Scegliere te

Una volta ritornati in stanza, Jesse mi confessò di essere particolarmente stanco e così mi affrettai ad aiutarlo a cambiarsi nella vestaglia dell'ospedale. Si tolse la parrucca e si andò a stendere sul suo letto con un sospiro, mentre io iniziavo a struccargli il viso con un po' di ovatta e latte detergente.

«È spaventoso quello che può fare un po' di trucco» commentò quando finii l'opera. «Per qualche ora ho potuto credere di essere di nuovo un ragazzo in salute.»

Gli sorrisi e dal cassetto del comodino tirai fuori uno dei suoi cappelli fatti all'uncinetto, di un giallo canarino. Glielo misi in testa con delicatezza e lui sogghignò soddisfatto, giocherellando col pompon bianco sulla punta. Aveva gli occhi gonfi per la fatica e un sorriso rilassato, segno della sua evidente spossatezza.

Calmo così com'era, mi sembrò l'occasione perfetta per parlargli dei nostri genitori. Mi misi a sedere al suo fianco e intrecciai la mia mano alla sua, Jesse chiuse gli occhi con pacatezza, il suo petto iniziò ad alzarsi e abbassarsi con un ritmo lento e delineato.

«Jesse» lo chiamai.

«Mmm-mmm?»

«C'è una cosa di cui vorrei parlarti.»

Forse i farmaci che prendeva ogni giorno avevano iniziato a dare il loro effetto, perché mi sembrò ebbro di serenità. Schiuse appena lo sguardo per incontrare il mio.

«Non sarà di nuovo Mr Bad Boy» mormorò con voce granulosa, gli sorrisi.

«No, si tratta di mamma e papà.»

Le sue labbra, prima curvate in alto con dolcezza, si tagliarono in una smorfia di disgusto e rabbia che raramente gli vedevo fare. «Cosa vogliono quei bastardi, ora?»

C'era puro inverno nella sua voce, un gelo così forte da ghiacciarmi il sangue nelle vene. Tutta la sua ebbrezza farmacologica sembrava esser svanita, al suo posto la collera aveva preso il sopravvento, deturpandogli ogni linea del viso.

«Jesse, perché li stai evitando?»

«Sono andati a lamentarsi da te?» domandò.

«Mi hanno detto» risposi, «che quando ti vengono a trovare ogni volta tu fingi di dormire.»

Mi scrutò per qualche secondo, quasi stesse cercando di carpire la verità che si celava dietro a quella che gli stavo mostrando in quel momento. La sua mano strinse con molta più forza la mia, ne sentii il palmo sudare copiosamente, le ossa delle dita sporgere dalla pelle per la violenza della stretta. «Callisto» pronunciò il mio nome tutto d'un fiato, il volto pallido, lo sguardo duro, «ti hanno fatto qualcosa?»

Sorrisi. «Erano solo un po' arrabbiati, ma non hanno fatto nulla, te lo assicuro.»

«Sarebbero dovuti venire da me se avevano un problema su come li trattavo, perché sono andati da te?»

«Perché sanno che con me parli.»

Le sue narici si dilatarono, inspirarono a fondo. «Callisto» ripeté, «sei sicura che non ti abbiano fatto niente?»

Risi, gli carezzai il volto. «Che vuoi che facciano, loro. Lo sai che sono bravi solo con le parole. Erano molto arrabbiati e feriti, tutto qua.»

Jesse mi guardò in faccia e Dio solo sa quanta violenza dovetti usare per trattenermi dal raccontargli tutto, vomitare fuori la realtà degli ultimi sette anni, le torture che avevo subito e quelle che mi aspettavano una volta che lui fosse morto. Dio solo sa quanto avrei voluto solo crollare di fronte ai suoi occhi, perdere ogni mio petalo e appassire tra le sue braccia, donare di nuovo calore al gelo che le ferite mi avevano lasciato. Dio solo sa quanto doloroso e sanguinolento fu il modo in cui mi costrinsi a essere felice davanti a lui, a non versare una sola lacrima, ad essere la sorella di sempre, l'unica che potesse accompagnarlo nel suo percorso verso la morte.

«Io non li perdonerò mai, Callisto» pronunciò alla fine, con una solennità nella voce che mi lasciò esterrefatta dentro. «Mai.»

Avrei voluto soltanto urlare con tutta la forza che avevo in gola, piangere fino a spegnermi gli occhi, ringraziarlo per difendermi così anche quando era lui a soffrire di più tra noi due. Invece, gli strinsi la mano, ne carezzai le dita pallide e magre.

