Sbagliare - Capitolo Extra

Nota autrice

Questo capitolo extra servirà per separare il precedente arco narrativo da quello che ci sarà in futuro. 

Inoltre, è l'ultimo capitolo già completato che ho a disposizione, perciò godetevelo bene, perché non ho idea di quanto ci impiegherò per finire di scrivere il prossimo e pubblicarlo (è già in fase di produzione, ma ahimè, come sapete bene, la mia capacità di procreazione di capitoli cambia a seconda di tanti fattori che spesso - anzi, no, quasi sempre - non posso controllare.)

È un capitolo un po' particolare per tanti motivi: 

1) Il punto di vista è quello di un bambino di cinque anni e mezzo/sei, quindi, come potete immaginare, sarà molto spesso sgrammaticato, ripetitivo in tante occasioni, e mostrerà un flusso di pensieri molto semplice e intuitivo. Non ci saranno tante descrizioni (quale bambino mai si metterebbe a descrivere nel dettaglio), le azioni verranno narrate in maniera diretta e senza troppi fronzoli, e men che meno saranno presenti metafore (un bambino che fa metafore la vedo molto dura, anche per me.)

2) Questo capitolo non aggiunge niente alla trama della storia, nulla di nulla, ma dà una prospettiva diversa su molti suoi aspetti, approfondisce tante cose che nei precedenti capitoli sono state spiegate solo in parte o accennate soltanto. Potete saltarlo, se volete, ma confesso che un po' mi dispiacerebbe, perché secondo me - modestie a parte - merita davvero. (E se lo dico io, muffins, la scrittrice con meno autostima del mondo, quella che ad ogni frase che scrive vorrebbe lanciare il pc dalla finestra per poi lanciarsi a sua volta, È TANTO.)

3) Non sarà L'UNICO capitolo extra che metterò in questa storia. Come ho detto, si tratta di capitoli assolutamente inutili ai fini della trama, ma per me sono davvero tanto belli da scrivere e da leggere. Perché, come detto prima, getterà uno sguardo su situazioni già presentate nella trama principale, ma da una prospettiva diversa, ed è molto interessante, anche solo da un punto di vista puramente emotivo.

4) Il protagonista di questa storia è uno dei vostri preferiti, se non, addirittura, IL preferito in assoluto. Dai che l'avete già capito anche voi chi è, non appena, nel punto 1, ho scritto "bambino di cinque anni e mezzo/sei". So che non vedete l'ora di rivederlo e rincontrarlo, su!

5) Questo capitolo è il secondo che abbia mai scritto da quando mi è venuta in mente la storia di Apologia di Callisto. Il primo, come ormai saprete, è proprio il video che Jesse fa in difesa di sua sorella. Non mi so ancora spiegare perché. Non aveva fini per la trama, era completamente inutile come capitolo da un punto di vista puramente produttivo, ma non ho saputo trattenermi. Non ho voluto trattenermi. Mi ha fatto tanto emozionare, e spero che farà emozionare anche voi.

6) Presenterà scene inedite ma anche scene che sono state solo riassunte brevemente nei capitoli precedenti da altri personaggi. In questo caso, però, verranno approfondite e viste nel dettaglio.

7) Volevo farvi soffrire. Sì, scusate, mi disp. Ho sofferto io nello scriverlo, quindi ora dovete soffrire voi nel leggerlo. Mi pare un giusto prezzo da pagare, no?

Beh, buona lettura! Un bacione, muffins!

*scappa di nuovo via dalle forche e le torce*

*












«Jesse è il nostro miracolo.»

Lo dicono sempre, mamma e papà.

Lo dicono a me e lo dicono agli altri.

Io non so cos'è un miracolo, non l'ho mai capito.

So che per questo motivo mi lasciano fare tutto.

Non si arrabbiano mai, non mi rimproverano mai. Mi danno sempre baci e carezze, mi fanno sempre un sacco di complimenti.

Se dico di volere una bicicletta nuova, me la comprano, la più bella e costosa di tutte.

Se dico di voler andare al ristorante, anche se la cena è già pronta, andiamo al ristorante.

Se mi arrabbio e rompo tutti i miei giochi, me ne comprano subito degli altri.

Se litigo con qualcuno, mi difendono sempre, non chiedono mai perché.

«Jesse è il nostro miracolo.»

Lo dicono sempre, ma io non so cos'è un miracolo.

Da come lo dicono, ho capito che è una sorta di regalo che volevano tanto.

Sono andato a cercare quella parola sul dizionario, ma non ci ho capito granché. Diceva che era una roba soprannaturale, ma non sapevo cos'è una roba "soprannaturale".

Così ho cercato anche la parola "soprannaturale" sul dizionario, e ci ho capito ancor meno.

«Jesse è il nostro miracolo.»

Lo dicono sempre.

Ad ogni cosa che faccio.

L'hanno detto quando ho imparato a leggere da solo e l'hanno detto quando la maestra li ha informati che avevo morso il braccio di un mio compagno di classe durante una lite.

Hanno detto: «Lo avrà provocato, ha fatto bene.»

E all'inizio ne ero contento, ma poi ho visto gli occhi della maestra, e mi è sembrato strano. Mi fissava con una faccia così triste, come se non mi hanno difeso, in realtà, come se mi hanno solo fatto del male.

Non riesco a togliermi l'immagine di quella sua faccia triste dalla testa. Come quella della mamma del bambino che ho fatto cadere al parco giochi. Non riesco proprio a non pensarci. Sento che qualcosa non va, ma non capisco cosa. Così ho provato a chiedere ai miei compagni di classe, gli altri bambini.

Si lamentano sempre dei genitori.

Dicono che ci litigano sempre.

Che li rimproverano ogni volta.

Io non ho capito, all'inizio. Sono andato da uno di loro. Si chiama Paul. Giochiamo spesso alle macchinine.

Gli ho chiesto: «In che modo litigate?»

E lui ha risposto: «Tipo quando ho disegnato coi pennarelli sul muro del salone. Si sono arrabbiati tantissimo.»

Non ho capito. «Perché?»

Paul mi ha guardato confuso. «Beh, perché ho sporcato il muro.»

