Rotta

Che bad boy, avrebbe senz'altro commentato mio fratello con voce e posa teatrali, senza che io potessi contraddirlo.

Aveva proprio ragione.

A parte Jesse, non avevo avuto molto a che fare con i ragazzi della mia età, ma ero certa che Ruben si discostasse molto da loro, quantomeno per la reattività con cui rispondeva alle offese.

Una reazione comune da parte mia sarebbe stata spaventarsi, cercare di stargli il più alla larga possibile, addirittura arrivare a considerarlo un mostro, ma così non fu.

Arrivò al contrario un'invidia cocente, dalle larghe radici che penetrarono nello stomaco e iniziarono a succhiarne il sangue. Aprirono buchi nell'intestino talmente grandi da provocare bruciori in tutto il torace.

Perché lui era riuscito in ciò in cui io fallivo ogni volta: difendersi.

Che fosse con le mani e la violenza, questo non m'importava. Avevo smesso di credere nella gentilezza da tanto tempo; le parole avevano potere solo su chi era disposto ad ascoltarle, e non c'erano carezze o sorrisi che potessero smussare la lama di un'anima pronta a tagliarti.

I bracciali che indossavo me lo ricordavano ogni giorno.

Un buon cuore poteva fiorire solo in un campo fertile, ma tra le spine e i roveti l'unico bocciolo che sarebbe sopravvissuto era quello del sangue.

E per resistere, si era disposti a ogni cosa, questo lo sapevo bene.

Non era la violenza a spaventarmi, né la rabbia negli occhi degli altri, quello che più mi terrorizzava era la prigionia di un luogo senza luce e memoria, pareti di tenebre e aria inchiostrata a macchiarmi i polmoni, l'oppressione di una gabbia che si faceva sempre più piccola...

C'era stato un tempo in cui anche io avevo pensato di poter combattere come aveva fatto quel ragazzo, di tirare fuori i denti e distruggere qualunque cosa mi volesse inginocchiare a terra, ma poi ricordavo Jesse, i suoi occhi verdi rotti dalla sofferenza, la sua pelle emaciata, i lividi che la pitturavano, la sua figura accovacciata sulla tazza del water, a vomitare, e tutta l'ira che mi era cresciuta dentro si sgonfiava come un palloncino.

Quando qualcuno che ami ti si ammala in quel modo, arrivi a pensare solo a quel dolore, a quell'unica gigantesca sofferenza che hai davanti, e ti dimentichi di dar voce a tutte le altre. Senza volerlo inizi a mettere da parte le emozioni che non lo riguardano. Le infili dentro le tasche della tua anima e ti dici che prima o poi tornerai a prenderle. Gli unici sentimenti che continuano ad ardere sono quelli rivolti alla persona di cui ti devi prendere cura. E più il tempo passa, più la tasca inizia a farsi pesante, ma tu non ci badi, non la senti neanche, continui ad andare avanti anche se questa inizia a trascinarti giù, a fondo, nei tuoi abissi inesplorati.

Io ormai più non sapevo come tirarle fuori, quelle dannate emozioni, ma ero certa che, se ne avessi avuto la possibilità, le avrei lasciate urlare con la stessa violenza di Ruben.

Non me la sentivo di giudicarlo, non ritenevo di essere nella posizione per farlo. Non ero mai stata una paladina della giustizia, non credevo nella bontà delle persone e men che meno nello stucchevole ritornello "L'amore salva tutto".

Perciò decisi di non intromettermi in alcun modo in quella situazione e di continuare a tirare dritto per la mia strada, senza più preoccuparmene.

Il resto delle lezioni fu piuttosto noioso.

Era certamente strano non avere più un professore personale che mi spiegasse tutto, bensì uno che condividevo e cambiavo insieme ad altri studenti, ma dubitavo che fosse quell'esperienza la "grande euforia adolescenziale" che Jesse mi aveva assicurato avrei provato una volta tornata a scuola.

Non parlai con nessuno.

Non ne fui in grado, per niente, i ragazzi si conoscevano già tutti e mettermi in mezzo ai loro discorsi mi sarebbe sembrato alquanto bizzarro, per non dire imbarazzante. L'unico altro studente che era messo nella mia stessa situazione era Ruben, ma non potevo contare su un improvviso sentimento di solidarietà da parte sua, ero anzi piuttosto certa che se mi fossi avvicinata a lui la risposta non sarebbe stata delle migliori.

