Principe

Mi sentivo fiorire.

Non sapevo spiegarmi perché, non sapevo dare un motivo a quella sensazione, ma tutto dentro di me sembrava sbocciare: il cuore, i polmoni, i sentimenti.

Stavo correndo come una pazza, stavo venendo inseguita da una mia compagna di scuola che probabilmente voleva darmi molto più che un semplice schiaffo, eppure non mi ero mai sentita così bene.

Mi sembrava di volare, di essermi liberata del peso del corpo e di poter fluttuare come semplice aria nel mondo. Sentivo il vento sfiorarmi il volto, carezzarlo con delicatezza, e riuscivo quasi a sentire delle ali crescermi nella schiena, pronte a spiccare.

Non avevo mai potuto combattere, io.

Non me lo ero potuta permettere, perché non tolleravo il pensiero di allontanarmi da Jesse. E così avevo trattenuto per anni: l'odio, la rabbia, la vergogna, l'umiliazione.

Quella era la prima volta in assoluto che le avevo fatte uscir fuori, ed era stata una sensazione talmente eterea da farmi credere di essere in paradiso.

Avevo lottato, forse nel modo sbagliato, sì, ma avevo lottato, e questo era quello che contava.

Udivo le urla e gli insulti che quella ragazza mi lanciava da dietro e nel sentirli non provavo che un immenso moto d'orgoglio, una sorta di vanità che mi faceva sentire molto più che una semplice sorella, molto più che una semplice figlia indesiderata.

Risi di cuore, risi per tutto il tempo, con il fiato corto e le gambe doloranti. Risi fino alle lacrime. Non tanto per averla umiliata così, quanto per la liberazione che sentivo al mio interno. Era come se tutti i miei organi sporchi e incancreniti dalle menzogne fossero stati lavati sotto un getto d'acqua fresca e ora li sentissi lavorare puliti e lucidi.

«Inizi... ad inquietarmi» mi disse Eve al mio fianco, esausta dalla corsa. «Cos'è... che ti fa ridere così?»

«Non lo so» confessai a gran voce. «Non lo so ma è bellissimo.»

«Fermati! Brutta stronza!»

«Non... demorde...» affannò Eve, guardandosi alle spalle: la ragazza stava guadagnando sempre più terreno. «Così... finirà per... prenderci.»

«Non ho... un'altra lattina» biascicai, e a quel punto fu lei a scoppiare a ridere.

Imboccammo una stradicciola in discesa, priva di macchine, e quello mi fu fatale: con un passo troppo affrettato la mia caviglia sinistra si piegò di colpo e tutto il mio corpo si sbilanciò in avanti. Mi rovesciai a terra di faccia, feci appena in tempo a coprire il volto con le braccia, sentii la pelle scartavetrarsi sotto l'ustione del cemento, ed Eve lanciò un grido.

«Oh mio Dio!» Si fermò e ritornò indietro per raggiungermi. «Callisto, stai bene?»

Sollevai il capo dall'asfalto e la guardai: aveva il volto sudato a causa della corsa e il petto affannato, ma l'espressione di preoccupazione che le scavava il viso era genuina come raramente mi capitava di vedere.

Sorrisi.

«Sto bene» mentii, mentre tentavo di rialzarmi. Mi ero sbucciata ginocchia e braccia, e sentivo le ossa degli arti dolere per il colpo improvviso che avevano ricevuto. Ero solo felice di non aver rovinato la mia mise perfetta di Crystal Ballerina. «Dobbiamo... sbrigarci.»

«Eccoti qui!» La ragazza corse verso di noi con più furia, a mezzo metro di distanza. Era l'impersonificazione dell'ira: con i capelli, il viso e la maglia imbrattati di CocaCola e la guancia ancora gonfia dopo il mio colpo di lattina. Venne verso di me furibonda, le mani già tese per afferrarmi per la testa, probabilmente con l'intento di strapparmi i capelli uno ad uno.

Eve si frappose fra me e lei, mettendomi alle sue spalle. Quel gesto così inaspettato mi fece stringere il cuore. Nessuno mi aveva mai difesa in quel modo, nemmeno Jesse, per ovvie ragioni. Sembrava uscita da una fiaba col Principe Azzurro.

La ragazza ci assalì, o così, per lo meno, provò a fare: si gettò su di noi con uno slancio, ma il salto si interruppe dal suo principio. Qualcuno l'aveva afferrata per il retro del colletto e l'aveva trattenuta a terra: un ragazzo dall'occhio destro cristallino e il sinistro color caffè, ciocche castane a coprirgli il capo, una mascella volitiva.

