Qualcuno a cui appartenere

La sera, quando la direttrice del dormitorio mi disse che avevo visite, non rimasi poi così sorpresa di trovarmi mamma e papà dentro la mia stanza.

Avevo immaginato avrebbero reagito in quel modo, una volta saputo che Jesse era uscito dalla clinica senza accompagnamento, col solo scopo di venirmi a trovare. Non avevo avuto dubbi sul fatto che avrebbero trovato quel gesto una scusa perfetta per prendersela di nuovo con me.

Mamma all'inizio non disse niente, si guardò attorno nella camera alla ricerca, di sicuro, di cose da distruggere. Papà fu il primo ad agire. Prese dal mio armadio i miei vecchi vestiti estivi, una t-shirt e un paio di pantaloncini, e mi disse di andare a indossarli. Mi disse anche che aveva già avvertito la direttrice che avrei passato la notte fuori.

Capii subito quali fossero le loro intenzioni, mi domandai cosa fare. Creare una scenata sul momento per impedirgli di portarmi via da lì? In questo modo, però, avrei attirato più attenzioni del dovuto.

Decisi, a malincuore, di obbedire a quello che mi dicevano. Andai in bagno a cambiarmi e, quando uscii, cominciai subito a sentir freddo. Non mi permisero di portare via con me il cappotto, papà mi afferrò per il polso e cominciò a trascinarmi via dai dormitori.

Erano già le dieci di sera, a quell'ora Ruben era già sgattaiolato via, mi domandai come avrebbe reagito una volta accortosi che non ero in stanza.

Papà mi fece entrare dentro la sua macchina, sui sedili posteriori. Entrambi non dissero una sola parola durante il viaggio, mentre io battevo i denti a causa del freddo. Guidarono per quelle che mi parvero ore interminabili ma che in realtà si rivelarono soltanto una decina di minuti.

Capii subito in quale posto mi avevano portata, lo riconobbi dalle case diroccate con i tetti trafitti dalle antenne abusive e gli intonaci scorticati, dai gruppetti di persone che si radunavano negli androni bui delle vie, dall'odore di erba che si sentiva bruciare anche con i finestrini alzati.

Il Dump.

Papà si fermò in mezzo alla strada, in una viuzza dall'asfalto devastato e i marciapiedi rovinati, deserta, con le villette che parevano uscite da un set cinematografico horror degli anni '70.

«Scendi» mi ordinò mamma. «Torna ai dormitori da sola.»

Non era la prima volta che mi facevano quel trucchetto. Era però la prima volta che mi portavano in un posto pericoloso come il Dump.

Non potevo neanche chiamare un taxi o uno Uber con il telefono, mi avevano costretto a lasciare il cellulare nella mia stanza.

Ma sapevo benissimo che tra il restare dentro quell'abitacolo o il Dump, il pericolo più grande lo correvo proprio dentro quell'abitacolo.

Uscii dalla macchina e l'autovettura subito ripartì, sfrecciando per la strada come in una gara di Formula 1.

Codardi.

Mi tastai le tasche dei pantaloncini. Fortunatamente, senza farmi scoprire, ero riuscita a nasconderci lo spray al peperoncino che Jesse mi aveva regalato. Mai come allora mi ritrovai a ringraziare l'iperprotettività di mio fratello.

Mi guardai attorno: era buio pesto, pochi erano i lampioni che illuminavano le strade e quelli che c'erano sfarfallavano o avevano un bagliore così tenue da essere a malapena percepibile.

Non conoscevo il Dump così bene da sapermi orientare, ma avevo fatto attenzione alle strade che papà aveva percorso con la macchina, avevo un'idea più o meno generale di come indirizzarmi senza perdermi.

Il problema era il freddo: si congelava. La mia pelle scoperta si stava accartocciando e tremava tutta, e il fatto che fossi così esposta in piena notte di certo non mi faceva sentire meglio. Agli occhi di chi mi vedeva dovevo apparire come una pazza psicopatica che aveva deciso di vestirsi in maniera estiva alle porte dell'inverno.

Mi sfuggì uno starnuto mentre cominciavo a incamminarmi, e il naso iniziò a colarmi dopo pochissimi minuti.