Non condividevamo molte lezioni insieme, ma le poche che avevamo le aveva passate in solitudine, attento a non prestare attenzione a niente e nessuno, che fosse un professore o un altro studente. Continuava ad attirare su di sé molte attenzioni, vuoi per la fama che già si stava facendo o per il suo aspetto che di sicuro non lo lasciava passare inosservato, eppure la cosa non sembrava scalfirlo affatto, come se non potesse minimamente interessarlo.

I suoi occhi guardavano sempre fuori dalla finestra. Restavano fissi sul cielo che si districava oltre le recinzioni del cortile. Forse considerava quel luogo una prigione, in realtà, e per questo cercava di sfuggirne. Quando osservava il mondo di fuori, il suo sguardo mi ricordava un po' quello di Jesse quando scrutava la realtà esterna attraverso la piccola finestra della sua stanzetta d'ospedale.

Mi dissi presto di non preoccuparmene. Non erano affari miei, d'altronde, non vedevo motivo per cui avrei dovuto badarci.

All'ora di pranzo, evitai del tutto la mensa. Mi sarei sentita un pesce fuor d'acqua là dentro, con tutti quei ragazzi che si raggruppavano tra loro, e un po' mi vergognavo all'idea di finire a mangiare da sola in un angoletto della stanza, mentre gli altri studenti si divertivano. Perciò comprai uno di quei tramezzini pieni di conservanti che vendevano le macchinette e andai alla ricerca di un luogo appartato in cui consumarlo senza farmi vedere da nessuno.

Il liceo era una struttura molto grande, con molti piani da esplorare. Quando dovetti scegliere però se prendere le scale o l'ascensore, non esitai un istante e iniziai subito a salire i gradini. Non ero molto prestante fisicamente, e così arrivai all'ultimo piano con un velo di sudore addosso e il fiatone di una novantenne.

In quella zona si trovavano tutte le aule dedicate ai club della scuola e altre attività extrascolastiche, e la maggior parte di esse erano ancora vuote. Vagai lungo il corridoio alla ricerca di una zona che potesse garantirmi il più assoluto anonimato, e dopo qualche minuto mi ritrovai ad aprire una delle prime porte alla mia destra.

Era un'aula del club di teatro, e quando ne spalancai l'uscio la ritrovai in penombra, con le pareti scarlatte ancora intinte nelle tenebre e tutti i costumi di scena accatastati lungo i muri. Mi ci volle un po' per mettere a fuoco quello che avevo davanti, e quello che all'inizio mi era apparso come un gigantesco manichino, sotto la luce proveniente dal corridoio si rivelò la sagoma di due persone avvinghiate tra loro.

Sbattei le palpebre più volte, prima di realizzare quello che stava succedendo.

Seduti su uno dei pochi banchi al centro della stanza, c'erano un ragazzo e una ragazza quasi del tutto nudi. Riconobbi subito lei, la studentessa dell'armadietto al mio fianco, dalla bellezza immacolata. Aveva la camicia sbottonata fino all'ombelico, da cui sbucava un reggiseno bianco in pizzo, il capo piegato a destra per permettere al ragazzo di toccarle il collo con le labbra. Lui, invece, era un totale sconosciuto: occhi scuri e ricci neri, volto rigido, la cintura dei pantaloni slacciata e il torso completamente nudo.

Ci furono tre secondi di totale silenzio.

Tre secondi che impiegai per capire cosa stesse succedendo davanti ai miei occhi.

Quando il cervello fu pronto per rielaborare la situazione, sentii l'imbarazzo pervadermi dalla testa ai piedi, un rossore umiliante imporporarmi tutta la faccia e un sorriso isterico scavarmi le guance.

«Oh, scusatemi» balbettai con voce stridula. «Io non volevo-ecco, io non-scusatemi!» Non sapevo più nemmeno che dire, in realtà, la bocca agiva di sua iniziativa. Strinsi con più forza la maniglia della porta, mentre i due continuavano a fissarmi. Sotto i loro sguardi sentii la pressione interna aumentare a dismisura. «Proseguite pure! Io me ne vado! Non volevo interrompere-spero che la vostra euforia non se ne sia andata per colpa mia!» Callisto, cosa diavolo stai dicendo? «Mi raccomando, il righello è sempre bello solo con l'ombrello! Buona continuazione!»

Richiusi la porta di fronte a me e scappai via lungo il corridoio il più in fretta che potei.

