Ribelle
Avevo commesso un errore.
Se avevo pensato che in qualche modo il mio rapporto con Ruben si fosse fatto più stretto, mi ero sbagliata.
Perché davanti alle mie parole, alla speranza che gli avevo mostrato a cuore aperto, lui innalzò tra noi due un muro gigantesco, una barriera spessa e infrangibile creata con la rabbia che tanto amava usare per difendersi.
Mi guardò con una furia che non mi aveva mai riservato fino a quel momento, con un'ira che lasciava intendere ad occhio nudo quanto fossimo distanti in realtà, quanto ancora si rifiutasse di farsi toccare non dalle mie mani, ma dalla mia anima.
«Tu pensi» latrò, «di poter provare pietà nei miei confronti?»
Non risposi, mi limitai ad osservarlo, a studiare quella ferocia che gli dilaniava tutto il viso, che gli divorava l'azzurro dell'occhio. Si avvicinò a me, ma non mi mossi, rimasi ferma fino a quando non mi fu a mezzo centimetro di distanza, il suo fiato che mi alitava sopra il capo. «Pensi che io sia un povero cucciolo indifeso» continuò con voce graffiante, «che ha bisogno di coccole e amore per stare meglio?»
Sollevai lo sguardo fino a incontrare il suo, mi fusi nei suoi occhi, ben consapevole che l'unica reazione che avrebbe approvato da parte mia sarebbe stata la paura.
Ma così non fu.
Non sentivo altro che il suo, di terrore. Provava a celarlo dietro la sua ira, eppure continuavo a percepirlo.
«Pensi di poter fare la crocerossina con me, per sentirti meglio?»
Troneggiava, imperava di fronte a me, ma comunque non riuscii a far altro che sorridergli.
«Credi che ti basta solo tirar in su le labbra e dirmi parole dolci per convincermi a fidarmi di te?»
«No» risposi serafica. «Ci sarei riuscita già tanto tempo fa, se fosse stato così.»
Aggrottò la fronte, la collera ad ombrargli tutto lo sguardo, pitturando sfumature di tenebre sugli zigomi.
«Ma quello che ho detto è vero» ripresi con sicurezza, «non ho mentito. Volevo solo che lo sapessi.»
«E perché dovrei saperlo?»
«Perché tu» dichiarai sicura, «sembri una persona che ha bisogno di sentirselo dire.»
Sapevo di star oltrepassando la linea, di star cercando invano di sfondare quel muro d'ira con cui si difendeva dal mondo, eppure non mi riusciva proprio raggirarlo con delle menzogne. Se c'era una cosa certa a quel mondo, quella era che, con Ruben, non potevo mentire. Anche a tentare di farlo, lui avrebbe fatto crollare le mie bugie una dopo l'altra.
Ma sapevo anche che, con la verità, quella barriera con cui ci separava l'uno dall'altra non avrebbe fatto altro che inspessirsi.
E fu quello che accadde.
Inspirò a fondo, le narici dilatate, l'intero corpo irrigidito. «Non sono il tuo caso di carità» tuonò, «non ho bisogno del tuo conforto. Cosa c'è, pensi di essere in diritto di provare pietà per me?»
«Sì, lo penso.»
Gettai la bomba senza esitazione, ma prima che potessi dire qualcosa, mi accorsi di una luce bianca provenire dalla finestra alle sue spalle, dal cortile.
«TU-»
Lo spinsi sul letto con furia, ma nel tentativo di smuovere quel gigante di almeno novanta chili, persi l'equilibrio e caddi a mia volta addosso a lui. Atterrammo sul letto con un tonfo improvviso, lui con la schiena sul materasso, io con il torace contro il suo addome, e in quell'esatto momento la luce che avevo intravisto prima si girò ed entrò nella mia stanza, illuminando le pareti e i mobili.
«Tutto ok lì?» sentimmo dire da una delle guardie che controllava il cortile.
«Tutto ok.»
Restammo in silenzio per un bel po', fino a quando non sentimmo il rumore delle voci farsi così lontano da non essere più udibile. Ad accompagnarci fu solo il rumore dei nostri respiri che sembravano liquefarsi insieme. Avevo la faccia spiaccicata sui pettorali nudi di lui, riuscivo a sentire il battito del suo cuore contro l'orecchio, ed era come un tamburo che voleva gridare al mondo intero la sua musica.