L'ultima volta che avevano applicato questa punizione doveva essere stato... due anni fa. Era in pieno inverno, e mi avevano costretta a indossare un vestito di flanella. Ero tornata a casa dopo due ore di camminata e mi ero ritrovata con la febbre altissima il giorno dopo e delle vesciche sanguinanti ai piedi.

Speravo non si ripetesse di nuovo quell'esperienza. Ma ora che ci riflettevo, Ruben andava sempre al Dump durante le sue scappatelle, no? Non me l'aveva mai detto chiaramente, ma ero certa che fosse così, era l'unico luogo che conosceva, d'altronde. E se ogni volta tornava in tempo per il mattino, questo voleva dire che non era poi così distante dai nostri dormitori.

Mi fermai un istante, mi domandai se fosse il caso di provare a cercarlo.

Ma dove cominciare? Anche se piccolo il Dump era comunque un quartiere con centinaia di vie, e di certo non potevo mettermi a bussare a ogni porta del posto per chiedere se qualcuno avesse visto un bad boy con l'eterocromia.

«Ehi, bella!»

Mi voltai. Un ragazzo dal cappuccio nero, con le mani in tasca, mi si stava avvicinando a passo spedito.

«Che ci fai qui tutta da sola? Vestita così, poi? Sai cosa provochi a noi-Argh! Maledetta puttana! Brucia!»

Lo spray al peperoncino di Jesse funzionava davvero, allora! Approfittai del momento in cui lui arretrò per toccarsi gli occhi scottati per correre via a perdifiato lungo la strada. Corsi, corsi e corsi, i lampioni mi sfrecciavano davanti e così le case rovinate dal tempo. Era anche l'unico modo che mi restava per rimanere al caldo. Superai un angolo in cui si trovava un bar e una decina di uomini intenti a bere che, nel vedermi, iniziarono a fischiarmi e a urlarmi contro oscenità.

Mi fermai dopo una decina di minuti per riprendere fiato, sudata dalla testa ai piedi, appoggiandomi con le mani sulle cosce per reggermi. Studiai il punto in cui mi ero fermata: alla mia sinistra c'era uno spiazzale in pietra bianca, dalle mattonelle scorticate e bucate, attorno a cui si trovavano palazzi alti ma decadenti, con la vernice bianca che sembrava esser stata presa a morsi da un mostro, le luci delle finestrelle ancora accese e i tetti a spiovente rovinati dal tempo e le intemperie. Da uno di essi, quello al centro, il più rovinato di tutti, provenivano delle grida funeste, urla così forti da squarciare il cielo e farmi gelare il sangue.

«Ti ho detto che devi smetterla di rompermi i coglioni, lurido stronzo!»

Il portone d'ingresso di quel palazzo — vecchio e rotto quanto l'edificio a cui apparteneva — si aprì, e quello che in penombra mi parve un pesce palla gigante uscì fuori trascinando con sé qualcosa... No, qualcuno. Lo gettò a terra e cominciò a prenderlo a calci. Uno, due, tre... non riuscii più a contarli. «Questa è casa mia ora, hai capito, bastardo? Tu sei fuori! Fuori! Levati dal cazzo!»

Mi ci volle un po' per adeguare la vista all'oscurità, ma alla fine lo riconobbi. Il ragazzo che stava venendo pestato, che tentava di ribellarsi ad ogni colpo, che si rifiutava di venir sottomesso in quel modo... quello era senz'altro Ruben.

Corsi da lui non appena me ne accorsi, mi frapposi fra Ruben e l'uomo palla che lo stava calciando. «Così lo ammazzi!»

L'uomo si fermò, finalmente riuscii a vederlo bene sotto la luce del lampione. Era altissimo, sforava i due metri e sicuramente anche i centoventi chili, era completamente calvo e aveva occhi a palla rossi e lucidi per il freddo. Parve sorpreso del mio arrivo, perché fece un passo indietro. Approfittai del momento per voltarmi verso Ruben e aiutarlo a sollevarsi.

«È per questo che torni sempre con i lividi?» Lui mi guardò sconvolto. «È colpa sua?»

«Che cazzo ci fai qui? Perché cazzo sei vestita così?» Il suo tono era iracondo, e nonostante fosse stato appena preso a botte trovò comunque la forza di fissarmi pieno di collera.