«Chi diavolo-» La sconosciuta si interruppe subito, nell'esatto momento in cui si voltò a guardarlo e lo riconobbe.

Ero sorpresa quanto lei, no, persino di più. La presenza di Ruben lì non era stata affatto contemplata da parte mia. Lui non era il genere di persona che aiutava qualcun altro, lui evitava le inconvenienze e i legami, lui era solo, era sempre stato solo.

Eppure adesso si trovava proprio di fronte a me, stringeva la mia inseguitrice per il colletto come se fosse la cosa più naturale del mondo. La guardava soltanto, glaciale, con un'espressione che sembrava voler dire "Ancora parli?".

Eve era confusa e sbigottita forse più di me. Sbatteva le palpebre come a volersi assicurare di non star immaginando tutto, con il braccio ancora sollevato per coprirmi.

Ruben pronunciò con una calma terrificante: «Odio le persone rumorose.»

La giovane, ancora tra le sue mani, sbiancò di colpo. Lui non aggiunse altro: la guardò e basta. In quegli occhi così differenti tra loro io scorsi la crasi della sua esistenza: la violenza che si scontrava con la sua generosità.

Non disse nient'altro, non emise nessun altro suono. La fissò per un minuto intero, con un'intensità tale da farmi capire che era quello il modo con cui le stava comunicando di andarsene via, di non continuare con quella lotta, perché altrimenti l'avrebbe pagata cara.

Non sapevo più dire se essere sorpresa da quella scena che sembrava esser uscita da uno dei romanzi trash che si leggeva mio fratello o dalla consapevolezza che una come me era stata in grado di smuovere l'indifferente e solitario Ruben che tutti quanti temevano, il reietto del Dump.

Alla fine, lui la lasciò andare. La ragazza, adesso, sembrava non aver più la forza né la voglia di inveirci contro: era impallidita, con il volto tumefatto dalla paura e le labbra che le tremavano. Non ci degnò neanche di uno sguardo, se ne andò via e basta, risalendo la strada e svoltando l'angolo con espressione spaventata.

Nella via restammo soltanto io, Eve e Ruben, un trio che mai mi sarei aspettata di vedere prima d'ora, e che eppure era proprio davanti ai miei occhi, reale e consistente.

E quell'improvvisa consapevolezza, il modo in cui Ruben incrociò il mio sguardo, mi portarono inevitabilmente a scoppiare in una grande, fragorosa risata, così forte e sostanziosa da rimbombare tra gli alti edifici bianchi che delimitavano la strada.

«Callisto?» mi chiamò Eve, confusa, ma io ero ormai preda dell'ilarità, con le lacrime agli occhi e lo stomaco sofferente a causa del riso. Mi trattenni la pancia con una mano e a stento riuscii a sentire il dolore delle ginocchia e dei gomiti completamente sbucciati. A stento riuscii a sentire la condanna che da sempre vestivo come un velo da sposa e che ogni giorno mi aveva condotto all'altare delle punizioni.

Per quella che doveva essere la prima volta in tutta la mia vita, io risi per un motivo diverso da mio fratello, per qualcosa che non lo riguardava affatto, e non c'era nessuna maschera ad aderirmi in viso, non un'artificiosa emozione di sollievo; mi resi conto che in quel momento c'ero io, io soltanto, non la sorella di Jesse, non la figlia dei miei genitori.

Quella ero io, Callisto Murray, e quella risata mi apparteneva come le nuvole al cielo e il Natale a un bambino.

«Hai sbattuto la testa quando sei caduta?» domandò con acidità Ruben, e il suo tono di voce, sempre così aspro, fece trasformare le mie risate in veri e propri singhiozzi e nitriti da cavallo. Lacrime calde d'ilarità mi gocciolavano sul volto e bagnavano gli occhi. «O sei proprio nata così?»

«È solo...» provai a parlare, ma i singhiozzi mi bloccavano. Mi asciugai le guance con il dorso della mano. «È solo che non mi aspettavo mi aiutassi... e la ragazza... oh, quant'era furiosa... e io l'ho davvero colpita, davvero! Non credevo di saperlo fare!» spiegai alla fine, con un'incoerenza che li lasciò ancora più confusi, mentre il sorriso mi divorava tutta la faccia. «E quando l'ho colpita... oh, è stato così bello! Vorrei farlo di nuovo!»

«Callisto» mi chiamò Eve, inginocchiandosi al mio fianco. «Ti sei fatta male, dobbiamo portarti ai dormitori, così ti disinfetti le ferite.»