«Loro ti amano davvero, Jesse» gli dissi, «forse non riescono a voler bene a me, ma a te sì, ti amano con tutto il cuore.»

Jesse sbuffò, reclinò la testa sul cuscino e guardò il soffitto. «Quello non è amore» rispose. «Io sono solo il loro grande desiderio, quello che tra poco gli verrà portato via e diverrà irrealizzabile. Per questo sono così ossessionati da me e dalla nuova terapia, non vogliono accettare il fatto che ormai non c'è più nulla da fare per salvarmi.»

«Anche così, però, ti vogliono bene. Hanno uno strano modo per dimostrarlo, lo so, però...»

«Callisto, non voglio che proprio tu li difenda.» Aggrottò la fronte. «So che sono loro che ti costringono a farlo, non c'è bisogno che ti sforzi così.»

Ammutolii, non potendo più controbattere mi difesi con un semplice sorriso.

«Mi giuri che non ti hanno fatto niente?»

«Te lo giuro» promisi a occhi schiusi, e per qualche istante Jesse rimase in silenzio a guardarmi.

Alla fine, sospirò. «Va bene» disse, «tornerò a parlarci, ma tu devi promettermi di stare alla larga da loro il più possibile.»

«Jesse...»

«Se vengono a trovarti, scappa dalla finestra della stanza, anche con Mr Bad Boy se preferisci. Se li incroci qua in clinica, cambia direzione. Se ti chiedono di incontrarli a casa, tu di' loro che hai deciso di passare la notte da me sulla brandina.»

«Jesse, non ti devi preoccupare» lo rassicurai, «so come cavarmela con loro.»

«Tu sei buona» replicò lui. «Sei sempre stata troppo buona. Ma io non sono così, Callisto, io non tollererò più che ti guardino in quel modo.»

La sua presa di posizione mi lasciò senza fiato, mi scaldò il cuore per la forza e volontà che stava mettendo per difendermi così tanto. Mi domandai come una creatura così dolce e gentile come lui potesse essere figlia di due crudeli e spietati boia come i nostri genitori.

Sollevai la sua mano e ne baciai le nocche bianche, la sua espressione si fece più gentile. «Callisto, posso chiederti un favore?»

«Qualunque cosa.»

«Non è un desiderio, è più che altro una richiesta che non sei costretta a mantenere.» Mi sorrise con sincerità, gli occhi verdi tiepidi e magnanimi. «Nei miei ultimi istanti, vorrei che ci fossi solo tu al mio fianco.»

Lo guardai sorpresa, il suo sorriso si allargò.

«Lo so che ti sto chiedendo tanto. Vedere davanti ai propri occhi il tuo fratello che muore... ma in quel momento vorrei avere qualcuno che amo con tutto il cuore, piuttosto che qualche infermiere o dottore sconosciuto.»

Sentii le mie labbra tremare, ma le forzai a restar ferme e curvate in alto. «Va bene» bisbigliai. «Starò con te fino alla fine.»

Lui non lo sapeva, non avrebbe mai dovuto saperlo, ma io avevo già deciso di farlo prima ancora che me lo chiedesse.

Avevo deciso di farlo dal giorno in cui era arrivata la diagnosi.

Anche se farlo mi avrebbe uccisa, anche se sentirlo morire tra le mie braccia sarebbe diventato un incubo che mi avrebbe perseguitato per il resto dei miei giorni, anche se sapevo che il dolore che avrei provato nel vedere la vita sparire dai suoi occhi mi avrebbe ustionata dentro, in un modo per cui non c'era alcuna medicina.

Era la strada che avevo deciso di intraprendere da che ero bambina, la stessa che ogni giorno mi riportava a lui, al capezzale del suo letto.

Avrei potuto voltarmi, ora, guardare dall'altra parte, aspettare l'arrivo dei miei diciott'anni e poi fuggire via, lontano, in un luogo in cui la sofferenza non sarebbe stata nient'altro che un ricordo vago e fumoso, un miraggio visto tempo addietro, in cui non ci sarebbero stati mamma e papà pronti a torturarmi e finalmente avrei potuto essere svincolata dalle mie bugie e diventare me stessa.

Non glielo dissi, ma lo pensai, lo pensai così intensamente che la mia voce mi rimbombò dentro, fino alla cassa toracica.

Tra la prigionia al tuo fianco e la libertà senza di te, sceglierei te.

Sempre.