Righello?

Ombrello?

Coprii il volto con le mani e dentro di me lanciai un grido acuto di vergogna. Aprii la porta d'emergenza e uscii fuori sulle scale antincendio, le loro grate accolsero i miei passi goffi e subito io posai la fronte sulla ringhiera fredda, nella speranza che potesse calmare il mio battito impazzito.

Certo, eravamo adolescenti, in fondo.

Gli adolescenti facevano quelle cose, in fondo.

Ma Dio, che vergogna! Speravo quantomeno che ai miei piedi si aprisse un buco nero che mi trascinasse in un'altra dimensione, o che un mattone mi cadesse in testa fino a farmi dimenticare tutto quello che avevo appena visto. Mi misi a sedere per terra con la schiena contro le sbarre delle scale e, con il volto ancora infuocato, tirai fuori dallo zaino il tramezzino.

Mangiai nel tentativo di scordarmi la mia ultima disavventura che certamente avrebbe fatto crepare di risate mio fratello. Il tramezzino era al salmone e per essere uno di quelli ipercalorici, pieni di conservanti, era delizioso. Era anche vero che, però, per me qualunque cosa era deliziosa.

Purché fosse ancora commestibile.

La muffa, l'odore nauseabondo, quel colore violaceo che vedevo anche sui polsi, il tanfo della decomposizione...

Addentai con più forza, cercando di imprimermi in gola quel sapore paradisiaco. D'altro canto, non ero certa di quanto tempo ancora avrei avuto a disposizione per godermelo, prima che arrivasse il momento.

Il rumore di una porta che veniva aperta rimbombò dal piano di sotto. Guardai in basso con curiosità: un trio di ragazzi si era andato a nascondere a sua volta sulle scale antincendio per fumarsi delle sigarette. Da dove mi trovavo, riuscivo a vedere solo le loro teste, furono le voci che mi permisero di riconoscerli.

«Quel figlio di puttana!»

Conrad?

Ecco dov'era finito. Quando era finita la lezione, lo avevo cercato per dargli un po' della mia pomata, ma lui si era volatilizzato. Forse quella era l'occasione per rimediare. Presi lo zaino al mio fianco e lo aprii, alla ricerca della scatoletta medicinale, ma la mia mano si fermò quando uno dei suoi amici disse: «Diamogli una lezione insieme.»

«Una lezione?» tuonò lui. «Altro che lezione, dopo che lo avrò lasciato stare, non saprà più nemmeno camminare, quel lurido stronzo!»

L'odore della nicotina mi raggiunse insieme alla consapevolezza del soggetto di cui stavano parlando. La presa sulla scatoletta della pomata si fece più lenta, sentii il cartone scivolarmi dalle dita e ricadere nel fondo dello zaino senza fare rumore.

«Ehi» disse il secondo amico, seduto su uno dei gradini, «il bastardo sta ai dormitori, no? Deve per forza ritornarci dopo lezione. Dopo il ferramenta là vicino c'è un vicolo buio in cui non passa nessuno, potremmo portarlo lì.»

Mi resi conto troppo tardi di essere la testimone di una conversazione che avrebbe dovuto restare privata e segreta, e che ora ero a mia volta in pericolo. Mi domandai cosa fare. Se avessi riaperto la porta per ritornare dentro l'istituto, loro avrebbero sicuramente sentito il suono dell'uscio che veniva aperto. Al contempo, tuttavia, se fossi rimasta ferma, sarebbe bastato che uno solo dei tre avesse alzato la testa perché si accorgessero della mia presenza.

«Uno di voi deve registrare tutto» sentii dire da Conrad, dopo aver espirato la sigaretta. «Voglio che quel pezzo di sterco sappia che con noi non se la cava facilmente.»

Stavo decisamente ascoltando troppo. Cercando di fare il meno rumore possibile, gattonai con lo zaino in spalla fino alla porta chiusa. Mi rimisi in piedi con lentezza, terrorizzata all'idea che i miei passi potessero ripercuotersi sulle sbarre delle scale e raggiungerli, come le onde provocate da un sasso lanciato dentro un lago. Mi aggrappai alla maniglia, inspirai con forza, e aprii.

Per fortuna, l'uscio si spalancò senza far troppo rumore. Udii i ragazzi continuare a pianificare il loro colpo di stato senza accorgersi affatto della mia presenza, e così mi gettai in corsa all'interno del corridoio.