Era caldo, contro di me, e appiccicoso per la pomata che gli avevo appena messo. Il suo petto si alzava e abbassava a velocità sorprendente.
Mi sollevai sui gomiti e mi trascinai in avanti fino a quando non ebbi il muso sopra al suo ancora contratto dall'ira.
«Devi fare attenzione» gli spiegai, «le guardie possono notarci in qualunque momento.»
«Non hai davvero vergogna, tu» sputò con acidità, e io inclinai la testa, confusa.
Mi resi conto solo in quel momento della posizione fraintendibile in cui ci trovavamo. Ruben sdraiato sul letto e io sopra di lui, a gattoni. Non so per quale motivo, ma quella bizzarra situazione mi fece ridere.
«Sei un bad boy» dichiarai tra le risa, «però sono io ad averti assalito.»
«Come?»
Nel pronunciare quella parola, il piercing sulla lingua luccicò come una perla argentata avvolta dall'oscurità, il suo bagliore fu talmente improvviso da lasciarmi incantata e incuriosita. Mi avvicinai un po' con la testa per guardarlo meglio.
«Non ti avvic-»
«Non ti fa male?» domandai.
Aggrottò la fronte.
«Il piercing» spiegai allora. «Non ti fa male?»
«Non ti riguarda.»
«Quando te lo sei fatto?»
«È un interrogatorio?»
Scoppiai a ridere. «Pensi che un piercing così mi starebbe bene?»
«Magari sono fortunato e ti toglie per sempre il dono della parola.»
Era una battuta, quella? Oh sì che lo era! Sentirgliela dire mi riempì di gioia al punto da sorridergli per la prima volta con sincerità, ma forse, nel buio di quella stanza, non ebbe modo di rendersene conto.
Mi afferrò per le spalle e mi spinse in avanti, facendomi ritrovare a sedere sopra le sue gambe. Si sollevò sul busto e si passò una mano tra le ciocche castane. «Quindici anni» dichiarò alla fine.
Sgranai gli occhi. «Si può fare a quell'età?»
«Me lo sono fatto da solo.»
Mi ritrovai a bocca aperta. Non riuscivo proprio a immaginarmelo da appena adolescente con la lingua di fuori e un ago in mano, attento a prendere la mira. Non volevo neanche pensare a tutte le infezioni che aveva rischiato di prendersi con quel singolo atto di ribellione.
Jesse aveva proprio ragione, era un vero Mr Bad Boy.
«Finito l'interrogatorio, ora?» domandò sardonico.
«Perché te lo sei fatto?»
«Perché» ringhiò, «non taci e mi lasci in pace?»
Sorrisi. «Perché tu mi piaci» dichiarai con sincerità.
Sollevò lo sguardo verso di me, l'espressione funesta, gli occhi carichi di giudizio.
«Non in senso romantico» mi affrettai a precisare, sollevando le mani in segno di resa, «come persona, intendo.»
«Ti piace un ragazzo che picchia le altre persone?»
Annuii.
«Fatti controllare il cervello.»
«Sei forte, tu» spiegai. «Sei talmente forte da esser riuscito a tener testa a tre ragazzi contemporaneamente.»
«E io ti piaccio per questo?»
«Sì, ammiro tanto le persone forti.» Strinsi i pugni. «Vorrei essere come voi e avere il vostro fisico. Potrei difendermi da tutto.»
Avrei potuto difendermi dall'Inferno, se solo gli fossi assomigliata anche di poco, dalla condanna da scontare una volta rientrata a casa.
Ruben mi guardò, e a giudicare dai suoi occhi, intuii che stava cercando di capire quanto di ciò che stavo dicendo fosse vero. O forse, più semplicemente, stava cercando di rimettere a posto un altro dei miei tanti tasselli per poter avere un quadro più completo di ciò che ero, di chi ero.
«In più» aggiunsi, «sei bello.»
Schioccò la lingua. «Sei così superficiale che ti basta che una persona sia bella perché ti piaccia?»
Risposi all'istante, senza esitare un secondo: «Sì.»
Mi lanciò un'occhiataccia, si sistemò meglio sul letto e si mise a sedere sul bordo. Era così grande che in confronto il materasso sembrava essere uno di quelli per bambini, e il suo corpo tonico ma abbozzato dai lividi stonava completamente con la mia stanza sterile e ordinata.
