lei annuì, le guance a fuoco dall'entusiasmo. «Vestiti, biancheria intima, calzini, spazzolini, spazzole e dentifricio» precisò.

Spalancai la bocca. «Ma Eve-»

Lei sollevò in alto la mano, fermandomi subito. «Non ci provare» dichiarò. «Non osare dirmi che ho esagerato. Lo shopping non è mai esagerato. Lo shopping è la vita. Lo shopping è per sempre.»

«È seria» disse un'altra voce. Mi voltai a destra, dalle scale che conducevano il primo piano, James stava scendendo. Anche lui si era cambiato, aveva addosso un maglioncino bianco e dei jeans. La sua espressione, però, era l'esatto contrario di quella goduriosa della mia amica. «Volevo morire.»

Eve lo guardò con il broncio. «Non è stato poi così brutto.»

«Per te» replicò James. «No-Non sei tu quella che ha-ha do-dovuto aspettare su un di-divanetto sco-scomodo per o-ore.»

«Solo perché ti sei rifiutato di provarti tutti i vestiti che avevo scelto per te!» Era profondamente indignata. «Ti sarebbero stati benissimo!»

James si avvicinò a noi, aveva l'aria forse persino più esausta della mia. «Me-Meglio l'eutanasia.»

«Ingrato!» Eve gli schiaffeggiò con forza la spalla, ma dal modo in cui James accusò il colpo, intuii che non era la prima volta. Doveva averlo fatto spesso, mentre erano presi a litigare per i vestiti. «Ti avevo detto di tornare all'hotel, se non volevi aspettarmi!»

«Nah» ribatté lui. «Eri fe-felice, si vedeva. Ta-Tanto è ba-bastato per sopportare.»

Lei sbatté incredula le palpebre. Mi venne da sghignazzare. James, preso com'era dalla fatica, non si era appena accorto di aver appena dato un bel colpo alla mia amica. La vidi ripetersi in silenzio quelle parole in testa, comprenderne fino in fondo il significato, per poi sorridere come mai aveva fatto prima d'ora, entusiasta.

Tornò verso me e Ruben. «Ho già pensato io al check-in» disse. «E so che ti avevo suggerito di andare subito a lavarti e farti una bella dormita, ma credo che tu abbia anche bisogno di mangiare, Callisto.»

Non aveva tutti i torti. Non ricordavo l'ultima volta che avevo fatto un pasto completo vero e proprio.

«Questo hotel ha anche un ristorante. Nulla di particolarmente sofisticato, ma le recensioni sono buone» continuò. «Andiamo ad addentare qualcosa, prima di sprofondare nel sonno.»

«Eve...» La guardai per qualche istante. Lei mi osservò, perplessa. Sentii un tremito profondo nel cuore. «Un giorno... ti ripagherò tutto quanto.»

Le labbra carnose le si arcuarono. «Continua ad essere mia amica e vieni a fare shopping con me per almeno i prossimi cinque anni e saremo pari» gongolò. «Ma vieto categoricamente qualsiasi abbigliamento in richiamo a Crystal Ballerina.»

A quel punto scoppiai a ridere. «Questa è crudeltà pura.»

Mi si avvicinò, avvolse il collo con il suo braccio. «Tu sei molto più bella di Crystal» disse.

Per la prima volta, mi ritrovai a crederci davvero.

*

Le recensioni del ristorante non ci lasciarono delusi. Il cibo era ottimo, una vera e propria delizia per il palato. Quando ne uscii, avevo lo stomaco sazio come mai prima. Era passato davvero molto tempo dall'ultima volta che mi ero potuta godere un pasto del genere. Forse, neanche prima della malattia di Jesse avevo potuto permettermi un simile lusso.

Prima di andare nelle nostre camere, uscii un attimo nel giardino dell'hotel per schiarirmi i pensieri. Mi misi a sedere sulla panchina che si affacciava alla fontana con l'angelo, e passai parecchi minuti a contemplare lo spruzzo d'acqua che partiva dalla sua tromba.

Non ero sicura sui sentimenti che stavo provando.