«Ah, ti sei trovato la fidanzatina, Ruben?»

Non so con quale forza, ma Ruben si rimise subito in piedi. Mi fece indietreggiare, costringendomi a vedergli solo le spalle e la schiena, sollevando un braccio in alto come scudo per proteggermi.

«Lasciala in pace, Rick.»

«E tu lascia in pace me, testa di cazzo.»

«Quella è casa mia!»

Rick scoppiò in una sonora risata. «Non più, dolcezza! Non sei in una famiglia affidataria, ora? Questo posto ha smesso di essere casa tua da quando hai avuto la brillante idea di chiamare il 911.»

Vidi il corpo di Ruben irrigidirsi, la mano sollevata stringersi a pugno.

«Io continuerò a tornare» gridò. «Tutte le notti, ogni notte, fino a quando tu non ti sarai tolto dal cazzo.»

Guardai le finestre del palazzo, le luci ancora accese, notai le sagome di molte persone che si affacciavano per osservare meglio la scena. Da come si comportavano, era evidente fossero abituati a quella situazione. Non mi sorpresi neanche del fatto che non chiamassero la polizia. Il Dump era famoso per la sua omertà: solo grazie ad essa i suoi abitanti potevano tirare avanti senza rischiare ripercussioni.

Rick, davanti alla testardaggine di Ruben, scoppiò a ridere. «Io ci marcirò qui dentro, ragazzo» dichiarò con orgoglio. «E tu non puoi farci proprio niente.» Lo guardò. «Non impari mai, eh? Sei proprio una testa di cazzo, proprio come tua madre.»

Ruben fece un passo in avanti, ma si fermò, dandomi un'occhiata. Era preoccupato per quello che poteva succedermi se mi avesse lasciato indifesa? Avrei voluto dirgli di pensare più a sé stesso che a me: gli colava copiosamente sangue dal naso e aveva le nocche sbucciate.

«Sto bene» gli dissi. «Ma così ti farai ancor più male.»

«Tu non dovresti essere proprio qui!» tuonò. «Che cazzo ci fai al Dump?»

Inspirai con forza, tremando dal freddo. Ruben aggrottò la fronte, mi costrinse a fare un altro passo indietro. In un gesto sbrigativo, si tolse il suo cappotto nero e me lo posò sulle spalle, rimanendo con solo il suo maglione. Davanti a quel gesto, Rick si sganasciò dalle risate.

«Ma guardalo, che principe azzurro! Finalmente anche tu sai comportarti come un essere umano, eh, stronzetto?»

Il cappotto era caldo e sporco di sangue sul colletto, me lo sistemai meglio addosso e guardai Rick. Era lui il motivo per cui Ruben si faceva male ogni giorno, quindi. Lui che lo picchiava tutte le sere. E se Ruben non riusciva a sconfiggerlo, neanche con il suo talento innato per le risse, questo significava che doveva possedere una violenza inaudita.

Il portone d'ingresso del palazzo si aprì di nuovo, una sagoma esile e fragile sbucò fuori e, non appena la vide, Ruben sussultò.

Una donna mingherlina, quasi anoressica, con la pelle che sembrava caderle a pezzi dal viso, gli occhi infossati di un azzurro brillante e i capelli castani spettinati e tagliati in malo modo in un caschetto, apparve al fianco di Rick. I suoi tratti e lineamenti, la sua bellezza innata, così simili a quelli di Ruben, mi fecero indovinare subito di chi si trattava.

Ruben guardò sua madre con un'espressione intraducibile negli occhi, mentre quest'ultima si aggrappava al braccio di Rick e gli sussurrava qualcosa all'orecchio. Era rimpianto? Dolore? Nostalgia? Non avrei saputo definirlo, ma qualunque fosse l'emozione che stava provando, lo stava anche soffocando.

«Te l'ho già detto» disse alla fine sua madre, rivolgendosi al figlio, la voce fredda, impassibile, gli occhi più indifferenti che avessi mai visto addosso a qualcuno, «vattene.»

La mano di lui tremò.

«Gli assistenti sociali ti hanno proibito di vedermi, lo sai.»

«Hai sentito tua madre, ragazzo? Levati dal cazzo.»