«Anche tu vuoi farmi delle domande alla fine» gli feci notare.
«Io non ho» dichiarò, «proprio nessuna domanda da farti.»
Si alzò in piedi, prese la sua maglia dalla scrivania e iniziò a infilarsela. Mi sollevai anche io e lo raggiunsi. «Sei incuriosito da me» continuai con un gigantesco sorriso stampato in bocca. «Ti si legge negli occhi.»
«L'unica cosa che puoi leggere dai miei occhi» replicò dopo aver finito di indossare l'indumento, «è il fastidio che mi provochi solo respirando.»
Sghignazzai.
«Hai altri piercing oltre a quello sulla lingua?» chiesi.
«Non sono» latrò, «affari tuoi.»
«Da quanto fumi?»
«Il patto» mi bloccò, «era che tu mi aiutassi e in cambio io accettassi la tua stupida pomata. Mi sbaglio?»
Allargai il sorriso. «Sì, ma bisognerà pur chiacchierare, altrimenti ci si annoia.»
«Brava, annoiati.»
Fece per muoversi verso la finestra, già pronto per saltare e uscire dalla stanza, quando io, in fretta, lo trattenni afferrandolo per il bordo della maglia. Ruben si bloccò e si voltò verso di me con aria furibonda.
«Come faccio a dirti se ci sono le guardie» gli feci notare, «se non ho modi per comunicartelo mentre stai fuori?»
Assottigliò lo sguardo, forse il mio ragionamento era riuscito a subissare il suo pessimo umore.
«Dammi il tuo numero di cellulare» continuai, «giuro che non ti disturberò, sarei sempre tu il primo a scrivermi per chiedermi se ci sono le guardie, non farò altro.»
Ci rifletté su, era evidente che il mio ragionamento era più che sensato e gli sarebbe andato a vantaggio. Se davvero desiderava usarmi, quello era il modo migliore.
«Se osi anche solo scrivermi una delle tue sciocchezze» dichiarò, «il patto è finito, sono stato chiaro?»
Sorrisi.
«Promesso.»
*
Quel pomeriggio si moriva di caldo, il sole cuoceva la pelle e dall'asfalto si levava una patina di afa bollente che ti otturava i polmoni. Entrare in clinica e sentire subito l'aria condizionata fu un sollievo immenso. Salutai la segretaria dietro la scrivania della hall d'ingresso e quest'ultima ricambiò il mio gesto con un sorriso.
«Tuo fratello» mi disse mentre mi avvicinavo, «avrebbe dovuto fare il comico.»
«Lo so, ha proprio un talento innato.»
«Non sai quante risate fa fare a tutto il personale.»
Non lo dubitavo, e sentirglielo dire mi rendeva entusiasta quasi fossi stata io a provocare tutta quell'ilarità. Quando si trattava di Jesse, provavo un moto di orgoglio e soddisfazione così profondo da gonfiarmi il petto.
«È nella sua stanza» mi disse alla fine, lanciandomi un'occhiolino.
La ringraziai e mi avviai verso il corridoio, il rumore dei miei passi risuonava tra le pareti bianche come piccoli tonfi attutiti, superai alcuni infermieri che stavano chiacchierando tra di loro in gruppo e raggiunsi la porta della stanza.
Mi bloccai con le dita già posate sulla maniglia, nell'attimo in cui, dall'interno, udii la voce sommessa di Jesse.
«Sì... procedi pure così, Kevin...» Parlava con tono basso, come se non volesse esser sentito, e quella era una novità. Lui amava che la gente lo ascoltasse. «No... Pensaci tu... Callisto... Manderò tutto quanto.»
Stava parlando di me? E con chi? Da che ricordavo, non c'era nessun Kevin nella sua vita, nemmeno come amico o come medico. Tentennai, con la mano ancorata al pomello, non sapendo bene come comportarmi. Stava parlando al telefono? Per questo non sentivo nessuno rispondere?
Udii una risata genuina da parte di mio fratello, e a quel punto non potei più trattenermi, spalancai l'uscio ed entrai.
Jesse era in piedi davanti alla finestra della stanza, nel camice azzurro della clinica, con un cappellino nero in testa, ed era al telefono. Aveva un sorriso in bocca a trentadue denti e sembrava aver appena ottenuto una delle soddisfazioni più grandi della sua vita. Quando mi vide arrivare, quel sorriso ebbe un attimo di tentennamento, un piccolo secondo in cui non fu in grado di mascherare la sorpresa.