Mi sembrava ancora di vivere un sogno, come se la realtà si fosse distorta all'improvviso e fusa nell'illusione, e proprio non capivo in cosa stessi sbagliando.

Se stessi sbagliando.

Io avevo avuto sempre e solo Jesse nella mia vita.

Lui era stato il mio punto d'arrivo e di partenza, lo scopo della mia esistenza e il fine ultimo dei miei desideri.

Gli appartenevo in tutto, la mia anima si tinteggiava solo dei suoi colori, i miei battiti battevano per sostituire i suoi, i miei sorrisi germogliavano per scacciar via tutte le sue lacrime.

E adesso... adesso non eravamo più solo noi due.

Adesso c'ero io, ma non ero con Jesse.

C'era James, c'era Eve, c'era Ruben.

E mi sembrava così sbagliato, così distorto dalla verità assoluta con cui avevo convissuto per anni, da apparirmi invece naturale.

Mai in tutta la mia esistenza avevo preso in considerazione la possibilità di poter affrontare l'inesorabile fine di mio fratello con qualcun altro. Non i medici, non i miei genitori.

E sentivo... sapevo di star facendo la cosa giusta, ma un frammento della mia coscienza si rifiutava di accettarlo, trovava invece tutte le incrinature di quel gesto, le sue malignità, atroci supplizi con cui avrebbe distrutto Jesse.

Posai i gomiti sulle cosce, intrecciai le dita delle mani e le usai come valle in cui accogliere il mento.

Mi sentivo macchiata dentro, a un livello così intimo e profondo da non poter esser scorto da nessuno. Come se nel nucleo della mia anima pulsassero sentimenti primitivi di odio e scelleratezza, e più tentassi di ignorarli, più quelli si facevano forti, violenti.

Assassini.

Vuoi solo umiliarlo per sentirti migliore.

La voce di mamma, i suoi sputi, mi si avvitavano nelle cervella, e proprio non riuscivo a cancellarli. Penetravano così a fondo che non riuscivo più a capire se quelle parole appartenessero ancora a lei... o fossi io a pensarle.

Ti piace vantarti della tua bella vita, per screditare la sua.

Mi massaggiai le tempie, inspirai a fondo. Non... Non volevo ricordare. Non era vero, lo sapevo, non era affatto vero.

Io amavo Jesse.

Lo avevo sempre amato, da che ero nata.

Lui era tutto per me, il mio cuore, la mia vita, la mia anima.

Esistevo per lui, mentivo per lui, sorridevo per lui.

Eppure, anche così... adesso ero lì, con i miei amici, lontana da lui.

A scherzare, ridere, andare al ristorante.

Lo sappiamo che tutto quello che vuoi fare è solo distruggerlo.

Aggrottai la fronte, ognuna di quelle parole mi esplodeva in testa come un petardo e mi annichiliva il senso del pensiero. Io non ero così, lo sapevo, io non ero così.

È il mio ultimo desiderio, Callisto.

Ahhh, non ci capivo più niente.

Mi passai le mani sul viso, sospirai con forza.

«Ehi.»

Risollevai lo sguardo, sorpresa nel vedere James venirmi incontro. In mano stringeva un bicchiere di carta, fumante. Mi si avvicinò col sorriso, prima di porgermelo. «Tieni.»

«Cos'è?» chiesi, stringendolo tra le dita e osservando il liquido biondo e bollente che conteneva.

«Ca-Camomilla, ho pensato ti-ti avrebbe aiutata a dormire.»

Quel gesto così scontato e genuino, così pacato nella sua innocenza, sciolse i nodi che mi avevano allacciato le tempie fino a farle urlare di dolore. Sorrisi. «Grazie, James.»

Lui mi scrutò per qualche secondo, prima di sedersi a sua volta accanto a me. «Sai» disse, «no-non credo che io ri-riuscirei mai a-a fa-fare quello che hai fa-fatto tu.»

Risi sottovoce. Diedi un sorso alla bevanda. Era davvero deliziosa. «Non mi sopravvalutare, James.»

«Dico sul serio» replicò. «Non sono mai sta-stato molto coraggioso» ammiccò un sorriso. «E pe-penso che al-al posto tuo, sar-sarei solo stato ca-capace di pia-piangermi ad-addosso fi-fino alla fine.»