Guardai meglio la signora. Era giovanissima, non doveva avere più di trent'anni, eppure addosso portava segni di spossatezza non indifferenti. Sotto la luce del lampione, mi accorsi che le mancavano molti denti e che aveva iniziato a perdere i capelli: chiazze calve le bucherellavano la testa.

Non mi ci volle molto per riuscire a capire la sua situazione. Guardai Rick, e finalmente compresi perché Ruben ogni notte giungesse fin lì col solo scopo di cacciarlo di casa, a costo di venire pestato a sangue.

Mi strinsi meglio il cappotto che mi aveva dato, sentii una tremenda fitta al cuore mentre lo guardavo osservare con tormento la propria madre che si aggrappava al braccio del suo aguzzino. All'improvviso mi fu chiaro tutto: la vita che aveva vissuto, l'ambiente in cui era cresciuto, le sue silenziose sofferenze.

Ci furono dei dolorosi minuti di silenzio, alla fine Ruben sospirò, mi prese la mano e mi trascinò via da lì, dando le spalle a quei due.

«Ecco, bravo, vattene, stronzetto! E non farti rivedere mai più, capito?»

Non rispose, continuò a marciare fuori dal piazzale, verso la strada, in silenzio. Dal modo in cui serrava la mascella, capii che farlo per lui era una violenza inenarrabile. Ma doveva aver capito che se avesse proseguito quella lotta, avrebbe messo ancor più a rischio sia me che sua madre.

Gli strinsi con forza la mano, Ruben mi guardò. Arrivati alla strada, lontano dal palazzo, mi domandò ciò che già mi aveva chiesto, la voce sempre più tuonante: «Che cazzo ci fai qui?»

Esalai una nuvola di alito ghiacciato che svolazzò tra noi due e si disperse nell'aria. «Non ti ho seguito, lo giuro. La verità è che-» mi fermai, non sapevo che scusa inventare. «Ecco, mi hanno portata qui e... e ho perso di vista i miei accompagnatori.»

«Ti hanno portata qui?» Il suo volto era rosso, livido, ma non sapevo se dal freddo o dalla rabbia. «Vorrai dire che ti hanno scaricata qui. E con questi vestiti, poi? Ti hanno costretto loro a indossarli?»

«È la moda del momento» biascicai. «Davvero, non temo il freddo.»

«Callisto» latrò. «Hai idea di quanto sia pericoloso per una donna venire qui al Dump da sola? Di notte, poi?»

La sua stretta sulla mia mano era irreprensibile, mi faceva male.

«Perché non hai chiamato un taxi o uno Uber?»

«Ho dimenticato il telefono.»

«Ti hanno impedito di portartelo, non è così?»

Quasi detestavo la sua capacità di tradurre tutte le mie bugie, ma era lo stesso motivo per cui mi piaceva così tanto la sua compagnia. Sorrisi. «Ti sanguina il naso» dissi. «Hai bisogno-»

«Non è proprio il momento per preoccuparsi per me, Callisto.»

Nonostante il suo cappotto, sentivo ancora freddo, tremai un po'. Ruben sospirò. «Torniamo ai dormitori. Hai lasciato la finestra della tua stanza aperta?»

«Sì» biascicai, mentre mi portava lungo la strada, ben consapevole del percorso che dovevamo fare per tornare alle nostre stanze.

Camminammo a passo svelto senza dire una parola, mi aspettai che lui lasciasse andare la mia mano a un certo punto, ma così non fu. Continuò a stringerla con fare protettivo, come se temesse che potessi scappare via o esser trascinata lontano da lui in qualsiasi momento. Il calore che mi trasmetteva quella stretta, per quanto esiguo, mi parve un piccolo fuocherello con cui riscaldare tutte le mie emozioni congelate da tempo.

Zoppicava un po', Rick doveva averlo colpito alla gamba sinistra, sembrava faticare a posarne il piede a terra. Lui, però, non si lamentava, non mostrava alcun segno di sofferenza in viso, marciava guardando dritto davanti a sé con gli occhi ancora aggrottati dalla collera.

«Mi dispiace» mi ritrovai a dire, dopo venti minuti di silenzio e di camminata.

«Non sei tu che dovresti chiedere scusa, ma i figli di puttana che ti hanno lasciata sola al Dump.»