«Adesso devo andare, Kevin» disse al telefono. «Sì, ci sentiamo dopo. Grazie ancora di tutto. Ciao.»
Chiuse la chiamata e in un istante fu su di me, mi strinse tra le sue braccia con la poca forza che possedeva, posando il proprio mento sopra il mio capo. «Ah, sorellina» lo sentii dire, mentre la mia faccia soffocava nel suo petto, «oggi sei proprio bellissima, lo sai? Più bella di tutti.»
«Jesse» mormorai contro la sua maglia, «Jesse, con chi stavi parlando?»
«Oh, solo con un amico che ho conosciuto online» rispose, «anche lui ha la leucemia.»
Non mi convinceva, per niente. Sapevo che, di tanto in tanto, si dilettava a chiacchierare con qualcuno su internet per passare il tempo — il suo hobby preferito era cercare pagine comiche cariche di black humor. Era anche un modo che aveva per legarsi a qualcuno senza sentirsi addosso il senso di colpa di condannarlo alla sofferenza quando sarebbe morto. Ma stavolta, con questo Kevin, aveva superato quel confine. Non si era limitato a una chat su qualche piattaforma, si parlavano al telefono.
Qualcosa non mi quadrava.
Ritirai la testa all'indietro e lo guardai in faccia. «Perché parlavate di me?»
Lui ridacchiò e mi carezzò il capo, stringendomi con ancora più forza. «Mi stavo solo vantando di avere la sorella più bella e brava del mondo» replicò.
Non avevo dubbi: mi stava mentendo. Era chiaro come la luce del sole. Forse non risultava evidente da fuori, ma io lo conoscevo come nessun altro, sapevo distinguere immediatamente i primi segnali di una bugia. Sorrideva troppo, alzava la voce, aumentava a dismisura l'entusiasmo per sobbarcare la menzogna.
Aprii la bocca, ma non riuscii a dire niente. Mi sentivo in qualche modo tradita da quel suo comportamento, eppure allo stesso tempo ero ben consapevole di non aver il diritto di sentirmi così. Io ero la prima che lo inondava di una quantità spregevole di bugie e maschere, la prima che celava ai suoi occhi la parte più crudele e ferita del mio animo. Con quale coraggio avrei dovuto convincerlo a rivelarmi la verità?
Richiusi le labbra, mi abbandonai al suo abbraccio e mi consolai nell'ascoltare il battito del suo cuore. Jesse ridacchiò e mi cullò a sé, dondolando i nostri corpi a destra e a sinistra, quasi fossimo in ascolto di una ninnananna tutta nostra.
Era davvero contento, questo era innegabile, di qualunque cosa avesse parlato con quel Kevin, lo rendeva estasiato. Provai a immaginare di cosa si trattasse, ma nulla sovveniva alla mente.
Alla fine, dopo una decina di minuti, ci staccammo. Gli occhi di lui brillavano di luce propria, con una mano mi sistemò la frangetta ora spettinata dopo l'abbraccio. «Sorellina» mi chiamò, «devo chiederti un favore.»
«Che cosa?»
«Ho bisogno che mi compri una parrucca.»
Lo guardai sorpresa. «Sei sicuro? Adesso puoi farti ricrescere i capelli...»
«Non ho abbastanza tempo per averli come vorrei.»
Mi sforzai di sorridere, mentre sentivo sprofondare il cuore in una voragine di sofferenza e agonia. «È successo qualcosa?»
Lui sollevò l'angolo destro delle labbra. «I reni stanno cedendo.»
Lo disse con una tranquillità spaventosa, con la stessa semplicità con cui si afferma di star andando a fare la spesa, eppure, dietro quelle parole, c'era un abisso di orrore e crudeltà, l'odore della morte in procinto di arrivare.
«Era solo questione di tempo, ormai» continuò con voce serena, «lo sai, ci eravamo preparati a questo.»
Ci eravamo preparati, era vero, ci eravamo preparati da quando non eravamo che ragazzini. Eppure, per quanto lo avessimo fatto, quella consapevolezza non era stata sufficiente, comunque mi sentivo un fiore che veniva strappato petalo per petalo, senza alcuna pietà e compassione.
