Pop

La stazione della città era tremendamente affollata. Un marasma di pendolari si districava tra i vari binari, spintonandomi avanti e indietro e facendomi salire le vertigini.

Con me avevo solo la borsa e il cellulare, un po' di soldi, e pochissime ore di sonno alle spalle. Forse anche per questo, e per il freddo che si respirava nell'aria, mi sentivo un po' mancare mentre avanzavo verso le macchinette dove comprare i biglietti.

Un uomo mi superò disarcionandomi con la sua gigantesca valigia. Inciampai sui miei piedi, sentii il corpo sbilanciarsi in avanti, ma la mia caduta fu bloccata da una mano che mi afferrò per il retro del colletto della felpa.

«Non riesci mai a guardarti attorno?» domandò una voce dura alle mie spalle, che riconoscevo fin troppo bene. Voltai il capo. Ruben era in piedi dietro di me, in jeans, maglia nera a maniche lunghe e un cappotto scuro che gli arrivava alle ginocchia. Il volto come al solito corrucciato, ancora martoriato dai tagli che solo il giorno prima avevo disinfettato. Aggrottò le sopracciglia, non appena si accorse del sorriso che mi travolse quando incontrai i suoi occhi. «Troppo felice» dichiarò, dandomi un colpo leggero alla testa con le dita, con tono di rimprovero.

Mi massaggiai il punto colpito, aprii la bocca per ribattere, quando un uragano mi travolse tra le sue braccia, rischiando di farmi schiantare a terra.

«Callisto!» Eve mi strinse a sé con violenza, soffocandomi. «Ti avevo detto di aspettarci all'ingresso!»

«Scusa» riuscii a malapena a borbottare, con la testa schiacciata contro il suo petto. «Volevo... comprare i biglietti.»

«Li ho già presi io online» mi informò, staccandosi da me per guardarmi negli occhi. Mi avvolse il volto tra le mani e iniziò a controllarmi dalla testa ai piedi. «Hai mangiato? Sei pallida quanto un panda. Possiamo correre al bar a prendere qualcosa da stuzzicare.»

Mi teneva la testa ferma, non potevo muovermi proprio, ma scorsi alle sue spalle i riccioli rossi di James.

«Sto bene» risposi a labbra sollevate, mentre lei mi scannerizzava in ogni singolo poro del viso. «Davvero, Eve, non c'è bisogno che ti preoccupi come se fossi mia madre.»

«Ah, bugiarda che non sei altro!» Mi pizzicò il naso con forza, prima di lasciarmi andare. «Non posso credere che stavi per partire senza dirmi nulla. Che razza di amica pensi che sia?»

«Una che non dà retta alle mie follie?»

Un sorrisetto divertito la attraversò. «Le tue follie mi piacciono.»

«A-Abbiamo...» James apparve al suo fianco, aveva il fiatone ed era sudato dalla testa ai piedi, con lo zaino che gli ciondolava da una spalla come un'altalena. «Co-Corso co-co-come d-d-dei ma-matti per a-a-arrivare in te-tempo.»

Deglutii. Mai come allora mi ero sentita così grata a qualcun altro. «Come giustificherete questa fuga ai vostri genitori?»

Eve gonfiò il petto. «Gli ho spiegato la situazione e mi hanno incitato ad accompagnarti.»

Ridacchiai, guardai James, il cui volto era arrossito, e stavolta non per l'affaticamento della corsa. «I-I-I mi-miei ha-hanno sta-sta-stappato lo spu-spu-spumante» ammise con un filo di voce. «Ne-Nel sa-sapere che ave-avevo a-a-amici.»

Eve scoppiò in una fragorosa risata e lo spintonò con scherzo. James si aggrappò al bracciolo del suo zaino, imbarazzato. «Un'avventura adolescenziale fuori città» dichiarò la mia amica a gran voce, posando le mani sui fianchi in posa teatrale. «Non è una cosa che si legge solo nei libri? Ho sempre sognato di sperimentarla un giorno.»

«Più che avventura, la definirei una caccia al tesoro impossibile» la corressi. «Le informazioni che ho trovato su Instagram sono piuttosto risicate e neanche troppo recenti, le possibilità di fare un buco nell'acqua sono particolarmente elevate.»

«Dov'è finito il tuo solito ottimismo?» mi rimbeccò lei, dandomi dei leggeri colpetti in testa. «Dobbiamo fare solo del nostro meglio, il resto verrà da sé.»

«E-E-E poi» aggiunse James, «hai gi-già un luogo da cu-cui partire, questo è-è già un in-inizio.»