*

La verità era che io sapevo bene che quello che facevano i miei genitori era sbagliato.

Quando ancora andavo a scuola, ci avevano spiegato cos'erano gli abusi in famiglia, ci avevano spronato a parlarne con gli insegnanti se qualcuno di noi li stesse subendo.

L'avevo capito, io, che era in quel caso che rientravano i miei genitori. Non mi ci era voluto troppo per comprenderlo.

Ma c'era un pensiero che mi preoccupava, uno su cui non potevo confidarmi con nessuno.

Se li avessi denunciati, sarebbero finiti in prigione, e io sarei stata allontanata da loro, forse in una famiglia affidataria o addirittura un'altra città.

In fondo, i minorenni vittime di abusi venivano subito portati via e mandati il più lontano possibile dal loro nucleo familiare, proprio per garantire la loro sicurezza fisica e psicologica, anche da bambina ne ero più che consapevole.

E allora cosa ne sarebbe stato di Jesse?

Chi gli avrebbe pagato tutte le spese ingenti per le sue terapie? Per le cliniche? Per i farmaci? Chi si sarebbe preso cura di lui in nostra assenza? Mamma e papà non potevano esser considerati umani, ma per quel che riguardava i soldi non badavano a spese, se si trattava della salute del loro primogenito. Lo sapevo bene.

Forse, una volta condannati, quel denaro sarebbe finito in mano mia e di Jesse, ma quanto tempo ci sarebbe voluto? Mesi, magari anni. E come avrebbe fatto mio fratello a tirare avanti, nel mentre aspettavamo la sentenza?

E se le autorità avessero pensato che anche lui era un complice? Che avesse sempre saputo tutto quanto e avesse voluto fingere di non vedere? E se interrogandolo lo stress e l'orrore di quella scoperta lo avessero portato ad avere una crisi tale da ucciderlo prima ancora del previsto?

Non avevo la certezza assoluta che mi avrebbero separata da mio fratello, una volta denunciati i nostri genitori, ma ero consapevole che era una possibilità fin troppo elevata. E se anche ci fosse stato soltanto lo 0,0001% di probabilita che ci allontanassero, per me era comunque troppo, un rischio che mi rifiutavo di correre.

Il pensiero che il mio unico cuore avrebbe passato quel poco di vita che gli rimaneva da solo, circondato unicamente da medici e infermieri, senza di me, sgonfiava qualsiasi desiderio covassi di rivelare a qualcuno il mio segreto.

Sapevo che denunciare i miei genitori era la cosa giusta da fare, lo sapevo, lo sapevo bene.

Ma ogni giorno sceglievo comunque di fare la cosa sbagliata, solo per poter restare ancora al fianco di mio fratello.

Sceglievo lui sopra ogni cosa.

Sceglievo lui sopra la mia salvezza.

E non importava cosa dicevano mamma e papà, non importava quante volte mi rinfacciassero che in realtà io per Jesse non ero niente, che mi voleva al suo fianco solo per compassione.

Io sapevo che Jesse mi amava veramente, che mi amava come nessuno avrebbe mai fatto né adesso né in futuro.

E che quello era un amore a cui non avrei mai potuto rinunciare, neanche in un milione di anni. Che per quell'amore ero disposta a qualsiasi cosa, anche a venir torturata ogni giorno, odiata ogni giorno, insultata ogni giorno dalle stesse persone che mi avevano messa al mondo.

Perché io e Jesse eravamo fratelli, e anche di più.

Eravamo sempre stati insieme e insieme eravamo uno.

Un unico io.

E proprio per questo sapevo anche che quando lui se ne sarebbe andato ogni pezzo di me, tutto di me, sarebbe crollato a sua volta.

Non avrei più avuto una luce a guidarmi, un legame a cui vincolarmi in quel mondo.

Sarei stata sola.

Mezza e figlia unica.

Per sempre.

Nell'oscurità di un armadio in cui mai più il mio amato fratello mi avrebbe trovata.



*

Condividevo con Eve la lezione di Storia, e quel mattino il professor Ruford ci chiese di dividerci in gruppi da tre per portare avanti un progetto su un personaggio storico fondamentale che aveva cambiato il mondo.

Io ed Eve ci unimmo subito, il problema fu tuttavia trovare un terzo membro disposto a stare con noi.