Non smisi di sorridergli, gli presi le mani e le strinsi tra le mie. «Cosa dovrai fare adesso?»
«Per il momento i dottori mi spronano a continuare questa nuova terapia, e in più dovrò fare la dialisi.»
Sentii la mia gola farsi secca. «Non si può pensare a un trapianto?»
Jesse mi sorrise con dolcezza. «Dei reni sani per me sarebbero completamente sprecati.»
Chinai lo sguardo sulle nostre mani unite, le sue erano pallide e magre, con le ossa che sporgevano dalla pelle e le unghie esangui.
«Ho ancora tempo, non ti preoccupare, Callisto» mi rassicurò. «Te l'ho detto, arriverò al tuo compleanno.»
Mi sforzai di non ridere con amarezza. «E a cosa ti serve una parrucca?»
Lui sorrise splendente. «Sto preparando la foto da mettere sulla mia lapide» mi spiegò. «Devo essere il più bello possibile quando la faccio. Sai, non voglio che la gente nel vederla pensi: "Oh poverino, si vede proprio che era tanto malato". Voglio che pensi: "Oh Dio, che ingiustizia, era così gnocco, me lo sarei proprio fatto!".»
Era quello che più amavo di lui: il coraggio con cui usava l'ironia e rideva in faccia alla morte, la forza ineguagliabile con cui scivolava nella vita senza tentare di opporsi al suo destino, trovando l'equilibrio tra l'esistenza e la sua fine.
«Mi fido del tuo gusto» dichiarò, «sono sicuro che tu sapresti rendermi più aitante di una rock star.»
Sghignazzai. «Va bene, ti troverò una parrucca stupenda.»
«Me la fai tu la foto, per favore? Un selfie non mi sembra granché adatto per una lapide, e se provassi a chiedere a mamma o a papà di farmela scoppierebbero a piangere in un istante.»
Sorrisi. «Certo, te la faccio io.»
Sollevò le labbra, mi scoccò un bacio sulla fronte. «Sei la sorella migliore del mondo.» Sciolse le nostre mani e mi domandò: «Come mi dovrei vestire secondo te? Trasgressivo? Casual? Di rosa?»
«Di rosa?» ripetei.
«Ehi, non c'è nulla di male in un uomo vestito di rosa.»
«Non ce la vedo come immagine per la tua lapide.»
«Fosse per te indosserei una maglietta di Crystal Ballerina.»
«Ora che ci penso...»
«Alt» mi bloccò. «Non porterò Crystal anche nella tomba. Mi dispiace, ma mi hai tormentato con quel cartone letteralmente per tutta la mia vita, direi che è più che abbastanza.»
Ridacchiai. «Non ti ho mai visto in giacca e cravatta» feci notare, «forse sarebbe l'occasione giusta per indossarli, no?»
Schioccò le dita. «Geniale» commentò. «La gente penserà che ero un uomo d'affari, e non un povero sfigato con la leucemia da quando aveva tredici anni.»
Lo guardai: dubitavo che una parrucca e un vestito elegante sarebbero bastati per mascherare la sua malattia. Aveva la pelle cerulea, le ossa che sporgevano di fuori, gli mancavano ciglia e sopracciglia, le labbra erano bianche e gli zigomi quasi trasparenti. Mi domandai se esistesse un modo per coprire tutto questo, fino a quando non venni colpita da un'idea.
«A proposito» mi distrasse Jesse, «com'è andata la giornata?»
Sospirai.
Era proprio da lui.
Lo feci sdraiare di nuovo sul letto e mi misi a sedere sulla poltrona accanto al materasso. Ben consapevole della ramanzina che mi sarei beccata, gli raccontai tutto: il mio ultimo incontro con Ruben, il patto che avevamo stretto, lo scambio dei numeri di cellulari, e anche la litigata con Conrad.
Mi aspettavo che si infuriasse, ad esser sincera, ero certa che i miei comportamenti lo avrebbero portato all'esasperazione, invece Jesse rimase in silenzio per tutto il tempo, con aria riflessiva. Quando conclusi il mio racconto, non parlò affatto, rimase con la testa sul cuscino a guardare il muro e a tamburellare il dito sul mento.
Era rarissimo che mio fratello non parlasse, specie di fronte ad argomenti per lui così succosi, mi domandai cosa stesse succedendo.