Ho sbattuto le ciglia. «Quindi? Basta che pagano qualcuno per pulirlo.»

A quel punto mi ha guardato e nemmeno lui ha capito. «Ma mica è per quello. È perché è una cosa sbagliata. Quando noi bambini facciamo cose sbagliate, i genitori si arrabbiano e te lo dicono. È quello che mi ha detto mamma.»

Ho continuato a non capire. «Tu fai cose sbagliate?»

«Certo» ha risposto. «Tutti fanno cose sbagliate. Non solo noi bambini. Anche gli adulti, sai? Papà me lo dice sempre.»

"Sbagliamo tutti, bambino, l'importante è chiedere perdono."

Ho ripensato a quella mamma al parco giochi. Ai suoi occhi mentre rimproverava il figlio. La faccia arrabbiata. La mia mamma non mi ha mai guardato così, mi sorride sempre. Anche papà mi sorride sempre. E mi dicono sempre che tutto quello che faccio è un miracolo. Mi dicono sempre che tutto quello che faccio è perfetto. Dicono che è perché sono loro figlio. Che è perché farò grandi cose. Renderò ancora più famosa la loro azienda. È il mio destino, dicono. È il motivo per cui sono nato. Il motivo per cui dicono: «Jesse è il nostro miracolo.»

Prima mi piaceva, quando lo dicevano, ma ora non più così tanto.

Qualcosa non mi torna. Non lo so cosa, ma qualcosa non mi torna. Da quando ho incontrato quella mamma al parco giochi, non riesco a non pensarci. Non riesco più a essere felice quando la mamma mi sorride e il papà mi sorride. Non riesco più a essere felice quando dicono: «Jesse è il nostro miracolo.»

E forse non lo sono mai stato.

Qualcosa non mi torna.

Così vado dalla maestra, durante la ricreazione. Lei è una maestra bella, con lunghi capelli castani e occhi verdi, ma non come i miei. I suoi sono più scuri. È seduta dietro la sua cattedra, sta leggendo un libro, mi vede arrivare, mi sorride: «Cosa c'è, Jesse?»

Mi fermo alla sua destra, in piedi e sicuro, la guardo e le chiedo ciò che non capisco: «Maestra, perché i genitori si arrabbiano con i figli?»

Lei inarca le sopracciglia, sembra sorpresa, ma sorride. Ha un sorriso diverso da quello della mamma, però. Non capisco come, però è diverso. «Perché gli vogliono bene.»

Sono sconvolto, lei lo capisce e ride. «Sì, Jesse» dice. «Perché gli vogliono bene.»

«Ma se si arrabbiano, i bambini soffrono e piangono.»

«Appunto» si solleva dalla sua sedia e si inginocchia davanti a me, mi mette le mani sulle spalle. «Se un figlio fa qualcosa di sbagliato, il genitore si arrabbia e glielo dice. Il bambino all'inizio soffre, sì, ma è proprio con quel dolore che capisce di aver sbagliato e di non doverlo rifare.»

«Non possono semplicemente non arrabbiarsi?»

Lei scuote la testa. Ha di nuovo uno sguardo triste, ora, lo stesso di quando mamma e papà mi hanno difeso per quel morso. «No, Jesse. Perché se un genitore vuole bene al suo bambino, deve fargli capire dove ha sbagliato.»

«Perché?»

«Perché così, quando sarà grande, potrà affrontare gli altri sbagli che farà nella vita e capire come rimediare.»

«Farà degli sbagli?»

Lei annuisce, mi carezza la testa. «Sì, Jesse. Tutti li fanno. Bambini, adulti e anziani. E se non ti insegnano a riconoscerli e ad affrontarli, soffrirai tanto, più di quanto soffri quando te li fanno notare.»

«Quindi se ti dicono che non sbagli mai, mentono?»

La maestra annuisce.

E io capisco, d'improvviso.

Capisco tutto.

Il volto arrabbiato della mamma di quel bambino al parco giochi, quello che mi ha detto Paul e quello che dice la maestra.

Lo capisco, ora, lo capisco.

C'era qualcosa che non andava, l'ho sempre notato. Gli altri bambini non sono come me. Gli altri genitori non sono come i miei. Loro litigano tanto. Loro discutono tanto. Loro non dicono: «Il mio bambino è il nostro miracolo.»

Loro si arrabbiano con i figli. Gli dicono: "Hai sbagliato!"

Loro vogliono bene ai figli.

Sono mamma e papà che non vogliono bene a me.

Lo capisco, ora, lo capisco.

E capirlo mi fa piangere, mi fa piangere così forte che la maestra si spaventa, tenta di confortarmi, di abbracciarmi, e io piango ancora più forte, singhiozzo, mi aggrappo alle sue spalle. Gli altri bambini in classe ci guardano preoccupati, ma non mi importa.

Loro non sono perfetti. Loro non sono "un miracolo".

Loro sono amati.

Io non lo sarò mai.

*

«Te l'avevo detto! Te l'avevo detto che era tuo!»

La mamma e papà nelle ultime settimane litigano un sacco.

Di solito non lo fanno mai, quindi sono molto sorpreso. Di solito si baciano, si vestono bene, vanno a fare shopping, cercano sempre di sorridere e farsi vedere felici davanti a tutti e si fanno mille complimenti. Li fanno anche a me, ma ormai non ci casco più, ho capito il loro trucco, ho capito che mentono. Quindi li evito, li ignoro, preferisco starmene per conto mio nella mia stanza, a guardare alla tv il mio cartone animato preferito: "Viva l'antichità!".

Parla sempre di vecchie storie di un posto che si chiama "Antica Grecia". Le storie sono interessanti, però la mia parte preferita è la fine di ogni episodio, quando ti dicono il significato dei nomi dei personaggi – sono nomi stranissimi, davvero strani, e per questo mi piacciono un sacco – e io me li segno tutti nel mio diario, mi diverte un mondo.

Il nome di oggi è "Callisto".

«Come avrei potuto crederti, Jennifer? Nessuna rimane incinta con la vasectomia!»

Callisto significa "bellissima" o "la più bella". Lo scrivo sul diario.

«Mi hai umiliata davanti a tutti! Hai richiesto un test di paternità e tutti lo sono venuti a sapere!»