Mi diressi verso i bagni delle donne e in fretta vi entrai, mi rinchiusi dentro una cabina, salii sulla tavola del water e lì mi rannicchiai.

Gli adolescenti sono più spaventosi di quel che dicevi, Jesse.

*

Non mi ritenevo una persona buona e nemmeno altruista.

Vivevo per mio fratello, ma solo per lui. Jesse era l'unica persona di cui mi preoccupassi e l'unica di cui avrei voluto prendermi cura.

Lui diceva sempre che era una sorta di meccanismo automatico, che mi ero impostata in quelle azioni come una formica alla sua fila, che anche quando qualcuno tentava di deviare il suo percorso riusciva comunque a ritrovare la strada a cui apparteneva. Diceva che era perché aver avuto solo lui come compagnia per tutta la mia vita mi aveva portato a una desensibilizzazione nei confronti degli altri, come se neanche esistessero nel mio mondo.

In parte era così.

In parte io e Jesse eravamo diventati un'unica realtà, un universo a sé stante con regole e divieti propri. Nessuno aveva il permesso per accedervi, così come nessuno aveva il permesso per uscirvi. Qualunque cosa vi roteasse attorno non era che un mero satellite, un astro a cui non avevamo intenzione di badare.

Ma c'era anche un altro lato di quella visione. Il fatto che io, nella mia semplicità, non ero più in grado di desiderare altri legami.

Mi guardavo allo specchio, guardavo tutte le cose che possedevo e quelle che invece mi mancavano, e mi rendevo conto di non poter offrire niente alle persone esterne, nulla per cui per loro valesse la pena restarmi accanto.

Le voci che prima sentivo solo dal mondo di fuori adesso echeggiavano dentro la mia testa, elencavano ogni difetto che possedevo, ogni banalità che mi caratterizzava. E non c'era giudice più tremendo della propria coscienza ferita dal tempo.

A quel punto mi ero detta che non avrebbe avuto più senso preoccuparmi degli altri, se tanto non avrei potuto comunque legarmici. Non ero nelle condizioni di sprecare energie per qualcuno che sapevo non le avrebbe mai ricambiate, e non volevo perdere il tempo che avrei potuto dedicare a Jesse.

Quella volta, però, era diverso.

Non si trattava semplicemente di aiutare una persona, si trattava di salvarla da un possibile assalto che avrebbe potuto ferirla anche gravemente.

Più ci pensavo, più l'ansia mi divorava.

Non mi piaceva l'idea di essere a conoscenza di quella situazione, perché avrebbe potuto arrecarmi a sua volta danno, ma allo stesso tempo non riuscivo a non pensarci. Per il resto di tutte le lezioni, non ebbi modo di fare altro. Anche a voler distrarmi con lo studio, l'immagine dei lividi che Ruben nascondeva continuava ad emergere nella mente, con lo stesso senso di soffocamento che sentivo nel guardarmi i bracciali.

All'inizio provai a dirmi che comunque lui se la sarebbe cavata: aveva già dato dimostrazione di saper reagire più che bene alle offese. Ma stavolta era diverso, si trattava di tre (o forse più, chissà) ragazzi contro uno, quante possibilità c'erano che lui ne uscisse fuori illeso?

Mi chiesi se fosse il caso di parlarne con gli insegnanti, ma anche lì interruppi subito il pensiero. Non avevo certezza che mi avrebbero creduta, e anche se lo avessero fatto, ero sicura che Ruben non avrebbe apprezzato. Avrei persino corso il rischio che chiamassero i nostri genitori, e Dio se quel pensiero bastava per terrorizzarmi.

Quando suonò la campanella che annunciava la fine delle lezioni, ero ancora assalita dai dubbi.

Avrei potuto fregarmene, tirare dritto e andare avanti con la mia vita senza preoccuparmi di quello che gli sarebbe successo. Alla fine eravamo estranei, nulla di più, l'unica cosa che ci accomunava era la vicinanza delle nostre stanze.

Ma era anche quello a bloccarmi.

La sua camera era accanto alla mia, avrei dovuto vedere per forza i suoi lividi, i colpi che aveva ricevuto, non avrei potuto ignorarli neanche a volerlo.

Alla fine, decisi che lo avrei avvisato.

Era l'unica soluzione che mi rimaneva. Lo avrei avvisato di quello che gli altri ragazzi avevano progettato nei suoi confronti, così che lui potesse fare un altro percorso ed evitarli, e da lì in poi me ne sarei lavata le mani.