«Jesse?» lo chiamai confusa.
Lui non rispose.
«Sei arrabbiato?»
Una risata profonda lo travolse, scuotendogli tutto il corpo, fu talmente forte da risuonare per tutta la stanza. Un sorriso gigantesco gli tagliava le labbra, e invece dell'ira che ero certa gli avrei visto in viso, scorsi piuttosto un'ilarità e soddisfazione mai aspettata.
«Lo sapevo.»
«Cosa sapevi?» domandai.
«Stai facendo esattamente tutto quello che non dovresti fare» dichiarò, ma lo fece con felicità, «ti stai impelagando in un casino assurdo e seppur ne sei consapevole lo fai lo stesso.»
«E questo ti rende felice perché?»
«Oh, Callisto, finalmente...» Allungò la mano e la strinse alla mia. «Finalmente ti stai comportando davvero come una ragazza della tua età.»
Lo guardai perplessa negli occhi. «Cosa intendi?»
«Finora ti sei sempre dovuta occupare di me» mi spiegò. «E con mamma e papà non hai margine d'errore, non hai mai potuto commettere uno sbaglio. Sei sempre stata la ragazza gentile e brava che non si ribella mai.»
Sentii lo stomaco accartocciarsi, non aveva idea di quanti sbagli avessi commesso davanti ai nostri genitori, non poteva sapere le punizioni che ricevevo per averli fatti.
Ed era meglio così.
Era giusto così.
«Ma tu... non sei contento di quello che sto facendo.»
«No, non lo sono. Continuo a dire che è meglio se stai alla larga da Mr Bad Boy, ma Callisto» mi sorrise, «io non sono che tuo fratello, spetta a te decidere come vivere la tua vita. E se riesci a ribellarti anche nei miei confronti, beh, per me questo è un segno che adesso stai imparando a provare i tuoi sentimenti senza più proiettarli sui miei bisogni.»
Ne parlava come se fosse la conquista del secolo, ma nel sentirglielo dire io non mi sentii altrettanto entusiasta. Quel margine di errore che ci stava separando adesso mi sembrava un oceano infinito da nuotare per poter arrivare a lui di nuovo, e questo proprio non mi piaceva.
Non ora, non ora che lui stava per scivolare via per sempre dalla mia vita.
«Quindi... sto facendo la classica adolescente ribelle?»
«Esattamente.» Mi fece l'occhiolino. «Stai vivendo la normalità, stai affrontando le tue emozioni, stai prendendo le prime decisioni per te stessa, i tuoi primi sbagli. Non è meraviglioso?»
Mi sentii il sorriso marcire in bocca, ma non lo lasciai crollare. Gli occhi verdi di lui luccicavano felici.
«Non preoccuparti» mi rincuorò, «è solo la natura, è così che va. Sii quel che senti di essere, Callisto: ribelle, accomodante, giusta o sbagliata. Non importi limiti, non impostare tutto a seconda delle mie necessità. Pensa soltanto a te.»
«Ma Jesse...» mi fermai un istante, «tu stai...»
«Morendo, lo so. E manca poco.» Il suo sguardo si addolcì. «Ma non significa niente. Tu sei ancora tu, e devi vivere la tua vita. È necessario che impari a farlo, così saprai cosa fare anche una volta che non ci sarò più.»
Cucii il sorriso sulle labbra con talmente tanta forza da sentire la bocca dolere e soffrire. «Non rinuncerò a te, Jesse.»
«Lo so» soffiò felice. «E io a te, fino alla fine.»
Mi strinse con più forza la mano.
«Callisto?»
«Sì?»
Sollevò le labbra.
«Sei stupenda.»
*
«Insegnarti a truccarti? Io?»
Eve mi guardò accigliata, mentre io prendevo la mia lattina di CocaCola dalla macchinetta. Le lezioni erano finite e gli studenti avevano già preso a incamminarsi verso l'uscita della scuola, ci eravamo fermate quell'attimo solo per il mio bisogno urgente di prendere quella bevanda.
«A truccare, non truccarmi» la corressi con la lattina in mano. Tornammo a incamminarci verso la hall d'ingresso. «Sei l'unica a cui posso rivolgermi.»