La mamma urla davvero tanto, mi dà fastidio. Anche se ho chiuso la porta della stanza, riesco a sentirli comunque.

«Cosa ti aspettavi facessi, Jennifer? Che ti credessi? Sul serio? Le possibilità di rimanere incinta con una vasectomia sono praticamente nulle!»

Oggi usano un sacco di paroloni. Dopo cercherò sul dizionario cosa significa "vasectomia". Spero di riuscire a ricordarmi come si pronuncia.

«Te l'avevo detto! Te l'avevo detto che non ti avevo tradito!»

Papà pensa che la mamma lo ha tradito? Nah, non penso lo farebbe. Alla mamma piace un sacco stare con papà. Soprattutto quando è davanti agli altri. Ogni volta che le dicono "Siete la coppia perfetta, Jennifer" mamma sorride tantissimo.

«Tu che avresti creduto al mio posto?»

Uffa, se continuano a litigare così non riesco a sentire il cartone. La prossima puntata inizierà tra poco.

«Lo sai meglio di me quanto ci tengo ai nostri progetti futuri! Sai quanti sacrifici ho fatto per portarli avanti! E sai che odio le gravidanze! Hai idea di quanto ho dovuto faticare per rimettermi in forma dopo la prima? Secondo te avrei davvero rischiato tanto per una scappatella?»

Dovrò andare a cercare anche la parola "gravidanza", più tardi.

Sbuffo, abbasso il volume del televisore sulla parete davanti a me e mi alzo dal tappeto di Super Mario dove sono seduto. Mi arrampico sul mio letto, per poi affondarci dentro, la testa sul cuscino, a fissare il soffitto bianco decorato da tante stelle fluorescenti.

«Beh, ormai è fatta, Jennifer! E poi, come diavolo hai fatto a non capire di essere incinta fino ad ora?!»

Sbuffo ancora, mi rotolo sul letto. Spero che finiscano presto. Fra poco devo andare a dormire, domani ho scuola.

«Per lo stesso motivo per cui tu hai creduto ti avessi tradito! Perché non credevo fosse possibile rimanere incinta con una vasectomia! Ho pensato che l'assenza di ciclo e la nausea fossero dovuti allo stress del lavoro!»

"Incinta."

Mi ricordo questa parola, mi sembra che una volta la maestra l'ha detta.

Cerco di ricordare. "Incinta."

Sì, la maestra l'ha usata, una volta, quando ci ha spiegato perché l'altra maestra aveva quel pancione tutto strano.

Cos'è che aveva detto?

«Perché là dentro c'è un bambino

Mi metto a sedere sul letto, sorpreso. Sbatto le palpebre.

«Beh, trova una soluzione! È colpa tua che non sei stata attenta!»

Un bambino? Un bambino vero e proprio? Scendo dal letto, corro verso la porta, la apro appena per guardare meglio verso il soggiorno dove mamma e papà stanno litigando.

Mamma è davanti al divano di pelle, è vestita sempre con uno dei suoi abiti super costosi – le piace tanto indossarli – e papà è davanti a lei, ancora con la giacca e la cravatta. Si guardano con tanta rabbia. È la prima volta che li vedo così.

«Quale soluzione? L'ho scoperto troppo tardi, Carl! Non posso più abortire!»

Fisso la pancia della mamma. Non è grande come quella della maestra. Non sembra "incinta". Però è anche vero che la maestra ci ha detto che all'inizio non si vede. Il bambino è piccolissimo e poi cresce e così si gonfia la pancia.

«Possiamo darlo in adozione!»

Dovrò cercare anche "adozione".

«Stai scherzando, Carl?! Se la gente lo scoprisse, hai idea di come verremmo guardati? Già per colpa di quel cazzo di test di paternità tutti pensano che ti abbia tradita! Se si venisse a sapere che abbiamo dato in adozione quest'errore, la nostra reputazione crollerebbe in un istante! Con che faccia mi presenterei davanti alle mie amiche e ai nostri dipendenti?»

Non capisco. La maestra ha detto che i bambini rendono felici i genitori. E mamma e papà sono felici di me. Quindi perché non sono felici anche di questo nuovo bambino?

«Ed è pure una femmina!» tuona papà. È rosso come un pomodoro. È davvero tanto tanto arrabbiato.

«Beh, Carl, non sono io che decido il sesso!»

Quindi non è un bambino. È una bambina.

Non gioco molto con le femmine. A scuola di solito preferiscono stare per i fatti loro. Sono amico solo con un paio di loro. Ma credo che vogliano essermi amiche perché dicono che sono il più carino. Paul dice che mi invidia tanto per questo.

«Avevamo sempre detto che Jesse sarebbe rimasto figlio unico!» grida papà, le braccia in aria.

Aggrotto la fronte.

«Non è colpa mia, Carl! Ti ricordo che anche io ero d'accordo con te di non dare fratelli a Jesse! Lo vuoi capire o no? È successo e basta! Cosa vuoi che faccia, che mi butti dalle scale nella speranza di provocarmi un aborto?»

Fratelli?

Quindi quella bambina nella pancia della mamma sarà mia sorella?

«Non lo so, Jennifer! Non lo so! Nulla sta andando come dovrebbe, da quando hai scoperto di essere incinta! Jesse ci evita pure!»

«Non lo so perché lo fa, ok!? Ho provato a parlargli in ogni modo, gli ho comprato tutti i suoi giocattoli preferiti! Non mi vuole parlare, Carl! Non mi dice nulla!»

«Avrà capito che sei incinta e sarà geloso!»

Forse mamma e papà non solo mentono.

Sono anche stupidi.

Neanche sapevo della bambina, fino ad adesso. Non li evito per questo. Li evito perché mentono. E quando mentono io sto sempre male. Però, se glielo dico, negano. Continuano a dire che mi vogliono bene e che sono un miracolo. Continuano a dire che io sono nato per far diventare grande la loro azienda. L'hanno chiamato "il mio destino". Sono andato a cercare il significato di "destino" e non ci ho capito molto, ma non mi è piaciuto comunque.

E io sto male, sto male quando mi dicono tutte quelle cose, perché poi vado a scuola e vedo i bambini e i loro genitori che li amano e soffro perché so che nessuno mi ama così.