Silenzio, per qualche secondo, a scandirlo solo il rumore del getto della fontana, il fruscio dell'acqua che cadeva e zampillava contro il marmo, ticchettando i miei secondi.

«Pri-Prima che sa-sapessimo di tu-tuo fratello» continuò James, «a scuola ha-hai continuato a co-comportarti come qua-qualunque a-altro stu-studente. Ne-Nessuno avrebbe potuto in-intuire la verità.»

«Ruben direbbe che è perché sono una bugiarda» dichiarai con una risata.

«Ma a-anche per me-mentire» si fermò lui, «ci vu-vuole coraggio.»

Lo guardai stupita. James abbozzò un altro sorriso. «Ed è un coraggio che ti-ti ha portata fino a qui» dichiarò. «No-Non hai nu-nulla di cui bi-biasimarti o ve-vergognarti. Devi solo esse-esser fiera di-di te stessa.»

Mandai giù un altro sorso di camomilla, nel tentativo di deglutire insieme il groppo che mi stava occludendo la gola.

«Ti ricordi» esalai alla fine, e il mio fiato si cristallizzò in una nuvola di vapore, «quando mi hai chiesto se fossi innamorata?»

James annuì, io sospirai.

«Certo, ho avuto le mie cotte» ammisi. «Ma il mio amore più grande è sempre stato Jesse, e no, non intendo in modo incestuoso.» Meglio specificare subito. «Per tutta la vita, ho amato solo lui. Non me ne pento, lo rifarei senz'altro. Per me Jesse è più di un fratello, è la metà della mia anima. E proprio per questo... non so... se sarei mai capace di provare un affetto altrettanto grande, sebbene di natura diversa, anche per qualcun altro, adesso o in futuro. Non so se voglio farlo.» Mi morsi il labbro. «Mi sembra... di rinunciare a lui, in questo modo. Di... negare tutto il bene che gli voglio.»

Non rispose, così continuai: «Una volta, Jesse mi ha chiesto di promettergli che, se mai mi fossi innamorata, non lo avrei messo al primo posto e rinunciato a quel sentimento per lui.» Aggrottai appena la fronte. «E io gli ho detto che non potevo.»

Il bicchiere bollente mi riscaldava le mani, ma il suo calore non bastava per sciogliere il gelo che sentivo scorrermi nelle vene al posto del sangue.

«Una parte di me si è detta che ho fatto bene, che era la decisione giusta» mormorai. «Un'altra, vedendo quanto Jesse ha sofferto per la mia risposta, se ne è pentita immediatamente.»

Mi morsi il labbro per qualche secondo. «E non so cosa fare» ammisi alla fine. «Non so cos'è giusto provare.»

Gli occhi di James, di solito così tiepidi e caldi, si riempirono di una determinazione sconosciuta. «Callisto» mi chiamò, «l'amore no-non è un-una gara.»

Spostò lo sguardo sulla fontana davanti a noi, intrecciò le dita delle mani. «Fo-Forse qualcuno pu-può e-essere più im-importante di altri, per noi, ma ogni fo-forma d'affetto ha un va-valore proprio e in-inestimabile.» Sorrise con delicatezza. «No-Non sei sta-stata proprio tu a di-dirmelo? Che il fa-fatto che E-Eve mi pia-piaceva pe-per il suo aspe-aspetto non signi-significava che no-non fosse sin-sincero?»

Annuii, affogando il sorriso amaro nella camomilla.

«No-Non credo che affe-affezionandoti a qua-qualcun altro, eli-elimineresti o ridu-ridurresti l'affetto che pro-provi per Jesse» proseguì. «Pe-Penso che se-semplicemente impa-impareresti ad ama-amare qualcuno in modo di-diverso.» Si drizzò sulla schiena. «Vedila co-così, se volessi fare una sci-scarpa, qua-quando la la-lavori a maglia, useresti tanti gomi-gomitoli di-diversi e di diverso co-colore, giusto?»

Assentii di nuovo col capo.