Lei mi guardò sorpresa. Quel giorno indossava una salopette di jeans e una canottiera bianca, i capelli erano stati legati in una treccia a spina di pesce e gli occhi chiari mi fissavano dal loro cipiglio. «Credevo non fossi interessata a queste cose» mi fece notare mentre uscivamo dai portoni di vetro. «Perché questo improvviso desiderio?»
«C'è una persona che voglio truccare» le spiegai. Stavamo scendendo i gradini, quando, nel tentativo di aprire la linguetta, la CocaCola non mi scivolò di mano e rotolò giù lungo tutti i gradini, per arrivare poi a terra, in mezzo agli altri studenti intenti a tornare a casa. Mi affrettai a riprenderla e, quando lo feci, sospirai; adesso non avrei più potuto berla, se l'avessi aperta, mi sarebbe schizzata tutta quanta in faccia.
«Sono più che felice di insegnarti a truccare» dichiarò la mia amica con un sorriso emozionato. «Ma ora sono curiosa, chi è la persona che vuoi truccare? Qualche fiamma?»
«L'unica fiamma che conosco» dichiarai, «è quella per cui Prometeo si è fatto divorare le interiora ogni giorno.»
Sghignazzò, uscimmo dai cancelli d'ingresso e ci dirigemmo verso il centro. A molti metri di distanza, davanti a noi, scorsi la figura inequivocabile di Ruben: lo zaino nero issato su una spalla, la maglia a maniche lunghe nera, i jeans slavati. Camminava a passo accomodante, completamente isolato dal resto degli studenti che, di fatto, sembravano volerlo evitare a tutti i costi. Era come se attorno a lui si fosse creato un campo magnetico inespugnabile a cui nessuno poteva accedere.
Eve sghignazzò per la mia battuta. «Va bene, però, prima, avremo bisogno di fare compere. Ogni trucco cambia a seconda della persona a cui lo si applica.»
«Avrò bisogno del tuo aiuto, allora, perché a stento so cos'è il rimmel.»
«Lascia fare a me» dichiarò con serietà, «con le mie lezioni, avrai le stesse conoscenze di una make up artist.»
«Non c'è bisogno di arrivare a tanto.»
«Prova a prendere qualcosina anche per te.» Con l'anca mi diede un colpo al bacino. «Andiamo» dichiarò poi, «muoio dalla voglia di agghindarti. Saprei già cosa ti starebbe bene addosso.»
«Sei tu la modella, non io.»
«È vero, ma ti sta davvero bene essere una pubblicità vivente di Crystal Ballerina?» domandò a quel punto e con la mano indicò la mia mise: una canottiera bianca con Crystal nella sua posizione per trasformarsi e un paio di pantaloncini con la faccia di Pou stampata dappertutto.
Schioccai la lingua, colpita in pieno. «Crystal è sacra, Crystal è la vita.»
«Sono d'accordo, ma un nuovo look potrebbe aiutarti ad avere una nuova visione di te.»
Ero sul punto di dire qualcosa, quando, alle nostre spalle, udii una voce femminile sghignazzare e mormorare: «Una nuova visione su come essere puttana come lei, forse.»
Mi bloccai ed Eve lo fece con me. Il suo volto si fece pallido quanto lo era quello di mio fratello, la vergogna si abbatté su di lei con una pressione invadente, ricurvandole le spalle, la schiena, storcendole le labbra in una smorfia.
«Andiamo» mi sussurrò, prendendomi per il braccio. «Lascia stare.»
«Così le insegna come scoparsi mezzo mondo.»
Stavolta mi girai decisa verso la fonte di quella voce: una ragazza della nostra età, minuta e magra, dai riccioli rossi e le lentiggini su tutto il viso, un paio di occhi spietati color cioccolato. Ridacchiava e sghignazzava insieme a una sua amica, dai lunghi capelli biondi e più in carne. Quando i nostri sguardi si incrociarono, la rossa mi sorrise con provocazione, le sopracciglia sottilissime inarcate. «Cosa c'è?» domandò con fare accomodante. «Stavamo parlando di qualcun altro, non di voi. Come siete egocentriche.»
«Andiamo, Callisto» mi ripeté Eve, stringendomi con più forza il braccio. Eravamo lungo il marciapiede della strada, e altri studenti lo stavano percorrendo oltre a noi, ma a nessuno sembrava interessare quello che stava succedendo. Tenevano tutti i capi chini, fingevano di non vedere. Sollevai il capo davanti a me: Ruben era ancora più lontano di prima, ma si era fermato. Mi accorsi in un istante che ci stava osservando.