Che sarò sempre solo.

Richiudo la porta e torno dentro la mia stanza. Mi butto sul mio letto, mi infilo sotto le lenzuola di Spiderman, torno a fissare il soffitto. Le stelline non sono così belle, oggi.

Sospiro.

Una sorella, eh?

Chissà che cos'è.

*

«Ehi, Paul, tu hai una sorella, vero?»

Paul si ferma. Stiamo disegnando per l'ora di arte, abbiamo attaccato i nostri banchi. Il mio foglio è ancora vuoto, non ho proprio idee su che disegnare. Sto giocando con i pastelli e li sto ordinando per colore sopra il tavolo, ma non mi riesce granché.

Paul solleva lo sguardo dal suo foglio, mi guarda da dietro i suoi occhiali rotondi, i ciuffi neri a coprirgli il capo. «Sì» dice. «È più grande di me, però. Ha otto anni.»

«Hmm.» Prendo il pastello rosso, lo rigiro tra le dita. «Anche io avrò una sorella.»

Paul mi guarda sorpreso. «Davvero?»

Annuisco. «C'è una bambina nella pancia della mamma.»

«Wow, Jesse!» esclama.

Faccio il broncio, indeciso, fisso il foglio bianco. «Non ho capito molto bene cos'è una sorella. Per questo chiedo a te. Com'è tua sorella?»

Lui ci riflette su, non sembra molto felice, però. «Non lo so» dice poi. «Litighiamo sempre, tutti i giorni.»

Sussulto.

Mi volto a fissarlo stupito, ma Paul non se ne accorge, ha ripreso a disegnare la sua casetta.

«Perché litigate?»

Prende un pastello rosso e inizia a colorare il tetto. «Mi fa i dispetti» dice. «E io li faccio a lei. E mi dice sempre che la faccio arrabbiare.»

Sento il cuore battere forte, ora, tantissimo, tipo tamburo. Non riesco a sentire altro. «La fai arrabbiare perché con lei sbagli?»

«Non lo so, mamma dice di sì, e quindi mia sorella si arrabbia con me.» Solleva lo sguardo, mi fissa confuso. «Jesse, sei tutto rosso in viso. Sei così felice di avere una sorella?»

Non riesco a trattenermi. Non riesco a fingermi tranquillo.

«Quindi...» La mia voce si fa alta. «Quindi tua sorella ti vuole bene, giusto? Si arrabbia con te, quindi ti vuole bene!»

Aggrotta la fronte. «Sì, penso di sì.»

Inspiro con forza. Non posso calmarmi. Mi sento felice, adesso, ho tanta speranza.

Una sorella.

Una sorella che si arrabbia con me.

Una sorella che mi dice che sbaglio.

Una sorella che mi vuole bene.

Qualcuno che mi vuole bene.

Non come mamma e papà che mi dicono che sono perfetto e un miracolo e li renderò felici e farò il loro lavoro.

Una sorella che mi dice che sbaglio, che si arrabbia e che mi vuole bene.

Qualcuno che mi vuole bene.

Per la prima volta.

«Jesse?» mi chiama Paul. «Sei così felice di avere una sorella?»

«Io...» Mi fermo, respiro con forza.

Ok, calma, calma, calma.

Fisso il mio foglio bianco.

Non è detto che mia sorella sarà così.

Magari sarà come mamma e papà, magari anche lei mi dirà sempre che sono perfetto e mi mentirà e non mi vorrà bene.

Non voglio soffrire, meglio non sperare.

Meglio aspettare.

«Perché non disegni lei?» mi domanda Paul. Lo guardo confuso. «Tua sorella, perché non disegni lei?»

«Ma non so com'è, è ancora dentro la pancia.»

«Disegnala come pensi e vuoi che sarà, allora.»

Fisso ancora il foglio bianco.

Non devo farmi speranze, no, no, no.

Però... posso disegnare la sorella che voglio avere, no? Non succede niente, se lo faccio. Nessuno lo saprà mai.

Mi mordo il labbro, guardo la pagina bianca.

Come voglio mia sorella?

Come penso sarà?

La sorella che voglio... è una sorella che mi vuole bene.

Una sorella che mi dice che sbaglio e che si arrabbia con me.

Che non dice: «Jesse è il mio miracolo.»

Una sorella che se faccio qualcosa di male me lo dice.

Una sorella che ride davvero alle mie battute, non come mamma e papà che neanche le capiscono e ridono solo perché dicono che sono perfetto. Una sorella che ride perché le mie battute le piacciono davvero. E magari ne farà anche lei, così riderò pure io.

Una sorella che mi ama con tutto il suo cuore, anche quando sbaglio tantissimo, anche quando sto male tantissimo.

Una sorella che non mi dice che mi vuole bene perché farò il lavoro di mamma e papà, ma che mi vuole bene solo perché sono io e ama quello che sono io anche se non sono perfetto.

Una sorella così... sì, mi piacerebbe una sorella così.

Una sorella così...

«Come te la immagini, Jesse?»

Afferro il pastello rosa.

Una sorella così sarebbe senz'altro...

«... bellissima

*

Papà e mamma in qualche modo hanno fatto pace, da quando hanno scoperto che c'è una bambina nella pancia della mamma. Ma anche se non litigano più, so che la mamma è ancora molto, molto arrabbiata.

E non con papà.

Ma con la bambina che ha nella pancia.

Adesso che quella pancia è gigante perché dentro c'è quella bambina, mamma piange tanto, si guarda allo specchio e dice cose cattive, cattivissime, a quella bambina. Cerca di non farlo davanti a me, ma io sono troppo curioso – non riesco a smettere di fissarle quella pancia gigante – e la seguo di nascosto. La vedo che odia davvero tanto quella bambina. Una volta l'ho sentita, mentre era in camera, fissava il suo riflesso in lacrime e diceva alla pancia: «Per colpa tua tutti mi danno della puttana.»

Sono andato a cercare sul dizionario la parola "puttana", ma non ho ancora capito cosa significa.