«E ma-magari uno di qu-questi co-colori è più pre-prevalente degli altri» aggiunse. «Ma gli a-altri rimangono co-comunque, e insieme vanno a creare que-quella sciarpa. Ognuno di essi è cu-custodito e con-conservato a mo-modo proprio, e ha un va-valore indi-individuale. Non sarà il co-colore prevalente a so-soffocarli, così come loro non soffo-soffocheranno lui. Alla fine, solo se insieme, potrebbero dar vi-vita a quella sciarpa e la re-renderebbero co-così bella.»

Chinai il capo, la camomilla si era già raffreddata, ma mi parve comunque di sentirne ancora il calore dentro.

«E se io fossi destinata a fare solo una sciarpa monocromatica?» domandai.

«Impossibile» dichiarò sicuro. «Ne-Nessun esse-essere u-umano al mondo po-possiede un so-solo colore dentro di sé.»

Non riuscii a trattenere il sorriso.

«Non ti facevo così saggio, James.»

Si strinse nelle spalle. «Vo-Volevo rica-ricambiare il favore» mormorò. «Sai, pe-per via della mi-mia balbuzie, ho sempre avuto di-difficoltà a so-socializzare.» Un ghigno amareggiato. «E ho sempre, per qu-questo mo-motivo, pre-preferito fa-farmi i fatti miei.» Un ricciolo rosso gli finì in viso, ma non se ne accorse. «Ma so-sono stato contento qu-quando tu mi sei ve-venuta a pa-parlare. E qua-quando mi hai detto quelle cose.»

«Ho solo un debole per te» dichiarai, «sei troppo carino.»

Rise. «E sta-stando con voi, mi so-sono accorto, di qu-quante cose si da-danno per sco-scontate ogni giorno. Pe-Pensi che re-restare da soli ti impe-impedirà di soffrire, ma no-non è vero. In realtà, soffri da so-solo e basta.»

Sospirò. «E ti acco-accorgi a-anche di quanto l'appa-apparenza inganna. A pri-prima vista, non avre-avrei certo detto che E-Eve avesse un cara-carattere simile o che avesse la pa-passione per tor-torturare le persone con lo shopping.» Scoppiammo a ridere insieme. «O che tu, che so-sorridi sempre e fai disco-discorsi bi-bizzarri, stessi soffre-soffrendo da anni per la malattia di tuo fratello.»

Inspirò a fondo.

«Ma è sta-stata la par-parte più bella» dichiarò alla fine. «Co-Come fi-finalmente per-permettersi di legge-leggere un libro, e non li-limitarsi a gua-guardare la copertina.»

Finii l'ultimo goccio di camomilla, ormai completamente raffreddata, ma anche così riuscii a scaldarmi.

«Sei forte, Callisto» dichiarò alla fine. «E così lo è il tuo a-amore per Jesse. Non sa-sarà affe-affezionandoti ad altre persone, che lo farai crollare.»

Accartocciai il bicchiere di carta tra le mani, con violenza, come avrei voluto fare in quel momento col mio cuore, nella speranza che la smettesse di pulsare in quel modo, urlando disperato di concedergli le lacrime.

Presi un lungo, profondo respiro, ad occhi chiusi.

Quando tornai a guardarlo, sorridevamo entrambi.

«Grazie, James.»

Il suo volto così tenero e delicato, quegli occhi così puri, mi indussero a stringerlo a me con forza. Lo abbracciai, il capo contro la sua spalla. Lui posò con pacatezza le mani sulla mia schiena, la carezzò gentilmente.

Quando ci staccammo, James voltò lo sguardo verso le nostre spalle. Vidi i suoi occhi sgranarsi. «Oh-oh.»

«Cosa c'è?» Lo imitai. Sulla porta d'ingresso, a pochi metri da noi, appoggiati alla parete accanto, stavano Ruben ed Eve. Eve si stava trattenendo la pancia per le risate, Ruben, invece, aveva le braccia conserte al petto e lo sguardo più omicida che mi avesse mai rivolto da quando lo conoscevo.

«Che ho fatto adesso?» mi lamentai.

«Avevi ragione» sentii James dire, mentre si risollevava in piedi, «non se-sei per niente intelligente.»