Mi sfuggì una risatina. «Preghiamo sia quello giusto» mormorai, «non sono sicura di poter reggere ore e ore di corsa nel vuoto alla ricerca di qualcuno che non sa nemmeno chi sono.»

«Sarà come diventare Detective Conan» replicò Eve, per nulla preoccupata. «Faremo le domande giuste alle persone giuste, e vedrai che otterremo degli ottimi risultati.»

Scossi la testa. Il loro buonumore era quasi contagioso.

«Conoscendo la mia fortuna, come minimo avrà deciso di andare in vacanza proprio in questi giorni.»

«Siamo agli inizi dell'inverno, è ancora presto» ribatté James, tutto d'un fiato. Parve sorpreso a sua volta di non aver balbettato neanche una sillaba.

Una mano si posò sopra il mio capo. Nessuna carezza, neanche un sussurro di dita, solo un palmo che mi copriva completamente la testa, come a volerla fermare dall'uragano di pensieri che la stava travolgendo. Sollevai lo sguardo per guardare negli occhi Ruben, mi sfuggì un sorriso. «In treno non si può fumare» gli ricordai.

«Lo so, sarà tremendo. Dovrò sopportare il tuo sorriso per quattro ore senza neanche appigliarmi alla nicotina. Mi accontenterò del caffè.»

Mi venne da ridere. Aveva lo sguardo serio di sempre, ma quella battuta lasciava intendere una tranquillità che mai gli avevo visto prima. Qualunque fosse il nostro rapporto, ora, se mai potesse essere definito, era sicuramente diverso da quello dei nostri primi incontri.

«Sei sicuro di voler venire?» gli domandai. «La sera non devi...» Lanciai un'occhiata a Eve e James, incuriositi dal nostro discorso. «Hmm, fare i compiti?»

Inarcò un sopracciglio. Lo dovevo ammettere, non era la metafora più adatta alla sua situazione, ma non me ne venivano in mente altre che potessero risultare verosimili per un liceale.

«Per una notte, potrò resistere» mormorò, martellando ripetutamente la mano contro il mio capo. «Sempre che i tuoi sorrisi non mi facciano venir voglia di uccidermi prima.»

Eve, assistendo a quella scena, nascose un risolino dietro la mano. Gli occhi passavano da me a Ruben e viceversa, sembrava volermi dire con il solo sguardo "Ho capito tutto". Avrei voluto risponderle "Beata te", perché io, a differenza sua, non avevo ancora capito nulla.

Specie fra noi.

«Inizio a pensare che continui a colpirmi così nella speranza di affossarmi al pavimento come un chiodo» dissi a lui, mentre continuavo a venir martellata dal suo palmo aperto sul capo.

«Oh, a quanto pare non sei così stupida, allora.»

Ridacchiai.

«Ca-Callisto» mi chiamò James, e Ruben si fermò. Il ragazzo si avvicinò a me, un po' timido, e mi porse il suo telefono. «Gu-Guarda che ho tro-trovato.»

Presi il cellulare e la sorpresa aumentò quando guardai lo schermo. «Il profilo Linkedin?»

James annuì. «Dice... il-il suo at-attuale im-impiego» mormorò. «È sta-stato aggi-aggiornato tre-tre settimane f-f-a, quindi...»

Quindi c'erano alte possibilità che lavorasse ancora lì. Sentii il sorriso squarciarmi le labbra, tant'era intenso, e in un impeto di felicità strinsi James tra le mie braccia. Lui si paralizzò sul posto, ma io continuai ad abbracciarlo con forza. «Oh, James, ti adoro» mormorai. «Non mi ricordavo neanche esistesse Linkedin! Come hai fatto a pensarci?»

«N-No-Non è nu-nu-nulla di che» mi bisbigliò all'orecchio, e anche se non potevo vederlo, avrei scommesso tutti i miei pupazzi di Crystal Ballerina che il suo volto avesse assunto la stessa tonalità dei suoi capelli. «È un-una pe-persona a-a-adulta, in-in fondo, la ma-maggior par-parte di loro ha-ha Linkedin.»

«Io no» dichiarò Eve. «Mai avuto bisogno.»

«Tu lavori da quando sei in fasce, non co-» Venni bruscamente interrotta. Ruben mi afferrò di nuovo per il colletto della maglia e mi tirò indietro, strappandomi via dalle braccia di James. Lo guardai confusa, ma il suo volto rimase inespressivo.

Eve sghignazzò.

«Quando parte il treno?» domandò lui, continuando a ignorare i miei occhi perplessi.