Mi ritrovai a sorridere senza neanche volerlo: era bello avere qualcuno che mi difendeva così per la prima volta.

Arrivammo al muretto dei dormitori, sul punto in cui ci trovavamo c'erano dei cassonetti dell'immondizia accostati ad esso. Capii che scavalcandoli per tutto quel tempo Ruben era riuscito a saltare sul muro. Mi aiutò a issarmi sui loro coperchioni, nonostante la ferita alla gamba, e quando ci ritrovammo sul cornicione, davanti all'albero di quercia e il suo grande ramo, mi domandò: «Ce la fai a saltare?»

Annuii, anche se non ne ero troppo sicura. Guardai il cortile dei dormitori, non c'era traccia delle guardie notturne. Ruben, senza dire una sola parola, mi sollevò di peso da terra con entrambe le braccia, in una posa cavalleresca che già avevo avuto modo di sperimentare.

Quando saltò dal muro al ramo, chiusi gli occhi. Li tenni serrati e sentii l'aria attraversarmi mentre scivolavamo a terra come in uno slittino, li riaprii solo quando non sentii più il vento frustrarmi il viso: eravamo già dentro il cortile, a pochi metri da noi la finestra ancora aperta della mia stanza.

Ruben mi rimise a terra, lo ringraziai stringendogli la mano, mi ignorò.

Arrivammo alla mia stanza stando bene attenti a non provocare troppi rumori che attirassero l'attenzione o svegliassero le altre camere. Una volta dentro, richiusi la finestra e sospirai di piacere sentendo il freddo venire a mancare.

Non ebbi tempo di togliermi il suo cappotto e restituirglielo, Ruben fu su di me, imperioso, gli occhi brillanti. «Non è la prima volta che lo fanno, non è così?»

«Come?»

«Lasciarti da sola in un posto pericoloso, nel cuore della notte, così da costringerti a tornare a piedi, non è la prima volta che i tuoi genitori lo fanno, non è vero?»

Serrai le labbra, mi guardai le dita ancora rosse dal freddo.

«Perché li hai seguiti se sapevi già quali erano le loro intenzioni?»

Intrecciai le mani, fissai il pavimento, la punta consumata delle mie scarpe. «Potrebbero impedirmi di stare con Jesse» ammisi con un sorriso. «Ho imparato che la mossa migliore da fare con loro è assecondarli sempre.»

Risollevai il capo, aveva le mascelle serrate.

«È ok» dissi serena, «ormai so come gestirli, davvero. E poi ho con me lo spray al peperoncino, posso difendermi, prima l'ho fatto quando-»

«Cosa farai quando Jesse morirà?» Lo guardai sorpresa. «Li denuncerai?»

Mi morsi il labbro, mi sforzai di continuare a sorridere. «Io... non ci ho pensato.»

«Non ci hai pensato?» La sua voce era una miscela di incredulità e ira pura.

«Non riesco a pensare a una vita dopo di lui» confessai a denti stretti, quasi vergognandomene. «Ad ogni modo, quando mio fratello morirà, i miei genitori saranno troppo presi dal dolore per pensare a me. Avrò un po' di tempo per capire come comportarmi e-»

«Callisto» mi chiamò. «Hai la più pallida idea del rischio che hai appena corso?»

Mi si congelò il sorriso sulle labbra.

«Se non mi avessi incontrato, non avresti conosciuto le strade. Avrebbero potuto farti qualsiasi cosa. Il Dump è una giungla, vige la legge del più forte. Avresti potuto...» Si fermò, inspirò a fondo, le narici fremettero. «Va' a cambiarti, stai ancora tremando.»

Obbedii, neanche io volevo proseguire quella discussione. Tirai fuori il pigiama da sotto il cuscino e corsi in bagno per indossarlo. Una volta fatto, mi sentii meglio, accalorata. Uscii fuori e ritrovai Ruben seduto sul bordo del mio letto, il sangue che ancora gli colava dal naso. Presi un asciugamano, lo bagnai nel lavandino e andai da lui per ripulirlo. Gli chinai la testa in basso per impedire al sangue di intasargli la gola, mentre con la spugna lo assorbivo.

«So che mi puoi capire» gli dissi nel mentre, «anche tu pur di proteggere tua madre ogni giorno rischi di venir pestato a morte.»