Uscii di corsa dall'aula, alla ricerca della sua figura. Sarebbe stata facile da individuare: alto com'era, lo distinguevi subito dagli altri. Lo aspettai alle vetrate d'ingresso della scuola, osservai tutti gli altri studenti uscire uno dopo all'altro e cercai il suo viso tra i loro.

Passarono più di venti minuti, prima che mi dovetti arrendere.

Non era lì. Forse aveva preso un'altra uscita laterale, forse era scappato dalla finestra come faceva nei dormitori. Strinsi con più forza i braccioli dello zaino e iniziai a correre verso la strada.

Dovevo solo assicurarmi che stesse bene.

Solo assicurarmi che non ci fossero troppi lividi.

Se avessi visto che qualcosa non andava, avrei chiamato qualcuno. Anche se questo avrebbe significato dover correre il rischio di incontrare i miei genitori.

Corsi come una disperata, le cosce iniziarono a bruciarmi per lo sforzo di quell'attività che non ero solita fare, e imboccai la stradina che conduceva al dormitorio. Guardai tra le insegne dei locali quella del ferramenta e, quando la trovai, lanciai un'imprecazione.

Una stradina piccola e buia si dipanava alla destra del locale, incastrata tra esso e un altro edificio, e quando la intrapresi mi resi conto che era il luogo in cui si trovavano tutti i cassonetti della spazzatura: erano accatastati contro il muro e l'odore di immondizia era così forte da bruciarmi le narici. Rallentai il passo e proseguii con calma, coprendomi il naso con il dorso della mano. Il cemento della strada era leccato dalla penombra, e per terra si trovava ogni genere di schifezza: cartacce, cibo decomposto, persino qualche assorbente usato.

Dal fondo del vicolo si udivano delle voci, dei gemiti di sofferenza che non avrei saputo dire a chi appartenessero. Avanzai a passo felpato e sgranai gli occhi per osservare meglio.

C'era qualcuno, a terra, sdraiato a pancia in giù.

Non era da solo, altre due persone erano accasciate al suo fianco, coi corpi stretti a sé stessi, come a voler sopportar meglio il dolore che li attraversava.

Sopra di loro, un'altra figura, imponente e benedetta dalle tenebre: teneva un piede fermo sopra la testa di Conrad, lo costringeva ad avere la bocca sul cemento. Li guardava da in piedi, con occhi vitrei e in mano stringeva un cellulare con la fotocamera puntata su di loro.

«Mi sembrava di averti avvisato» disse con voce gelida, «te l'avevo detto che la prossima volta non mi sarei limitato alla testa.»

Uno sprazzo di luce andò a ridar colore alla sagoma, illuminando il volto di Ruben, fisso sui capi prostrati degli avversari. Il suo viso non lasciava trasparire alcuna emozione, guardava i tre rannicchiati a terra con la stessa austerità con cui un genitore guarda il figlio che ha mentito. Aveva le labbra strette, gli occhi ben aperti, il cellulare in mano che riprendeva ogni singolo momento.

Sentii una sorta di irritazione nel rendermi conto che la mia ansia era stata completamente inutile. Che motivo avevo avuto di preoccuparmi per il nuovo Bruce Lee? I miei occhi caddero sui vinti, sdraiati sull'asfalto come se fossero anche loro parte della spazzatura che li circondava. Gemiti di sofferenza e guaiti animaleschi provenivano dalle loro bocche contratte, e io mi domandai se nascessero per il dolore di esser stati sconfitti o la vergogna di essere loro quelli che alla fine erano stati ripresi nell'umiliazione.

Anche Ruben, però, non sembrava esserne uscito del tutto illeso. La mano destra che reggeva il telefono aveva le nocche completamente sbucciate, sangue vivo e fresco gocciolava sul dorso, e all'attaccatura del collo si stava spandendo una macchia scarlatta, il primo sintomo di un colpo ricevuto con troppa violenza.

Di tutta quella situazione, non sapevo per chi provare più piena. L'unica immagine che sorgeva alla mente erano i mille lividi che quei ragazzi si sarebbero ritrovati su tutto il corpo.

Avanzai di un passo e il mio piede andò a calpestare la cartaccia di un fast food. Il rumore fu quasi croccante, e attirò su di me l'attenzione di Ruben, che voltò il capo verso la mia direzione e calamitò i suoi occhi nei miei.