Aveva ragione. Le sbucciature che mi ero fatta erano molto più brutte di quanto pensassi: giganti pezzi di pelle erano stati mangiati dall'asfalto e ora sulle ginocchia e i gomiti avevo dei crateri di sangue sporco dal cemento. Nel vederli, sghignazzai ancora.

«Ti sembra il caso di ridere?» tuonò Ruben, gli occhi in fiamme.

Lo guardai col sorriso sbocciato. «Ti è bastato guardarla perché si spaventasse!» ridacchiai. «Non si vede solo nelle soap opera?»

Mi rifilò un'occhiataccia.

«Ruben» dissi, ed entrambi realizzammo che quella era la prima volta che lo chiamavo per nome ad alta voce. Aveva un sapore strano in bocca, così dolce da entrare in netto contrasto con quello che lui effettivamente era, eppure pronunciarlo mi rese talmente felice da levigarmi sulle labbra un sorriso delicato, sincero, che mai avevo riservato a qualcuno fino a quel momento. «Grazie.»

Sussultò. Finalmente riuscii a leggergli in viso l'emozione che finora mi aveva sempre rinnegato. Una luce di puro sentimento gli illuminò entrambi gli occhi, in un'espressione sofferente abbastanza da farmi capire che nessuno in tutta la sua vita lo aveva mai ringraziato per qualcosa.

Io ero la prima.

Il dolore che provai nel realizzare ciò era indescrivibile a parole. Mi sembrava che qualcuno avesse iniziato a infilarmi un ago nel cuore con così tanta delicatezza da non farmene accorgere all'inizio, ma più andava avanti ed entrava nella carne, più sentivo crescerne la sofferenza e il fastidio ad ogni battito.

«Grazie» disse a sua volta Eve. «Senza di te a quest'ora probabilmente non avremmo più i capelli.»

Dallo sguardo della mia amica, intuii che si stava domandando che razza di rapporto dovevamo avere io e Ruben per apparire così intimi, ma non mi sembrò quello il caso e il momento giusto per rivelarglielo. In fondo, ero ancora seduta a terra come una balena spiaggiata, con notevoli abrasioni e un sorriso ebete stampato in faccia.

«Che sia chiaro» dichiarò, «non vi ho aiutate, quella ragazza mi infastidiva.»

Il mio sorrisetto si fece più grande. «Certo.»

«Non l'ho fatto per te» tuonò.

Annuii e, giusto per farlo stare tranquillo, gli mostrai il pollice all'insù. Mi fulminò di nuovo con gli occhi.

«Ce la fai ad alzarti, Callisto?» mi domandò Eve a quel punto.

Annuii e mi feci forza sulle gambe per risollevarmi in piedi, ma mentre le cosce si distendevano, sentii tutti i muscoli inferiori bloccarsi e cedere all'improvviso, riportandomi giù a terra in un istante.

«Callisto!» Eve si precipitò a raccogliermi prima che fosse troppo tardi, avvolgendo il mio braccio attorno alle sue spalle.

«Scusate» dissi. «Credo che ci sia un problema tecnico.»

«Un problema tecnico?» ripeté Ruben.

«Sì» ammisi, mentre nel petto avvertii una sensazione di vuoto puro e il sudore che mi ricopriva si trasformava in una pelle di ghiaccio, «credo che tutta l'adrenalina che avevo in corpo sia svanita, e che adesso sto iniziando a provare la paura che avrei dovuto provare prima.»

Lo dissi con naturalezza, ma la voce un po' mi tremava. Chi volevo prendere in giro, in fondo, non ero certo una Miss Bad Girl simile a Ruben, non ero abituata a quel genere di scontri e men che meno a ribellarmi a qualcuno. Io sapevo solo come stare in silenzio dentro l'abitacolo di un armadio abbandonato dal mondo, senza emettere versi che potessero infastidire l'esterno. Sola, per sempre, nell'eternità della vergogna e di un sorriso.

Il volto di Eve si addolcì, mi accarezzò la testa. «Ti aiuto io» dichiarò, issandosi meglio il mio braccio destro sulle spalle. «Camminiamo insieme.»

«Rischio di farti cadere» le feci notare.

«Vale la pena cadere per un'amica che mi difende così» fu la risposta istantanea di lei, con cui mi strappò via il cuore.

Ci provò, o almeno tentò con tutte le sue forze, ma ero un peso morto non da poco e le gambe proprio non volevano collaborare, a stento riuscivo a mettere un piedi davanti all'altro. «Voi andate pure» dissi, «io mi riprendo per qualche minuto e ritorno da sola.»

«Non scherzare» replicò la mia amica con immediatezza. «Non ti lascio qui da sola. E se quella stronza tornasse?»