Ruben non rispose, mi guardò soltanto, l'occhio azzurro brillava come uno zaffiro in mezzo a una montagna di carbone.

«Non ti chiederò di spiegarmi» proseguii. «Ti chiedo unicamente di capire che siamo sulla stessa barca, solo in modi diversi.»

Ci rifletté, il silenzio che lo accompagnò fu un chiodo spuntato a bucarmi lo stomaco.

Non avevo la più pallida idea di cosa stesse pensando, non riuscivo neanche a immaginarlo. In viso aveva il ciuccio di sempre, l'irritazione che lo calcava ogni giorno, ma gli occhi sembravano persi in una riflessione profonda.

«Ti farò delle domande» disse alla fine con voce roca. «E tu ne farai a me. Uno alla volta. Se non possiamo rispondere, offriremo all'altro un pacchetto di sigarette.»

Mi venne da ridere. «Ma io non fumo.»

«Vorrà dire che ti comprerò un gadget di Crystal Ballerina.»

Mi stupiva il suo desiderio di voler conoscere meglio la mia situazione, a costo di offrirsi a spiegare la sua, lui che così tanto amava la solitudine. Era... era la prima volta che qualcuno dimostrava un tale interesse, che qualcuno arrivava a tanto... per me.

Esitai, la mano che gli tamponava il sangue tremò appena.

«Ok» avevo la voce flebile, «posso cominciare io?»

Annuì.

Strofinai l'asciugamano contro le sue labbra per ripulirle dalle ultime tracce di sangue. «Quell'uomo... Rick, non è tuo padre, vero?»

«No» rispose subito. «È il compagno di mia madre. Non so chi è il mio vero padre, non lo sa neanche lei.»

Tirai indietro l'asciugamano, lui mi guardò dritto negli occhi. «È rimasta incinta di me a sedici anni, e per questo è stata cacciata di casa. Ha iniziato a prostituirsi da allora.»

Provai a immaginare che razza di vita poteva aver vissuto in quel contesto, ma non ci riuscii. Da come ne parlava, però, non sembrava che il ricordo lo facesse soffrire: aveva uno sguardo limpido e sereno.

«So cosa stai pensando, ma a differenza di quello che si crede avere una madre prostituta non è così tremendo come si vede nei film.» Si passò una mano tra i capelli. «Per me... per me il suo era un lavoro qualunque, solo diverso dagli altri.»

In piedi davanti a lui, non aggiunsi altre domande, attesi in silenzio il suo turno, posando l'asciugamano sporco di sangue al suo fianco, sul bordo del letto.

«Perché i tuoi genitori ti fanno questo?»

Avevo immaginato che sarebbe stata quella la prima domanda, mi sfuggì un sorriso. «È per un motivo stupido, in realtà, una superstizione.»

Schiuse di poco le labbra.

«Io non ero prevista. Mio padre aveva fatto la vasectomia, ma mamma è rimasta comunque incinta. Loro hanno interpretato tutto ciò come un presagio negativo.» Giocherellai con il colletto del mio pigiama rosa. «Quando Jesse si è ammalato... penso che abbiano avuto la conferma che sia stata io a portare quella sventura.»

Non disse nulla, lo guardai.

«Se li denunciassi... Jesse rimarrebbe completamente da solo. Io non posso... non posso farlo.» Sorrisi, ma avrei voluto soltanto piangere. «Lui è l'unico che mi abbia mai voluto bene. Voglio restare al suo fianco ad ogni costo, anche se questo significa... accettare quello che mi fanno i miei genitori e nasconderglielo.»

«Hai intenzione di celarglielo fino alla fine?»

«Sì» risposi a occhi chiusi. «Voglio che Jesse muoia senza mai sapere niente. Solo così potrà andarsene il più sereno possibile.»

«Ti renderebbe felice farlo?»

«La mia felicità è quella di Jesse. È sempre stato così.»

Sigillò le labbra, emise un sospiro lieve, quasi esausto.

«Tocca a me» dissi, prendendo il disinfettante dal comodino e iniziando a tamponarglielo con l'ovatta su un graffio in faccia. «Rick abusa di tua madre?»