Non parve sorpreso, bensì irritato. Le folte sopracciglia si aggrottarono e andarono a formare una ruga a forma di v proprio alla radice del naso. L'occhio celeste luccicava di collera, quello nocciola sembrava essersi fuso insieme alla pupilla.

Sollevai gli angoli delle labbra e continuai ad avanzare, mi feci scivolare lo zaino dalle spalle e ne aprii la cerniera. Ruben scattò nell'esatto istante in cui infilai una mano dentro. Mi raggiunse proprio nell'attimo in cui afferrai ciò che desideravo: la sua mano ammanettò il mio polso e costrinse il braccio a uscire dallo zaino.

«Cosa credi di star-» Si fermò nell'istante in cui vide ciò che stringevo tra le dita. La scatoletta della pomata.

«Faccio subito» gli dissi, e approfittai della sua sorpresa per spezzare il nostro legame e tornare a camminare verso i tre ragazzi ancora prede del dolore.

Mi inginocchiai di fronte a Conrad, e lui mi scrutò con sguardo confuso. Posai la scatoletta davanti ai suoi occhi. «È una pomata fantastica» spiegai, «se la applicate sui punti che vi fanno male, più tardi, vi aiuterà a far sparire prima i lividi. Io ne ho tante, vi lascio questa.»

Lo sentii dire qualcosa, un bisbiglio che non compresi appieno, tant'erano i gemiti che i suoi compagni esalavano ancora, così mi risollevai e tornai sulla mia strada. Ruben era fermo di fronte a me, mi osservava con attenzione ad ogni singolo passo, come se volesse ingurgitare anche la più piccola informazione sul mio conto, come se dovesse conoscere anche il modo in cui respiravo, per assicurarsi di sapere come contrattaccare in caso di un agguato da parte mia.

Mi domandai che razza di folle pensasse che fossi, se arrivava addirittura a preoccuparsi che lo attaccassi. Ero la metà di lui e si notava a vista d'occhio che non possedevo alcun tipo di prestanza fisica: con quale pazzia mi sarei messa a scontrarmici?

«Se vuoi ne ho un'altra anche per te» gli dissi comunque, fermandomi accanto a lui. «In realtà ero venuta qui a dirti che ti volevano fare del male, ma vedo che la mia preoccupazione è stata inutile.» Mi sembrava il caso di doverlo spiegare, visto il modo in cui continuava a studiarmi da capo a piedi.

«E perché mai avresti voluto avvertirmi?»

Una domanda giusta, almeno questo. Mi limitai a sorridere. «Non mi piacciono i lividi, tutto qua, e dato che sei il mio vicino di stanza li vedrei sempre.»

La mia risposta non sembrò esser di suo gradimento, la furia che forse era appena scemata prima ritornò in un istante. «Lividi» ripeté quella parola come se fosse uno sputo. «Lividi, lividi, tu e questi dannati lividi. Ti preoccupi solo di quello? O sai anche usare il cervello?»

Rinfilai la mano nello zaino e tirai fuori il mio rotolo di cerotti. Glielo porsi. «Per le nocche delle mani.» Mi accorsi solo in quel momento che i miei cerotti erano colorati di un rosa evidenziatore acceso, e che avevano l'immagine di Pou, l'animaletto di Crystal Ballerina, stampata sopra. Arrossii. «Scusami, immagino sia un po' imbarazzante per te andarsene con-»

Non feci in tempo a finire la frase. Il pacchetto di cerotti volò via dalle mie dita in un istante, scacciato con una manata da Ruben. Sfrecciò nell'aria in un arco quasi perfetto e atterrò sopra il coperchio di uno dei cassonetti della spazzatura. Neanche me ne accorsi, all'inizio, avvertii soltanto il fruscio della sua mano che si scontrava con la mia. Sbattei le palpebre più volte, prima di rendermi conto di star stringendo il vuoto adesso.

«Sei stupida?»

Quasi lo ringhiò, il disprezzo con cui mi scrutava era inesorabile.

Sorrisi di nuovo. «In realtà sì» mi grattai il capo, imbarazzata, e mi lasciai andare a una risatina. «Non sono mai stata molto intelligente.»

Iniziavo a pensare che fosse il caso di zittirmi e basta, perché più parlavo, più il suo volto si trasformava in una maschera di collera. Così mi limitai a sorridere ancora, mentre ombre d'ira calavano nei suoi occhi.