Quasi avevo paura a raggiungerli, in fondo Ruben sembrava davvero volermi dar fuoco solo con gli occhi, ma mi costrinsi a farlo, accompagnata da James. Eve, nel mentre, era così presa dalle risate da battere il pugno contro la parete più e più volte, le lacrime agli occhi.

«Voglio i popcorn!» la udii gracchiare. «Un quintale di popcorn!»

Mi avvicinai titubante a Ruben. Lui non disse niente, il suo volto era quasi inespressivo, se non fosse stato per lo sguardo con cui mi trafiggeva da una parte all'altra.

«Hmm...» mugugnai. «Hai ancora fame?»

Il colpo che mi diede al capo fu forse il più doloroso di tutti quelli ricevuti fino a quel momento.

«Ehi!»

Se ne andò senza aggiungere altro, rientrando nell'albergo. Lo seguii, mentre, alle mie spalle, James aiutava Eve a riprendersi dalle risate e la accompagnava a sua volta dentro.

«Callisto» sentii la mia amica sussurrarmi sottovoce, mi voltai a guardarla. Aveva ancora le lacrime a caderle dagli occhi. «Abbraccialo.»

«Come?»

«Abbraccialo» ripeté. «Vedrai che appena lo farai, gli passerà.»

«Mi darà un altro colpo.»

«Fidati di me.»

Non ero per niente convinta, ma credevo in Eve. Di certo, per situazioni del genere aveva più esperienza di me. Tornai a guardare Ruben, che già si era allontanato di parecchio e, dopo aver preso un grosso respiro, gli corsi incontro e saltai addosso sulla schiena, cingendo le braccia attorno il suo torace.

Si fermò.

«Cosa stai facendo?» La sua voce era fin troppo profonda.

«Hmm... Abbraccio di consolazione?»

«Non ho bisogno di essere consolato.»

«Allora consola tu me.»

«Ah sì?» Il suo tono si fece piccato. «Mi sembrava che ti fossi fatta consolare abbastanza, prima.»

In quel momento, capii. James aveva ragione. Ero proprio stupida. Affondai il sorriso contro la sua schiena. «Non era consolazione, ma gratitudine, quella.»

«Stupefacente.»

«Se una persona mi aiuta, ho l'obbligo morale di ringraziarla.»

«Interessante» lo udii dire. Non si era ancora voltato, e stavo morendo di curiosità per sapere che espressione avesse in viso in quel momento. «E io, stolto, che pensavo che per queste cose avessero inventato apposta la parola "Grazie".»

Mi venne di nuovo da ridere, ma cercai di non farmi scoprire. Non volevo neanche immaginare quanto si sarebbe irritato. «Era un abbraccio per rimarcare ancor più la mia gratitudine» mi difesi. «E poi James è mio amico. Gli amici si possono abbracciare.»

«Capisco.»

Lo cinsi con più forza. Grazie a Dio, nella hall non c'era nessuno. Pure la receptionist era assente. Gli unici ad assistere a tutto ciò erano Eve e James, ma su di loro potevo contare.

«Abbracciare, sì» continuai. «Però solo quello.»

«Ah-ah.»

«Di certo, non li bacerei.»

«Certo.»

«E men che meno li terrei per mano.»

«Ne sono sicuro.»

«E poi a me piacciono i vecchi, non lo dici sempre tu?»

Finalmente si voltò. Aveva ancora lo sguardo corrucciato, ma non demorsi e continuai a stringerlo per la vita. Mi guardò di sottecchi, gli occhi brillanti. «Infatti» sillabò con voce incolore, «mi sono quasi commosso, quando vi ho visti. Finalmente sei guarita dal tuo feticismo per gli anziani. Ti porterò dei fiori domani per congratularmi meglio.»

«Non sono ancora guarita. Anzi. Proprio per questo, posso curarlo con te?» replicai. «Lo preferisco.»

Le sue sopracciglia calarono sugli occhi con forza. «Mi hai scambiato per una terapia farmacologica?»