Le spalle di Ruben si irrigidirono, un'ombra andò a coprirgli gli occhi. «È entrato nella sua vita un paio d'anni fa, era uno dei suoi clienti, poi hanno iniziato una relazione, e lui si è trasferito a casa nostra.» Una vena sul suo collo iniziò a pulsare feroce. «Ha iniziato a comportarsi come se quello fosse il suo regno, a controllare tutti i soldi di Anna, l'ha... l'ha introdotta all'eroina.» Si fermò. «E da quando lei ne è diventata dipendente, non sono più riuscito a parlarle come si deve.»

Scostai l'ovatta, applicai un cerotto sul taglio.

«Lo scorso gennaio... Anna è andata in overdose, mentre lui era con lei in casa. Quando sono tornato da scuola, l'ho trovata riversa a terra, incosciente, e quel figlio di puttana che se ne fregava... e si fumava una sigaretta, come se nulla fosse.» Strinse le mani in due pugni. «Ho chiamato il 911, l'ambulanza è arrivata e così le autorità e gli assistenti sociali, che hanno ritenuto Anna non idonea a crescermi a causa della sua dipendenza. Quando però ho fatto notare loro che era tutta colpa di quel pezzo di merda, sai cosa mi hanno detto? Mi hanno detto: "Non ha mai alzato le mani, non possiamo fare niente".»

Mi umettai le labbra, nella sua voce non traspariva alcuna sofferenza, ma sapevo che la stava provando, nascosta nei meandri del suo animo, là dove nessuno, neanche sé stesso, poteva raggiungerlo.

Ruben inspirò con rassegnazione. «In realtà, non è che abbia chissà che grande rapporto con Anna» mi confessò. «Non è mai stata una madre affettuosa, non abbiamo mai parlato molto tra di noi. Non ricordo una sola volta in cui mi abbia mai abbracciato o fatto qualche gesto amorevole. Non ci siamo mai voluti bene. Anche così, però...» Chinò lo sguardo a terra, le sue lunghe ciglia tratteggiarono schizzi d'ombra sui suoi zigomi. «Non lo so neanche io perché lo faccio. So solo che quando l'ho vista riversa a terra, quella volta, con le labbra blu, incosciente...» Si fermò ancora. «Voglio solo essere sicuro di essere il primo a scoprirlo, se morisse. Non voglio essere l'ultimo a saperlo. Voglio solo... assicurarmi di vederla un'ultima volta.»

Una stretta al petto mi impedì di respirare. Mi inginocchiai a terra, davanti a lui, con un sorriso accennato, così da poter incrociare i suoi occhi. Presi le sue mani ancora fredde e sporche di sangue, strette in due pugni, tra le mie.

«Sai» dissi, «ho sempre pensato che il rapporto tra genitori e figli è molto squilibrato.»

I suoi occhi incrociarono i miei, li fossilizzarono.

«Pensaci: quando un genitore diventa tale, ha già vissuto molti anni, ha le sue amicizie, i suoi contesti, persone a cui rivolgersi... mentre per un figlio i genitori sono tutto il suo mondo. Non ha nessun altro a cui aggrapparsi.»

Sentivo ancora freddo, la punta del naso congelata, ma la stretta con le sue mani era un cuore pulsante di fuoco che bastava per scacciar via quelle sensazioni.

«E forse... è questo che ci porta inevitabilmente ad amarli, anche se tutto ciò che ci hanno fatto è stato solo male.» Mi umettai le labbra, lui non aveva smesso un solo momento di guardarmi. «Sono le prime persone che ci appartengono davvero, non è facile... cancellarle via dalla nostra vita, come se nulla fosse.»

Ruben mi osservò per molto tempo senza dire niente, sotto il suo sguardo mi sentii vista in un modo mai provato prima d'ora, e persino il mio sorriso parve perdere tutta la sua sinteticità e finzione. Sollevò appena la mano, mi scosto la frangetta che mi era finita sugli occhi.

«Se Dio ti si presentasse davanti» disse, il tono laconico, «e ti dicesse che può guarire tuo fratello, a prezzo che tu non possa mai più esser felice, accetteresti?»

La mano si posò sulla mia guancia, la contornò con una delicatezza che nessuno si sarebbe aspettato da un ragazzo come lui. Quel tocco fu così piacevole e gentile da portarmi ad arrossire mentre sorridevo. «Sì» risposi con sincera euforia, senza esitare un istante. «Vorrei tanto che fosse così semplice.»