«Pensi di essere al sicuro qui, anche dopo quello che hai visto?»

Lanciai un'occhiata ai tre ragazzi per terra, i loro corpi ancora contratti dalla sofferenza.

«Beh, ti hanno attaccato loro per primi» feci notare. «Se avessi la tua forza, anche io non li avrei risparmiati facilmente.»

Lui socchiuse appena le palpebre, indagando il mio viso alla ricerca della menzogna. Il mio sguardo cadde sull'angolo ricurvo tra la sua spalla e il collo, l'ematoma rosso che già si stava formando. «Sicuro proprio di non volere-»

«Fa' silenzio

Lo ordinò con un impeto tale da ammutolirmi all'istante. Mi limitai a guardarlo, e lui fece altrettanto. Ci investigammo a vicenda, analizzammo ogni parte di noi che non ci convinceva. Provai a studiarlo per quel che potevo: le spalle larghe, il fisico gonfio di muscoli, il collo ampio, le labbra piene. I suoi occhi su di me: l'ossimoro di cielo e terra che si incontravano sullo stesso viso.

«Tu» dichiarò, la voce gelida, gli occhi saturi di spietatezza, «sei di troppo.»

Immaginai che, a guardarmi, non riuscisse proprio a infilarmi tra i tasselli squadrati del suo mondo di lividi e violenza. Forse di me vedeva solo l'aspetto illeso, lo sguardo incontaminato, la pelle dal colore roseo uniforme, e si diceva che in quel posto non avrei potuto né dovuto appartenere.

C'era un giudizio nel suo sguardo che non lasciava intendere alcun tipo di perdono: per lui peccavo solo a respirargli davanti, solo a esistere lì, in quella gabbia di roveti in cui era intrappolato.

Mi venne quasi da ridere, un'amarezza che da tempo non provavo sommerse tutte le altre emozioni. Non sapeva, lui, come avrebbe potuto? Non sapeva che io a quella prigione appartenevo più di quanto credesse, non sapeva che io conoscevo una violenza che non lasciava tracce sul corpo, una forza che ti lasciava segni solo nello spirito, nel riflesso che guardavi allo specchio ogni giorno, nei pensieri che più non riuscivano ad essere naturali, ma sintetici fiorivano come un giardino di fiori di carta.

Sorrisi.

«Voglio solo che usi la pomata» gli dissi. «Tutto qui.»

Si avvicinò a me con passo veloce, e io arretrai per quel che potei, fin quando non mi ritrovai con la schiena contro il muro dell'edificio. Le sue braccia mi ingabbiarono lì sul posto, le sue mani andarono a coprire ciascun lato delle mie spalle, e così me lo ritrovai addosso, alto come una montagna, talmente imponente da non permettermi di vedere niente che non fosse lui stesso. Il suo corpo incombeva su di me come un corvo su una carcassa, i suoi occhi sembravano star aspettando il momento perfetto in cui avrei spirato l'ultimo respiro per cibarsi di me.

«Il tuo sorriso» sibilò, «è marcio.»

Inclinai il capo, confusa. «Ma mi sono lavata i denti, oggi, lo giuro.»

Le sue mani contro la parete si strinsero in due pugni serrati.

«Pensi che fare l'innocentina con me funzioni?»

Innocentina?

Io?

Sgranai gli occhi, e fui attraversata senza volerlo da un'altra risata amara. D'improvviso tutti i pezzi di me che non riuscivano più a incastrarsi tra loro iniziarono a sanguinare, gocce rosse caddero, ampolle di ricordi offuscati, di fascette fisse sui miei polsi, di un'oscurità così dilagante da divorarmi le interiora e farmi desiderare l'inferno stesso pur di sfuggire ad essa.

C'era qualcosa in me che non andava, e questo l'avevo sempre saputo.

Qualcosa che mi impediva di prender parte agli ingranaggi della vita di tutti i giorni, di tutti gli altri.

C'era il rumore delle unghie che si rompevano contro il legno dell'anta, e quello delle preghiere e delle suppliche fatte a un Dio che non avrebbe mai voluto ascoltami.

L'odore del cibo putrefatto, della muffa che infettava la carne fresca, e quello nauseabondo del vomito, che ogni volta pensi di esserti lasciato alle spalle ma ti ritrovi l'istante dopo nell'aria.