Non c'era molto da fare, anche in quella classe avevamo entrambe le nostre reputazioni che allontanavano tutti. Eve quella della puttana della scuola, io quella della ragazza col ciclo che frequentava la gente del Dump, le prostitute e aveva la strana capacità di prendere a schiaffi le persone con lattine di Coca Cola. Gli altri studenti non ci degnarono di uno sguardo e iniziarono subito a raggrupparsi tra di loro, evitandoci come la peste.

«Prevedibile» commentò Eve con un sospiro, ma tutto sommato non mi sembrò così dispiaciuta, forse perché era con me.

Con la coda dell'occhio, notai uno dei pochi ragazzi rimasti ancora soli. Era al banco in fondo alla stanza, all'angolo, ed era così minuto e mingherlino che sembrava scomparire con la vernice bianca delle pareti. Aveva cirri rossi per capelli e lentiggini su tutto il viso, un paio di occhiali giganti come fondi di bottiglia e le orecchie un po' a sventola. Sembrava tutto fuorché interessato a quel progetto, preso com'era a scribacchiare qualcosa sul suo quaderno.

Diedi una gomitata a Eve e lo indicai con gli occhi. Lei lo osservò a sua volta, sorpresa.

«È James» disse.

«James?»

«James McKenzy, frequenta con me il corso facoltativo di disegno. È un vero portento. Però non ho mai parlato con lui. Anzi, credo che mi eviti proprio.»

Mi strinsi nelle spalle. Provare non sarebbe costato nulla.

Mi avvicinai al suo banco a passo rapido, spaventata dall'idea che qualcun altro provasse a chiedergli di unirsi al suo gruppo, e quando mi ritrovai di fronte a lui, James continuò a disegnare, senza accorgersi minimamente di me.

«Ciao» lo salutai.

Finalmente si scostò dal banco e sollevò il capo in alto. Richiuse subito il quaderno su cui stava scribacchiando e mi guardò con aria confusa. Sfoderai il mio migliore dei sorrisi.

«Ti andrebbe di far gruppo con me ed Eve?» gli domandai, indicando la mia amica alle mie spalle.

Lui arrossì furiosamente, iniziò a scuotere la testa.

«Hai già un gruppo con cui stare?»

Distolse lo sguardo dal mio. Da come si muoveva col corpo e il tic che aveva alla gamba, intuii fosse nervoso. Forse non era abituato a parlare con una ragazza, supposi, o forse non voleva che anche la sua di reputazione venisse contaminata.

«Puoi scegliere tu quale figura storica portare» aggiunsi. Avrei tirato fuori ogni mezzo per convincerlo a unirsi a noi.

Lui fece per alzarsi, forse per scappare via, ma fu troppo brusco nel farlo e finì per far cadere tutto quello che si trovava sul suo banco a terra. Lo sentii squittire per la sorpresa, mentre mi chinavo a raccogliere il materiale.

Tra le cose che gli erano cadute c'era anche il quaderno su cui stava disegnando poco prima. Era aperto a metà, ed era un quaderno da disegno, dalle pagine bianche sopra cui si trovava...

Un momento.

Quella non era Eve?

Era proprio lei, il suo ritratto a matita, così realistico che mi fece dubitare dei miei stessi occhi. Prima che potessi fermarmi per ammirarlo, però, James si avventò sul quaderno e lo strappò via dalle mie mani, la faccia infuocata, le labbra tremanti.

«Tu-tu-tu no-non p-p-puoi guar-guardare così la ro-ro-roba degli a-a-altri» mi disse con furia, e finalmente capii perché fino a quel momento non aveva mai parlato. Si vergognava della sua balbuzia.

Non essendo una fan affiatata dei romanzi trash come mio fratello, mi ci volle qualche secondo per collegare i punti e realizzare quello che stava succedendo. Inevitabilmente, sentii un sorriso sornione dipingermisi sulle labbra e forse James lo interpretò come un gesto di minaccia, perché le sue spalle sussultarono e la sua espressione si fece preoccupata.

Mi rialzai in piedi e lo guardai entusiasta.

«Cosa succede?» Eve ci raggiunse per perplesse, e immediatamente il volto di James si fece più pallido e malconcio.

«Lo stavo invitando a far gruppo con noi» le spiegai, «credo che sia ancora da solo.»

«Davvero?» cinguettò lei, ma non appena incrociò i suoi occhi, subito James provvedé a discostarli e riversarli a terra, sulla punta delle scarpe, con il quaderno stretto ancora tra le mani. «Ci faresti un grande favore, James.»