Anche papà non è felice, davvero. Non vuole che parliamo di quella bambina. La prima cosa che mi ha detto, quando mi ha spiegato perché la pancia della mamma ora è così grande, è stata: «Tu non devi preoccuparti di nulla, Jesse. Non prenderà mai il tuo posto. Ricorda, tesoro, tu sei il nostro miracolo. Quella bambina non cambierà questo.»

Non gli ho creduto. Ormai l'ho capito: papà e mamma sono dei bugiardi.

E poi, non mi piace più essere chiamato "miracolo", anche se ancora non so cosa significa.

La mamma, da quando ha quel pancione, dorme un sacco. Davvero tanto, tanto. E si arrabbia anche per questo, quando si risveglia. Dice di nuovo cose cattiva alla bambina.

Io però non riesco a smetterla di guardarla, quando si addormenta.

Continuo a fissarle quel pancione.

È strano, un po' mi fa impressione, però voglio anche continuare a guardarlo. Non lo so, non me lo spiego. Non riesco a smettere di farlo.

La mamma si addormenta sempre in soggiorno, seduta sul divano morbido davanti al televisore a parete. Io la spio ogni volta dalla porta socchiusa.

Non vuole che qualcuno tocchi quel pancione, perché odia ricordare che ce l'ha. Ho pensato di chiederle di farmelo fare e so anche che me lo permetterebbe – mi dicono sempre di sì, a tutto quello che chiedo – però so anche che poi direbbe altre cose cattive a quella bambina, e quindi non voglio. Non lo so perché, ma non mi piace quando dice quelle cose cattive alla bambina.

Un pomeriggio, mentre papà è ancora a lavoro, la mamma si addormenta di nuovo su quel divano.

La spio sempre dalla porta socchiusa della mia stanza. È davvero tanto, tanto addormentata. Non credo si sveglierebbe neanche con una bomba. È seduta sul divano, contro lo schienale, gli occhi chiusi e le labbra appena aperte. Indossa pantaloni neri e una maglia floreale che sembra più una gonna svolazzante. Indossa sempre queste maglie perché vuole cercare di far sembrare il pancione più piccolo, ma non è che le riesce molto.

Continuo a fissarla. È davvero bella, la mia mamma, le somiglio un sacco. Riccioli biondi e occhi verdi. Però quel pancione che ha, secondo me, anche se è strano, è ancora più bello.

Attendo per qualche minuto, batto i piedi per terra più forte che posso per vedere se si sveglia.

Non lo fa.

Prendo un grosso respiro. E un altro. E un altro.

E poi, in silenzio, entro in soggiorno, mi avvicino a lei, mi siedo al suo fianco sul divano. È ancora addormentata, ha il capo reclinato sullo schienale, respira profondamente.

Provo a chiamarla, giusto per controllare di nuovo che non si sveglia.

Non lo fa.

Allora faccio scendere lo sguardo su quel pancione che tanto mi attira. Wow, è davvero, davvero grande. Non pensavo che una bambina potesse prendere tanto spazio.

Sono ormai tanti i mesi da quando questa bambina c'è. Non è ancora uscita dalla pancia, quindi non è ancora davvero mia sorella, ma c'è. E presto tutti sapranno che è mia sorella.

Non ha ancora un nome, mamma e papà hanno detto che ne sceglieranno uno a caso, non gli interessa.

E non so perché, ma quando li ho sentiti, un po' mi è dispiaciuto, un po' un sacco, in realtà. È triste pensare che un nome venga deciso a caso. A me piacciono i nomi, davvero molto. Quelli assurdi e tanto particolari: chi li ha così può dire di essere unico al mondo. Il mio nome, Jesse, ad esempio, non mi piace affatto. L'hanno scelto solo perché gli piaceva il suo suono. Non lo so, quando me l'hanno detto mi sono sentito ancora più triste.

Così mi sono fatto avanti, ho chiesto: «Posso deciderlo io, il nome?»

Mamma e papà mi hanno guardato sorpresi e confusi allo stesso tempo. Non erano felici, l'ho capito subito, ma loro non sanno dirmi di no. Non sanno dirmi che sbaglio. Loro non mi vogliono bene. Così me l'hanno permesso.

Ma io, quel nome, non l'ho ancora deciso. Sto sfogliando ogni giorno il mio diario dove trascrivo quelli dei personaggi del cartone animato, ma nessuno mi convince. Ho deciso che aspetterò quando quella bambina sarà fuori dalla pancia. È strano, ma ho come questa sensazione assurda che appena vedrò com'è fatta capirò anche come chiamarla.

Torno a fissare il pancione. È davvero buffo. Non riesco a credere che là dentro ci sta una bambina. Mi domando come sarà, sarà bionda anche lei? Avrà i miei occhi verdi?

Controllo un'ultima volta la mamma: dorme ancora. Ok, allora posso farlo, solo per qualche secondo.

Inspiro ancora e, con dita tremanti, sollevo il tessuto largo della maglia della mamma, scoprendo il pancione.

Wow, è davvero, davvero, davvero strano.

Sembra un pallone di pelle gigante. Un po' spaventoso, però anche divertente.

E allora, con coraggio, poso la mano destra proprio su quella cosa spaventosa e divertente, le mie dita carezzano il pallone.

Che strano, davvero.

«Ehi» bisbiglio alla fine al pancione, avvicinandomi più che posso, «ciao, io sono Jesse.»

È caldo, tanto caldo.

«Tra poco diventerò tuo fratello e tu diventerai mia sorella.»

Sento qualcosa, sotto il palmo, qualcosa che non so capire cos'è.

«Non so ancora se sono felice di diventarlo» ammetto. «Perché ho paura che tu sarai come mamma e papà che non mi vogliono bene. Spero di no, però. Perché mi sento tanto solo, sai? Tutti i miei amici hanno una famiglia che gli vuole bene, io sono l'unico che non ce l'ha.»

Carezzo il pancione, è sempre più strano.

«Per favore, non essere come mamma e papà» gli dico alla fine con un sussurro. «Voglio che tu mi vuoi bene davvero. Così potremo giocare alle macchinine e le bambole. Ti insegnerò tante cose, sai? A leggere, scrivere, disegnare, andare in bici, e so anche un sacco di battute divertenti, ti farò ridere un mondo. Potremo sbagliare insieme, e quando lo farai tu, io mi arrabbierò con te, e quando lo farò io, tu ti arrabbierai con me. L'importante è che non mi dici che sono perfetto e che sono un miracolo. Non so ancora cos'è un miracolo, ma non mi piace quando mi chiamano così. Quindi non farlo, ok? Basta solo che mi vuoi bene, solo questo. Pensi di potermi volere bene, anche se non sono perfetto e non sono un miracolo?»