C'erano le lacrime dal sapore del peccato, il loro pizzicore salato sulle labbra contratte, il gusto della vergogna che ti colava in gola come uno sciroppo aspro e appiccicoso.

C'era che più non temevo la violenza, né mi nascondevo da essa, al contrario la accettavo perché era sempre meglio del tugurio che conoscevo, era sempre meglio delle tenebre e delle pareti che mi si chiudevano intorno, del mangiare che mi si decomponeva ancor più in bocca, dei polsi legati e delle parole che ti accoltellavano al cuore, una dopo l'altra, senza lasciarti scampo.

«Conosci la sigla di Crystal Ballerina?» domandai. «"Il vero potere è far sbocciare il sorriso con una lacrima". È il mio motto di vita da tanti anni, ormai, per questo sorrido sempre.» Lui aggrottò ancor più le sopracciglia, io scoprii i denti. «Se hai paura che dica a qualcuno quello che ho visto, non ti preoccupare, non accadrà.»

Mi guardò come se fossi un essere alieno provenuto da chissà quale mondo, ma non potevo biasimarlo per questo, aveva ragione.

Io non appartenevo a quella realtà, il mio mondo era sempre stato solo Jesse.

Non conoscevo paura per estranei, non mi interessava la mia incolumità, non mi preoccupava essere normale.

Sei rotta, sussurrava ogni volta una voce nella testa, sei troppo rotta, funzioni male, funzioni sconclusionata, non riesci a reagire come dovresti, non riesci a provare come dovresti. Guardati, dovresti avere paura, dovresti tremare, ci sono i lividi che tanto temi, ma tutto quello che pensi è a cancellarli via il prima possibile, tutto quello che ti importa è eliminare il problema così non lo vedi più, ché così funziona con te: tu sopprimi quello che ti fa paura, cerchi di toglierlo via prima che si propaghi, ma lo sai che alla fine ti resta all'interno, lo sai che alla fine quegli ematomi tu ce li hai dappertutto, ti colorano dentro e adesso hai l'anima scarlatta, violacea, verde, e non la puoi mica lavare e farla tornare come prima, lo sai.

Speravo quasi che anche lui la sentisse, quella dannata voce. Forse avrebbe capito meglio, forse ci saremmo capiti meglio. Invece continuò a studiarmi, a cercare di risolvere l'enigma che ero, a metter su difese per proteggersi da agguati che nel suo pensiero avrei potuto fargli.

E io avrei voluto dirgli che le uniche persone a cui avrei voluto far male purtroppo erano anche le uniche che non potevo proprio toccare.

Che se avessi avuto la possibilità e la sua stessa forza, le avrei distrutte molto più di quanto lui aveva fatto con quei tre ragazzi.

Che per anni avevo sognato di ammazzarle mentre dormivo, nei modi più cruenti possibili, e quando mi svegliavo ero così contenta di quello che avevo visto da avere un sorriso gigantesco stampato in bocca.

L'innocenza che vedeva in me era solo la mia disfunzionalità, e proprio non potevo farci niente.

«Comunque noi non ci siamo mai presentati» asserii. «Io sono Callisto, Callisto Murray. Sono nuova come te a scuola.»

 Si allontanò, liberandomi dalla sua prigionia, il viso ancora contratto dall'irritazione.

«Non mi interessa» affermò deciso.

Annuii. «Volevo solo che tu lo sapessi, abbiamo le stanze attaccate in fondo, ci capiterà di incontrarci ogni tanto.» Tornai a guardare i tre ragazzi a terra, si stavano pian piano rialzando, stringendosi con forza le parti dolenti.

«Vattene via» latrò alla fine lui. «Ora

«Buona serata» dissi soltanto, e me ne andai.

Imboccai l'uscita del vicolo a passo svelto, per poi fermarmi un istante per guardare il pacchetto di cerotti sopra il cassonetto dell'immondizia.

Lo ripresi veloce.

Non credevo possibile che al mondo potesse esistere qualcuno a cui non piaceva Crystal Ballerina.

N.A.

Buona domenica, muffins! Come va?

Vi è piaciuto questo capitolo? Fatemi sapere che ve ne pare con un commento e/o una stellina!

Pian piano sto mostrando i vari volti dei personaggi, quello che però voglio dirvi è di non fermarvi solo alle apparenze, a quello che vedrete all'inizio. Ognuno di loro ha molto più da dire di quanto si pensi, in particolar modo Callisto. 

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