Forse perché lo aveva chiamato per nome, forse perché era la prima volta che aveva una conversazione con lei, le orecchie di James si fecero scarlatte. A vederlo era davvero adorabile, così timido e impacciato, mi diede un profondo senso di tenerezza e il dovere morale di proteggerlo a tutti i costi.

«No-Non sono b-bra-bravo in S-storia» balbettò con voce minuta.

«Non ti preoccupare, non puntiamo a chissà quali voti» replicò Eve.

«E poi non puoi rimanere da solo per fare il progetto» aggiunsi.

Era evidente che non sapeva proprio come rifiutare, a vederlo risultava chiaro che James era una di quelle persone così educate da non saper mai dire di no. Fu crudele da parte mia, ma decisi di approfittarne e premere sulla cotta evidente che aveva per Eve. «Potresti aiutarci facendo dei disegni sul personaggio» proposi, «ho visto quanto sei bravo.»

Eve sprizzò di gioia. «Oh sì, sarebbe fantastico! Tu sei un vero genio del disegno! Uscirebbe un capolavoro!»

Sentire quei complimenti da parte della ragazza per cui aveva una profonda ammirazione fu il colpo fatale per James, ormai rosso fino al collo, che strinse con forza spasmodica il quaderno e annuì con lo sguardo ancora rivolto ai suoi piedi.

Io ed Eve ci battemmo le mani, felici e, per ringraziarlo, suggerii: «Perché non mangi con noi oggi a pranzo.» Senza farmi vedere da Eve, gli mostrai il pollice in su: «Ci divertiremo un mondo.»

*

In realtà avevo un debole per James.

Così impacciato e timido, così imbarazzato e indeciso, mi induceva nella coscienza un senso di maternità e protezione che non sapevo di avere. A vederlo era evidente che aveva molte difficoltà a socializzare e che considerava la propria balbuzie un motivo di vergogna e derisione. Cercava di parlare il meno possibile, quando era costretto a farlo riduceva al massimo il numero delle parole e tentava di usare sempre e solo le monosillabiche. Quando era a Eve che doveva rivolgersi, poi, balbettava ancora più forte.

Era strano vederli insieme, una ragazza così bella e forte accanto a un ragazzo timido e impacciato, ma Eve non sembrava farci caso, gli parlava normalmente e sorrideva come a chiunque. Era particolarmente interessata al suo talento per il disegno, e cercava di convincerlo a parlargli un po' di più sulle tecniche e i materiali che lui utilizzava.

Non sapevo dire se James fosse felice di quella situazione o se al contrario fosse completamente terrorizzato, ma vederlo chiacchierare con la mia amica, seppur difficoltosamente, mi intenerì il cuore.

In mensa, seduti ai tavoli, Eve si mise al fianco di James che, di tutta risposta, si irrigidì come una statua. Io, davanti a loro, forse crudelmente, mi godevo quello spettacolo.

«Che ne dite se portiamo Alessandro Magno come personaggio?» suggerì Eve mentre giocava con la forchetta con gli spaghetti.

Inghiottii un pezzo della mia cotoletta e risposi: «Non è un po' scontato?»

«Tu chi suggerisci?»

Ci riflettei. «Gesù?»

James tossì per camuffare un colpo di tosse, Eve mi fissò. «Sei seria?»

«Beh, è un personaggio storico importante» mi difesi.

«Idea bocciata, diverrebbe un progetto religioso. Tu, James, cosa proponi?»

Lui sussultò appena, pallido in viso sotto lo sguardo acuto di Eve, e dopo qualche minuto di silenzio propose: «O-Omero.»

«Omero?» ripeté la mia amica. «Geniale. Non si sa se è esistito, ma ha comunque fatto la storia.»

«Mi piace» concordai io. «Potremmo citare tanti elementi, e poi dubito che verrà proposto da altri gruppi.»

Eve annuì, James sorrise a malapena, soddisfatto di esser stato d'aiuto. Rivolsi il mio sguardo verso la sala mensa, dove altri studenti cercavano tavoli liberi dove sedersi. Il mio sguardo venne catturato subito dal più alto di loro, inconfondibile per le sue magliette a maniche lunghe in piena estate e per essere evitato da tutti gli altri ragazzi come se avesse un campo magnetico attorno che allontanava tutti.

Ruben guardava con occhi truci i vari banchi, un vassoio tra le mani, i capelli castani arruffati. Era la prima volta che lo vedevo in mensa, di solito evitava sempre quei posti. Eppure, nel vederlo, sentii il sorriso affiorare di sua spontanea volontà sulle mie labbra.