Sotto la mano, qualcosa si muove. La pelle del pancione si tende proprio dove la sto toccando.

Sussulto, stacco la mano, lo fisso stupito.

La mamma mi ha detto che a volte la bambina scalcia. Quindi era vero? La bambina ha scalciato?

«Era un sì?» domando speranzoso.

Il pancione si muove di nuovo.

Lo fisso stupito.

«Tra poco ci incontreremo» dico alla fine. Non so perché, ma sento di voler piangere, ma non perché sono triste, per qualcos'altro che non capisco cos'è. «Ti darò un nome, quando lo faremo. Sarà perfetto per te. Sono bravo coi nomi, io, sai? Non come mamma e papà.»

Sorrido.

«Spero di poterti vedere presto.»

*

Sono in ospedale.

C'è una vetrata davanti a me, una vetrata grandissima, che mostra una stanza azzurra piena di culle minuscole, dentro quelle culle minuscole ci sono tanti bambini minuscoli. Sopra la vetrata, sul muro, c'è una parola scritta a caratteri grandi. "Nursery". Non so cosa significa, dovrò cercare sul dizionario.

Ho le mani appoggiate sul vetro, il naso schiacciato contro. Mamma e papà sono nella loro stanza, stanno parlando, non so di cosa, non mi interessa. Non sembravano felici, quindi me ne sono andato subito. Ho chiesto alla donna col camice bianco, che prima stava con mamma, se poteva accompagnarmi nel posto dove hanno messo quella che da oggi è mia sorella.

Perché sì, ora ho una sorella. Quella bambina che prima era dentro quel pancione gigante adesso è uscita.

La donna col camice bianco è accanto a me, mi sta sorridendo. Una bella donna anche lei. È giovane quanto la mamma, ma non è bionda, ha i capelli castani legati e una cuffia blu a coprirli, occhi grigi. Ha una mano sulla mia spalla.

«Sei emozionato, Jesse?» mi domanda.

«Non so» ammetto, spingendo di più la faccia contro la vetrata, per guardare meglio. Ci sono davvero tante culle e tanti bambini. «Qual è mia sorella?»

«Perché non provi a indovinare?»

«Hmm.» Chiudo un po' gli occhi per guardare meglio. Ci sono davvero tanti bambini e sono troppo lontano, non credo-

Un pianto.

Un pianto profondo, un urlo vero e proprio, che copre tutti gli altri.

Un pianto così forte che persino io lo sento, da dove mi trovo, dall'altra parte della stanza.

Così forte che sussulto e faccio un passo indietro dalla vetrata e quasi viene voglia anche a me di piangere.

Ma non perché sono triste, non per quello.

C'è qualcosa di diverso in questo pianto. Non riesco a spiegarmelo, però è così. È diverso da qualsiasi altro pianto ho sentito prima d'ora. È come se, nel sentirlo, posso dire per la prima volta di essere... felice.

E capisco, lo capisco subito.

«È lei!» strillo. Indico sul vetro la terza culla in prima fila, quella dove si trova la bambina che sta producendo questo pianto. «Ne sono sicuro! È lei! È lei! È lei mia sorella, vero? È lei mia sorella!»

La donna col camice bianco sorride, sembra felice quanto me. Mi carezza la testa, i capelli biondi. «Che bravo, Jesse! L'hai riconosciuta subito! Sarai un fratello fantastico, il migliore in assoluto, me lo sento!»

Sento di nuovo il cuore battere come un tamburo. C'è qualcosa di diverso, sì, qualcosa di diverso. Me lo sento, me lo sento dentro. Saltello sul posto, cerco di vedere meglio quella bambina che sta piangendo così forte che anche gli altri nel corridoio si sono fermati a guardare dalla vetrata.

Mia sorella.

Ma è lontana, davvero tanto lontana, così torno a guardare la donna col camice. «Posso vederla da vicino?»

Lei esita, capisco subito che non è ammesso, ma non mi voglio arrendere, non stavolta. «Sarò bravo, lo giuro!» tento ancora. «Solo un minuto, per favore! È mia sorella! E poi le devo dare un nome! Come faccio a darle un nome se neanche la posso vedere?»

Gli occhi grigi di lei sono ancora dubbiosi. Sono felice che non mi dica sempre di sì come mamma e papà, però stavolta sento davvero che è importante, importantissimo. Continuo a saltellare, mi aggrappo al suo camice con le mani. «Solo un minuto! Uno soltanto!» ripeto ancora. «È troppo lontana da qui, non riesco a vederla bene! Devo darle un nome, non posso aspettare! Per favore!»

Un minuto di pausa, ci pensa su, si guarda attorno, e poi, alla fine, sospira. Sorrido. L'ho convinta, lo so già. «Va bene, ma solo un minuto. E rimarrà il nostro segreto, capito, Jesse?»

«Sì! Sì!»

Mi porta prima in bagno, dove mi costringe a lavarmi le mani con forza. Io sfrego e sfrego e sfrego le dita nel sapone, continuo a saltellare.

C'è qualcosa di diverso, me lo sento, qualcosa di diverso. Non so cosa, ma è così.

Sento che qualcosa cambierà, quando finalmente vedrò mia sorella.

La donna col camice mi accompagna alla porta della stanza dove mia sorella si trova. È davvero una stanza grande, con pareti azzurre e tante, tante culle e tanti, tanti bambini. Non fa in tempo a fermarmi, corro verso l'unica bambina che mi interessa, quella che ancora sta piangendo con così tanta forza che mi sembra di sentire le orecchie scoppiare.

Mi fermo davanti alla culla, ma è troppo alta, non ci arrivo, così mi volto verso la donna col camice bianco e la guardo disperato.

Lei sospira. «Aspetta un secondo.»