«Rinunciare alla tua gioia, per tutta la vita, è semplice per te?»

«Comunque, una volta che Jesse se ne sarà andato...» Sentii il labbro inferiore tremarmi, lo morsi con violenza. «Io non saprò più essere felice.»

Col pollice mi carezzò l'incavo tra l'occhio e il naso, come a voler raccogliere le lacrime che ancora non potevo versare. Chiusi le palpebre nel percepire quel tocco, gli strinsi il polso con la mia mano.

«Ho paura, Ruben» mi ritrovai a confessargli senza volerlo.

Non sapevo dirgli di cosa, non lo sapevo neanche io.

Ma a occhi spenti, riuscivo già a scorgere all'orizzonte l'onda di dolore che mi avrebbe travolta quando Jesse sarebbe morto. Era gigantesca, alta più di un grattacielo, dall'acqua torbida e nera come l'inchiostro. Non riuscivo a immaginarmi un futuro in cui le sarei sopravvissuta.

Risollevai le ciglia, vidi il volto di Ruben a pochissimi centimetri dal mio. Il contrasto tra i suoi occhi, tra l'azzurro e il nocciola, tra il cielo sereno e la terra incolta, mi ricordò lo scontro che ogni giorno vivevo nell'anima: la mia artefatta felicità e il mio inespresso dolore.

«Vuoi piangere?» mi domandò, il suo alito mi bagnò le labbra.

Sorrisi. «Non è ancora il momento.»

«Solo perché non versi lacrime, non vuol dire che non stai piangendo.»

Lo guardai sorpresa, lui si avvicinò ancora, percepii lo stampo della sua bocca sulla mia guancia destra. La posò semplicemente sulla mia pelle, e la mia carne ne assorbì tutto il calore, un tepore talmente intenso da portarmi di nuovo ad abbassare le palpebre.

Si sollevò appena, si diresse sopra l'occhio chiuso, lo avvolse nell'aura delle sue labbra. Il silenzio che ci investì si incartò in una sacralità che solo noi due avremmo potuto comprendere davvero.

Alzai la mia mano, sfiorai a mia volta il contorno del suo viso e, a fiato chiuso, premetti con una delicatezza che non sapevo di possedere la mia bocca sul suo zigomo.

Forse era il calore che ci trasmettevamo con quei timbri, forse la sensazione inebriante di esser toccati per la prima volta in un modo che non comportasse lividi e cicatrici, ma continuammo quell'ascesa di baci appena palpabili l'uno su tutto il viso dell'altra.

Quando lo sentii posare le sue labbra sulle mie, il tocco fu così leggero che mi parve di averlo sognato.

Riaprii gli occhi, con il volto incorniciato dalle sue mani, mi ritrovai a dire senza neanche accorgermene: «Jesse per me verrà sempre prima di tutti.»

Per la prima volta udii la sua risata. Era profonda, ma non pesante, echeggiava rapida nell'aria come il vento. Così bella che avrei solo voluto chiedergli di ripeterla ancora e ancora, fino alla fine del mondo, fino all'implosione dell'universo stesso.

«Mi va bene il secondo posto» disse. «Non lo avevi detto tu? Io sarò una cosa tua, e tu sarai una cosa mia.»

Schiusi appena le labbra, il suo sorriso si fece divertito.

«Callisto, sii mia

Non risposi, richiusi gli occhi. Con la bocca sfiorai appena la sua.

Era il mio primo bacio, ma non lo sembrava affatto. Non mi sentivo a disagio, non mi sentivo spaventata... era come se tutto stesse riprendendo l'ordine giusto. Le sue mani tra i miei capelli, le mie dita a sfiorargli le spalle, la sua lingua che si muoveva alla ricerca della mia, il sapore metallico del piercing, quello neutro delle nostre salive...

Il suono dei nostri respiri, il battito dei cuori che pompavano per un'unica voce.

Ero sua e lui era mio.

Per la prima volta, avevo qualcuno a cui appartenere.

N.A.

*coff coff* il limone *coff coff*

E stavolta non potete neanche lamentarvi che è arrivato dopo quaranta capitoli!

Sono stata brava, neh?

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