«Callisto?» mi chiamò Eve.

«Eccomi» mi costrinsi a tornare a guardarla.

«Stavo suggerendo di incontrarci oggi pomeriggio...»

Con gli occhi tornai a Ruben, ancora fermo sul posto. Dal suo sguardo crucciato, era evidente che sperava di trovare un tavolo completamente vuoto. Mi domandai se da bravo bad boy avrebbe costretto altri ragazzi a sgomberare il loro tavolo. Se lo avesse fatto, volevo a tutti i costi assistere alla scena.

Anche gli altri studenti sembravano domandarsi la stessa cosa, gli giravano alla larga stando bene attenti a non incrociare il suo sguardo. Da uno dei tavoli accanto, si sollevò un ragazzo. Era seduto fino a quel momento accanto alla studentessa che avevo preso a schiaffi con la lattina, e si avvicinò a Ruben con un sorrisetto beffardo in viso.

«Callisto, che cosa stai-»

L'intera sala mensa crollò in un silenzio teso quando il ragazzo mise la propria faccia davanti a quella di Ruben.

«Cosa c'è, amico?» lo sfotté con voce canzonante. «Non hai nessuno con cui sederti a mangiare?»

Mi domandai se in quella scuola fossero tutti così stupidi da voler spontaneamente pestare la coda a una tigre. Da parte sua, però, Ruben riuscì a mantenere un degno controllo: aveva un'espressione indifferente, non lo guardava neanche, sembrava osservare qualcosa di invisibile lontano da tutti.

Mi irrigidii. Se avesse reagito, stavolta, anche la scuola se ne sarebbe accorta. Gli addetti alla mensa dietro al bancone avrebbero subito chiamato gli insegnanti.

«Sei rimasto solo soletto?»

Mi alzai in piedi, non feci nemmeno in tempo a sentire Eve chiamarmi che corsi da Ruben, allacciai le mie mani attorno al suo braccio, e guardai il ragazzo con schiettezza: «Lui è con me.»

Persino Ruben, di solito mono espressivo col suo classico sguardo crucciato, mostrò per la prima volta sorpresa negli occhi.

«Tu» ringhiò il giovane, «hai picchiato la mia ragazza con una lattina.»

«E tu hai un pezzo d'insalata tra i denti» risposi affabile con un sorriso. Subito lui richiuse la bocca e iniziò a controllare che non stessi mentendo, ne approfittai per tirare Ruben per il braccio.

«Vieni a sederti con noi» gli dissi, e subito il suo volto si contorse in un'espressione che voleva dire "Spero tu stia scherzando", ma non mi arresi, mi sollevai sulle punte dei piedi per sussurrargli all'orecchio: «Non puoi picchiarlo qui, chiamerebbero subito gli insegnanti, se ti siedi con noi forse ti lascerà in pace.»

«I tipi come lui non si arrendono mai fino a quando non gli dai una lezione» rispose aspro.

Gonfiai il petto. «Va bene» dichiarai, «allora gli darò una lezione. Ehi, tu» chiamai il ragazzo davanti a noi, ancora intento a rimuoversi il pezzo d'insalata tra i denti e mi mossi verso di lui a passo svelto, «come ti chiami?»

Mi lanciò un'occhiataccia. «Io sono Mason. Adesso ti interessa il mio nome, fidanzatina?»

«Cosa vuoi fare con Ruben?»

«Insegnargli il suo posto» dichiarò con fare sicuro. «E lo insegnerò anche a te.»

«In che modo vuoi farlo?» gli chiesi sorridente. «Ci prenderai a pugni? A schiaffi? Ci rovescerai i piatti addosso? Oppure diffonderai in giro pettegolezzi falsi su di noi?»

Le sue labbra si squarciarono in alto. «E se ti dicessi tutte le cose? Con gente come voi, non sono mai abbastanza.»

«No, non lo sono, però lo sono per la preside» gli risposi e, tirando la mano fuori dalla tasca dei miei pantaloni, gli mostrai il mio telefono, acceso sulla schermata di registrazione ancora in corso. Gli occhi di Mason si spalancarono in un istante e l'attimo dopo la sua mano si avventò sul mio telefono, ma fu bloccata immediatamente da quella di Ruben, che gli afferrò il braccio e glielo contorse fino a quando lui non si ritrovò inginocchiato a terra.

Sorrisi di nuovo.

«Comunque sarebbe stato inutile» gli spiegai, «avevo già salvato tutto sul mio Cloud.»

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