Va all'angolo della stanza dove si trova una sedia bianca, immagino che la usano quelli dell'ospedale. La porta fino alla culla, per poi, senza dire una parola, sollevarmi e mettermi in piedi sopra. «Solo un minuto, Jesse» mi ricorda, mentre mi regge con le mani per la vita, ma ormai neanche la sento più.

È qui.

È qui, proprio davanti a me.

Mia sorella.

E piange, piange da morire. Piange così tanto che il suo faccino minuscolo è tutto gonfio e arrossato come un peperone, tutto bagnato dalle lacrime. La bocca piccolissima è aperta per gridare, gli occhioni strizzati, un ciuffo castano di capelli in testa.

C'è qualcosa di diverso, qualcosa di diverso, me lo sento, me lo sento.

Allungo un po' la mano, giusto un po', non voglio toccarla, davvero, voglio solo avvicinarmi un po'.

Sussulto.

Mia sorella mi ha appena preso l'indice.

L'ha preso con la sua manina, e continua a piangere.

E la sua stretta è così debole, così delicata. Sapevo che i bambini piccoli non sono forti, ma non mi aspettavo così tanto.

Però... però è calda, la sua mano è calda, non voglio che lasci la presa sul mio dito, per nessuna ragione al mondo. Voglio che continui a stringerlo ancora.

E finalmente... lei apre gli occhi.

I suoi occhioni giganti.

Non è come me, non li ha verdi come me. Sono nocciola. Un nocciola che mi ricorda un po' la cioccolata.

Inspiro con forza, il cuore mi fa male, adesso, mi fa malissimo, ma non so perché questo mi rende super, super, super felice.

Un pensiero mi nasce in testa, subito, non appena quegli occhioni giganti color cioccolata incontrano i miei verdi.

Un pensiero che sì, lo so già, non smetterò mai di avere. Me lo sento. Me lo sento nel cuore: questo pensiero lo avrò per tutta la vita.

«Non ti spaventare» sento la donna col camice dirmi, «all'inizio magari possono non sembrare così-»

«È la più bella in assoluto.»

La sento sussultare, mentre mi regge ancora sulla sedia, ma non mi interessa.

Non ho mentito.

È la verità.

Questa bambina che è mia sorella, che piange così forte da farti scoppiare la testa è la più bella in assoluto.

Tutto di lei è bellissimo, tutto. Le sue lacrime, il suo faccino rosso e gonfio, la sua bocca minuscola aperta, il ciuffo castano di capelli, il corpicino avvolto dalle coperte bianche, la sua manina che stringe il mio indice, e anche se sembra debolissima, quando lo fa, anche se la sua presa non è niente di che in confronto alla mia, io sento che è la cosa più forte che mi abbia mai stretto.

C'è qualcosa di diverso, adesso.

Non mi è chiaro cosa.

Però so per certo che è vero, lo so così tanto che le lacrime ora iniziano a cadere anche dai miei occhi, non riesco più a trattenerle. Ma non piango perché mi fa male, perché sto male, perché non mi piace.

È che sono felice.

Davvero, davvero felice.

Mi trema il dito che lei stringe, ma non oso staccare la presa, non voglio neanche farlo.

Continuo a piangere e basta. Piangiamo insieme. Io e mia sorella.

E lo capisco, lo capisco subito.

Lei non è come mamma e papà.

Non lo sarà mai.

Lei mi vorrà bene davvero.

Non mi dirà che sono perfetto e che sono un miracolo.

Se sbaglierò, si arrabbierà. E se sbaglierà, mi arrabbierò.

E riderà sul serio per le mie battute e ne farà altrettante.

Lo so, lo sento.

Lei mi amerà così come sono.

E io la amerò così com'è.

La proteggerò ad ogni costo e lei proteggerà me ad ogni costo.

Per sempre.

«Jesse, dobbiamo andare.»

«Ho scelto. Ho scelto il nome.»

«Davvero? Qual è?»

Guardo la manina con cui ancora mi stringe il dito, i suoi occhioni giganti pieni di lacrime che sembrano due laghi di cioccolata, la bocca spalancata, la faccia rossissima, la pelle bagnata, il ciuffetto castano.

«Ciao» la saluto alla fine. «Io sono Jesse, sono tuo fratello, finalmente ci incontriamo. Ti ho già parlato una volta, quando eri nella pancia di mamma.» Non si ricorderà mai di questo momento, forse non me lo ricorderò neanche io quando sarò cresciuto, però voglio dirlo lo stesso. «Sono qui per darti il tuo nome. È un nome fantastico, sai? Lo adorerai alla follia. Ti renderà unica. Nessun altro lo avrà. Solo tu.»

Lei continua a piangere, anche io continuo a piangere, ma io sorrido anche, così tanto che fatico a vederla, adesso. Così mi asciugo gli occhi con la manica della mia felpa e riprendo a parlare.

So che non può sorridermi, è troppo piccola, ma per un istante mi pare quasi lo faccia, con quella sua bocca minuscola, con le lacrime che gliela bagnano.

Sì, questo sarà il suo nome. Il solo e unico che può descriverla.

Sorrido anch'io.

«Callisto








Nota autrice pt. 2

*Ritorna per vedere quanti fazzoletti sono stati usati*

Una breve e minuscola analisi di questo capitolo da un punto di vista puramente emotivo.

Jesse nel video spiega brevemente il motivo per cui sin da piccolissimo ha sempre evitato e allontanoto i genitori, da prima ancora che Callisto nascesse.

So che può sembrare strano, perché è difficile credere che un bambino così piccolo possa davvero capire con così tanta razionalità il concetto di com'è giusto che una relazione tra genitori — figli sia, ma in realtà, neanche così troppo.

Ricordiamo, prima di tutto, che essere bambini non significa "essere scemi" (tranne quello a cui facevo da baby sitter che tentò di succhiare con la cannuccia la pozzetta d'acquerello del suo disegno, maledetto infame). I bambini — almeno da come li ho sempre visti e incontrati io — hanno una loro capacità di vedere il mondo, filtrata certo da una evidente ingenuità, ciò non significa però che non possano notare/vedere/comprendere alcune cose, specie se rapportandosi con il mondo esterno e notando le incongruenze tra esso e il mondo familiare.