Scoppiai a ridere così forte che quelle risa si propagarono per tutta la hall. Ruben mi afferrò per le guance e cominciò a tirarle con forza. A quel punto, tra il dolore degli zigomi torturati e il divertimento di quella situazione, lo afferrai per il colletto della maglia e lo attirai a me.

Gli stampai un bacio sulle labbra, veloce e fulmineo. Lui lasciò andare le guance.

Mi staccai gongolante.

«Ora sono guarita» dichiarai.

Era ancora irritato, glielo si leggeva negli occhi, ma non aggiunse altro. «Va' a dormire» dichiarò austero. «Forse è la volta buona e il sorriso ti soffocherà nel sonno.» 

«Giusto, a proposito.» Corsi verso James ed Eve, ancora distanti da noi, che si stavano godendo la scena come se fossero al cinema. Eve in particolar modo. Ero piuttosto certa che presto avrebbe potuto fondare un fanclub su me e Ruben. «In che camere siamo?» domandai alla fine alla mia amica, quando li raggiunsi.

«Oh sì, è vero!» Lei aprì la pochette a tracolla in tinta col vestito e iniziò a frugarci dentro. «Ecco qua, tieni, Callisto.»

Mi porse una chiave piccola, posandomela sul palmo aperto della mano. Osservai il numero inciso nel portachiavi in legno.

«La camera in cui tu e Ruben starete è la 102. Terzo piano.»

«Oh! Fantastico, grazie!»

Mi ci volle qualche minuto buono per realizzare cosa mi aveva appena detto.

Scattai lo sguardo su di lei, sconvolta.

Le labbra le si arcuarono in un sorriso maligno.

«102» ripeté, l'aria più che compiaciuta. «Terzo piano.»

Strinsi la chiave con violenza.

Il ghigno di lei, ancor più malizioso.

«Tu e Ruben.» La sua voce sembrava appartenere al personaggio cattivo di un cartone animato dopo che aveva finito di completare il suo piano diabolico. «Da soli

N.A.

Eve è praticamente noi lettori. Solo che, a differenza nostra, ha il potere di intervenire e fare qualcosa per aiutare questa coppia di disadattati.

Rendiamo grazie a Eve.

Buonsalve, muffins! Come state? Spero che questo capitolo - per quanto lungo - vi sia piaciuto. Personalmente, è stato uno dei capitoli più belli da scrivere per me. Anche se Jesse non era presente fisicamente, si è potuto scorgere uno squarcio di lui, di com'era prima della malattia e del suo legame profondo con Callisto.

Prima che mi condanniate, anche se spero si sia già un po' intuito, vorrei spiegare meglio cosa intendeva Emma quando ha detto che Callisto è il più grande amore di Jesse.

Come sapete, e come ha detto anche James, al mondo esistono tanti tipi di amore, che sia quello romantico, amichevole, o fraterno, e tanti altri ancora.

Questo libro, per quanto racconti la storia d'amore tra Callisto e Ruben, si incentrerà per la maggior parte nel legame che la protagonista ha con suo fratello.

Callisto lo dice più volte. Loro non sono solo "fratelli", ma qualcosa di più. Non si tratta di nulla di romantico e incestuoso, sia chiaro, ma è sicuramente un vincolo primitivo e fondamentale sia per Callisto che per Jesse.

Entrambi sono sopravvissuti solo grazie alla presenza l'uno dell'altra, entrambi hanno combattuto per poter continuare a restare insieme anche solo un giorno in più.

Non credo che basterebbero milioni di parole, per spiegare quanto profondo sia il rapporto tra questi due fratelli. La storia, essendo narrata dal POV di Callisto, forse può far credere all'inizio che si tratti di un legame a senso unico da parte sua, ma fidatevi, non è così, e quello che ha detto Emma in questo capitolo già dovrebbe farvelo intuire.

Jesse ama Callisto tanto quanto Callisto ama Jesse.

E vedrete quanto a fondo è radicato quest'amore, quanto questi due fratelli saranno disposti a fare, solo per salvarsi.

Ma bando al romanticismo fraterno, e pensiamo al romanticismo vero.

Ruben + Callisto + Camera d'albergo tutta per loro = ???????

Lo scopriremo presto.

Un bacio!

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