«Non puoi riportarmi ai dormitori così, però.»

«Chiamiamo un taxi, dovremmo-»

Vidi Ruben sollevare gli occhi al cielo in quella che doveva essere una preghiera perché entrambe ci ammutolissimo. Arrivò a me in un istante, e prima che me ne accorgessi il suo braccio destro mi si poggiò sulla schiena e il sinistro sul retro delle cosce. Spalancai la bocca quando sentii il mio corpo sollevarsi in aria come una piuma, lo guardai a occhi sgranati, stupefatta da quella gentilezza che di certo stonava con il suo umore di solito così egoista.

Mi lanciò un'altra occhiataccia, e tra le labbra sibilò un ordine che arrivò chiaro e preciso: «Non osare parlare.»

Richiusi la bocca, e il gelo della paura che mi aveva colpita sembrò svanire sotto il tocco caldo delle sue mani. Non ebbi il coraggio di dirglielo, ma aveva appena esaudito uno dei tanti desideri che avevo espresso da bambina: che un principe mi aiutasse a scappare portandomi via tra le sue braccia.

Certo, lui non era un principe, e certo, non stavamo scappando, ma era comunque un sogno realizzato. Mi venne da sghignazzare, se lo avesse saputo, come minimo mi avrebbe abbaiato contro come al suo solito.

«Non ridere» imperò, feroce e crudele, ma non riuscii comunque a trattenere gli sghignazzi, li nascosi sotto la mano, tentando di camuffarli.

Eve era sconvolta forse più di me, ma non disse niente, ci seguì a passo svelto mentre Ruben mi conduceva verso i dormitori.

«Sono pesante?» domandai.

«Ti avevo detto di non parlare» sibilò, con lo sguardo dritto davanti a sé.

Era strano vederlo da quella posizione, potevo notare tutti i dettagli che finora non avevo potuto scorgere: la linea dura della mascella, la curva del collo, le clavicole.

Era davvero uno gnocco assurdo.

«Non dovrei essere troppo pesante» continuai, «in realtà sono anche un po' sottopeso, e poi tu sei un energumeno, perciò non ti puoi lamentare.»

«Da quando mi interessa la tua linea?»

«Sei perfetta, Callisto! Non ti preoccupare!» intervenne Eve, facendomi l'ok con la mano. «Non pesi affatto.»

Ruben le rifilò uno sguardo furibondo, come a volerle dire "come fai a saperlo, se sono io che la reggo?", ma forse si era reso conto di aver superato il limite delle parole da dire che si auto imponeva ogni giorno, perciò tacque. La sua espressione irritata mi fece ridere di nuovo, tentai di nasconderlo con dei colpi di tosse.

«Sai» dissi, «l'unica persona che mi aveva mai portato in braccio è stata mio fratello. Però eravamo ancora bambini» sghignazzai al ricordo.

Vidi i suoi occhi calare su di me, in una delle sue tante ispezioni che faceva per studiarmi meglio e capire cosa mi passasse per la mente. Mi domandai come mi vedesse: forse ai suoi occhi ero un essere alieno che aveva il brutto difetto di fingere sempre sorrisi. Questa volta, però, non c'era nessuna menzogna, mi stavo divertendo da morire, ed era tutto merito suo.

Arrivammo nei dormitori in silenzio, alla segreteria della hall non c'era nessuno, e di questo nei fui grata, perché non volevo dare spiegazioni della faccenda. Ruben mi portò in camera mia senza problemi, non sembrava per niente affaticato e quando Eve aprì la porta della camera fece il suo ingresso senza troppi onori.

Mi lasciò andare sul letto, senza dire una sola parola, e appena si fu liberato di me, fece per voltarsi e andarsene via, ma io lo fermai prendendolo per la manica della maglia.

«Aspetta» ordinai, ottenendo uno sguardo furibondo che ignorai volutamente. «Devo dirti una cosa, vieni qui.»

Sembrò tentennare, ma alla fine cedette. Si chinò su di me fino a quando i nostri visi non furono alla stessa altezza, e piegò il capo per rivolgermi l'orecchio.

Coprendo gli angoli della bocca con le mani per non farmi vedere da Eve, gli schioccai veloce un bacio sulla guancia, per poi sussurrargli all'orecchio: «Sei stato molto figo, prima.»

Si allontanò di scatto, toccandosi il punto sfiorato dalle mie labbra con la mano. I suoi occhi furono attraversati da una miscela di emozioni che riuscii a distinguere solo in parte: rabbia, irritazione... confusione.

Sorrisi.

«Stavolta non mento» ridacchiai.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top