Farò un esempio stupido, che però a me ha davvero "cambiato" la vita da piccina (non ai livelli di Jesse, sia chiaro). Quando avrò avuto sì e no sei anni, forse un po' di meno, ho appreso il concetto di "povertà" che prima mi era del tutto ignoto. La mia famiglia non navigava nell'oro, ma prima di entrare a scuola io non lo avevo mai davvero compreso. I miei genitori non erano i tipi da voler parlare delle difficoltà economiche con la loro figlia piccolissima (una decisione che comprendo, per carità, anche se col senno di adesso non condivido), quindi non ce l'avevo in testa. Solo vedendo gli altri compagni di classe ho davvero finalmente capito la "differenza" tra me e loro e la vera situazione delle mia famiglia.

In secondo luogo, Jesse di per sé era da sempre un bambino molto scaltro e intelligente. Si può notare sin dai primi capitoli e poi anche dopo la sua morte.  Tutto il suo "piano maleficio" per salvare Callisto una volta che sarà morto, spiegato nello scorso capitolo da Kevin, ne è la prova.

Basti pensare che, come sempre lo stesso Kevin dice, a tredici anni, una volta ricevuta la diagnosi, tra i suoi primi pensieri c'è stato quello di cercare di mettere più soldi possibili da parte per la sorella, di modo che lei possa inseguire i suoi sogni da adulta, quando lui non ci sarà più, dato che già sa che mai i genitori la sosterrebbero. E che per farlo — essendo lui solo un minorenne, tredicenne e letteralmente incancrenito, sa benissimo che non ha modo di guadagnare onestamente — manipola i genitori e l'ossessione che loro hanno per lui di modo che la sua paghetta arrivi a cifre esorbitanti. E lo fa per tutti i suoi anni in cui resta in vita, fino alla sua morte.

Ok, prima analisi fatta.

Ora passiamo a una seconda analisi.

Forse alcuni di voi penseranno che il rapporto e l'affetto tra Callisto e Jesse fosse una sorta di "destino" vero e proprio, soprattutto ora che avete letto questo capitolo. Anche io spesso dico che sono anime gemelle, quindi ci può stare che pensiate a qualcosa di "soprannaturale".

Snì.

O, per meglio dire, non c'è una risposta vera e propria.

Osservando il loro rapporto da un punto di vista puramente razionale, in realtà, si può spiegare l'immenso affetto che provano l'uno verso l'altra anche senza scomodare poteri dall'alto dei cieli.

Jesse era un bambino che mancava una grande forma di affetto familiare. Un bambino molto, molto solo, che sentiva che non sarebbe mai stato amato per quello che era. Non riusciva a comunicare con i genitori e non riusciva a sentirsi felice. Il concetto di "avere una sorella" per lui era ben oltre l'avere un compagno di giochi. Significava letteralmente avere qualcuno che lo amasse, il primo in assoluto. Quindi è più che comprensibile il modo in cui, appena vista Callisto, tali emozioni lo abbiano completamente travolto e fatto decidere che l'avrebbe amata sempre.

Stessa cosa vale anche per Callisto in realtà. Vi ricordo che prima che Jesse si ammalasse, Callisto, seppur ancora non venisse abusata dai genitori, era palesemente odiata da quest'ultimi. Quand'era fortunata loro fingevano non ci fosse, quando non lo era la insultavano. Jesse era letteralmente l'unico membro della famiglia che la amava davvero e le voleva bene. Che festeggiava i suoi compleanni, le faceva i regali ad ogni festività, la riempiva di complimenti, se la portava persino a giocare con i suoi amici, anche se era tanto piccola e avrebbe potuto dare fastidio.
Quindi, ovviamente, è naturale che sin da appena nata abbia amato così tanto Jesse, è letteralmente stato il primo e il solo anche, ahimè, che le ha voluto bene e l'ha amata per tanti anni.

Quindi sì, il loro rapporto così intenso può essere spiegato anche solo da un punto di vista razionale.

MA

Non è detto che è la risposta giusta. Magari, come ha detto Jesse nel video, Callisto è stata davvero un miracolo creato da Dio per dargli qualcuno che potesse supportarlo nella malattia e fargli amare la vita nonostante la leucemia. (Da notare i tanti concetti opposti di "Miracolo" in questa storia. In questo capitolo, i genitori di Jesse lo definiscono un "miracolo" perché è "perfetto" e loro figlio. Tanti anni più avanti, Jesse definirà Callisto un miracolo per essere venuta al mondo e averlo salvato dal dolore della malattia. Callisto definirà miracolo l'apologia e i suoi effetti.)

O forse no.

E lo so cosa state pensando. "Simo, scusa, sei tu la scrittrice, come fai a non saperlo?"

Beh, miei cari muffins, in verità molto spesso anche noi scrittori non sappiamo tante cose del mondo che creiamo con le nostre parole. Pensate solo ai finali aperti o a quello che succede DOPO i finali stessi, che molti autori non conoscono a loro volta. Mi ricordo ad esempio un'intervista a John Green dove gli chiedevano che succedeva ad Hazel dopo il finale di Colpa delle stelle e lui faceva tutto un ragionamento super contorto e metaforico che può essere riassunto con due sole parole:

"Ah boh".

Ecco, anche questa è la mia risposta al perché i fratelli Murray si sono amati così intensamente sin dal loro primo incontro. Era una volontà "divina" che accadesse così o solo e semplicemente un bisogno primitivo di affetto familiare vero che hanno compensato amandosi a vicenda?

Ah boh.

O, ancor meglio, la mia risposta è: decidete voi tra le due possibilità.

E una volta che avrete deciso, quella possibilità diventerà la verità.

Personalmente a me piace pensare che sia per la seconda opzione, più che per la prima, o forse un mix di entrambe.

Non c'è una risposta corretta né una sbagliata. Solo risposte in cui crediamo.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere che ne pensate!

P.s.

Come già detto in futuro ci saranno altri capitoli extra.

E sì, muffins.

Molti di essi sono dal pov di Jesse, alcuni dei quali faranno vedere com'era la sua vita prima della leucemia.

Ehehehe

Ci divertiremo un mondo (e piangeremo un sacco ma shhh)

Un bacione pt. 2

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top