«Callisto» disse ancora Eve, strattonandomi con forza in avanti. Il gesto fu talmente brusco che la lattina mi cadde a terra un'altra volta. Mi piegai per riprenderla dal marciapiede, quando: «Ecco, secondo me le ha insegnato questa posizione apposta, così lo riesce a prendere meglio da dietro.»
Mi risollevai, la CocaCola stretta tra le mie mani. Guardai Eve: il suo volto imporporato dalla vergogna e l'umiliazione. Guardai le ragazze: fiere del loro operato, ridacchianti e felici di star insultando sempre di più delle loro coetanee.
Sentivo il sorriso che stringevo tra le labbra tentare di scivolare via e svanire, e mi domandai se quello che la mia amica voleva fare, scappare via, fosse veramente giusto.
Sii quel che senti di essere, Callisto.
Le parole di Jesse risuonarono nella mia testa sia come monito che come invito.
Io... non volevo quella situazione.
Non mi piaceva.
Detestavo vedere il viso sconfitto di Eve, la sua vergogna, e ancor più detestavo l'impotenza che provavo nel rendermi conto di non dover far niente.
Ma davvero non dovevo far niente?
Era quello che mi ero imposta per tutta la vita, la regola che mi ero data per vivere meglio, per non soccombere alle punizioni, per non perdere Jesse...
Ma ora... ora non c'erano più loro.
Erano estranei a quella faccenda, ed ero rimasta solo io.
Solo io.
E Jesse... Jesse aveva detto che bastava che fossi me, semplicemente me.
E quel che io ero...
Strinsi con più forza la lattina, tirai fuori il mio migliore sorriso e mi staccai dalla presa di Eve.
«Callisto... Callisto, dove vai? Torna qui» la sentii dirmi alle spalle, ma continuai imperterrita il mio cammino, diretta alle due ragazze.
Mi fermai davanti alla ragazza dai ricci rossi, la guardai in faccia e mostrai i denti col sorriso.
Lei aggrottò la fronte. «Cosa vuoi?» domandò. «Te l'ho detto, non stavamo mica parlando di-OH MIO DIO!»
La lattina che avevo aperto davanti ai suoi occhi in un istante fece esplodere tutta la CocaCola contro la sua faccia. Il liquido le finì in volto, le colò in una schiuma di gas lungo tutto il collo, le spalle, la maglietta bianca. L'amica al suo fianco spalancò la bocca, sorpresa, e quando la lattina rimase vuota a metà, la afferrai per la sua estremità con la mano e la usai per colpire con tutta la mia forza la ragazza sulla guancia destra.
Un unico, veloce gesto che sostituì lo schiaffo che avrei voluto darle.
Non persi mai il mio sorriso.
«L'ho fatto per aiutarti» dichiarai con dolcezza, «adesso sei sia sporca dentro che fuori. Sei adorabile.»
Lei per un istante rimase senza parole. Si toccò lo zigomo destro che era stato appena colpito e lo sguardo che mi lanciò da sotto il velo di CocaCola che le si era cristallizzato addosso mi fece intuire da subito che non si sarebbe limitata a insultarmi.
«Tu, stupida troia!»
Allungò la mano velocemente verso di me, rivolta ai miei capelli, e rapidamente io la evitai e mi voltai indietro, verso Eve e gli altri studenti sconvolti, iniziando a correre.
«Muoviti!» gridai alla mia amica. Eve aveva ancora la bocca aperta e gli occhi sgranati dallo stupore. La afferrai per una mano e la trascinai nella mia corsa.
«Stronza! Vieni qui!»
Scorsi la ragazza iniziare a inseguirmi. Mi feci spazio tra gli altri studenti sul marciapiede, e non so perché, non so per quale motivo specifico, ma iniziai a ridere incontrollabilmente.
«Ti pare il caso?» gridò Eve al mio fianco.
«Non riesco a trattenermi! È più forte di me!»
Raggiungemmo Ruben, ancora fermo a guardarci, e, quando lo superammo, io mi fermai un istante, uno solo: «Mi sa che hai ragione!» gli urlai a pieni polmoni tra le risa. «Sono proprio stupida!»
E nel dirlo, scoppiai ancor più a ridere.
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