«Tra un quarto d'ora» rispose Eve, ancora gongolante. «Binario 12.»

«Muoviamoci.»

Lo guardai partire senza dire altro. Mi massaggiai il collo, osservando il suo profilo di spalle. Camminava ancora un po' zoppicante, segno che i calci presi da Rick ancora gli facevano male, ma sembrava non badarci affatto.

Eve cinguettò, mi avvolse il braccio attorno alla spalla. «Ahhh» esalò con un sorriso. «L'amore.»

«Ti diverti molto?»

«Stai scherzando? È come guardare un documentario sul fenomeno del corteggiamento» replicò, ancora ridacchiante. «Nei manga ci sono sempre personaggi come lui... come si chiamano? Quelli che non sanno ammettere a voce i loro sentimenti e sono sempre bruschi con chi gli piace.»

«T-Tsundere» balbettò James, al suo fianco.

Eve schioccò le dita. «Bravo, James, proprio così. Ruben è un grandissimo tsundere.»

«Non era un bad boy?» domandai tra le risate.

«D-Di so-solito, so-sono entrambi.»

Lei sghignazzò. «Sono i miei preferiti» fu il suo commento, mentre ci avviavamo a nostra volta, seguendo Ruben, lontano da noi. «Aggiungono un non so che alla storia, ma non credo che riuscirei mai a stare con uno di loro. Preferisco gli onesti, colpiscono molto di più il mio animo sensibile.»

«Ce n'era anche uno in Crystal Ballerina, ora che ci penso» commentai. «Il personaggio di Phil, l'amico d'infanzia. Gli piaceva Crystal, ma non riusciva ad ammetterlo e la prendeva sempre in giro. Un sacco di episodi vertevano sulle loro discussioni.»

«Tutto torna, amica mia, tutto torna.» Gesticolò con le mani, in tono adorante. «Crystal è il tuo destino.»

«P-Phil no-non mo-moriva, alla fine?»

Sia io che Eve scoccammo un'occhiataccia a James, che ci guardò confuso. «C-Che c'è?»

«Non portare sfiga» lo rimproverò lei, dandogli una gomitata. James si strinse nelle spalle.

«E poi non moriva» asserii subito, punta dal vivo per quel commento, «semplicemente, finiva nel mondo delle anime.»

«No-Non per ro-rovinarti l'in-infanzia, Ca-Callisto, ma era il mo-modo con cui gli sce-sceneggiatori vo-volevano di-dire che e-era morto se-senza tra-traumatizzare i bambini.»

Aggrottai la fronte. Era altamente probabile che avesse ragione. Mi ero sempre rifiutata di rifletterci su troppo a lungo. Non volevo rovinarmi il bel ricordo di Crystal.

«Sei troppo pessimista, James» replicò Eve. «Magari, invece, era il modo per indicare un mondo perfetto in cui non esiste più il male.»

James sollevò le sopracciglia. «No-Non cre-credo che ne-negare l'inn-innegabile aiuterà.»

«È il primo comandamento dell'amicizia» ribatté.

«E-E gli-gli altri qu-quali sa-sarebbero?»

«Sai che non lo so?» Eve sembrò rifletterci su. «Dovrei provare a scriverli. Magari lo faccio in treno, tanto abbiamo quattro ore di viaggio davanti a noi, c'è tutto il tempo.»

Mentre iniziavano a battibeccare tra loro due, mi ritrovai a risollevare lo sguardo e scrutare la figura di schiena di Ruben. In mezzo a tutta quella folla di gente, la sua altezza sproporzionata lo faceva risaltare in maniera assurda. Varie erano le teste che si voltavano per guardarlo, e io sarei stata tra queste, se mai non ci fossimo conosciuti.

Osservai Eve e James che continuavano a stilare una lista di comandamenti dell'amicizia, James sembrava particolarmente interessato all'argomento, o forse, più che altro, disperato nel convincere Eve che "prestare i vestiti" era un'azione troppo superficiale per poter essere considerata un caposaldo di quel legame.

Sentii qualcosa tremarmi nel petto, una vibrazione profonda, sconvolgente, a scuotersi contro lo sterno e che mi indusse a posare una mano sopra il cuore, ad udirne i battiti forti, sempiterni.

L'urlo di chi ha sempre taciuto.

Erano lì.

Erano davvero lì.

Anche se ci conoscevamo da pochi mesi, anche se non sapevano ancora nulla di me, anche se tra me e loro c'era un abisso di segreti a separarci e di cui erano più che coscienti, erano comunque lì, avevano comunque voluto accompagnarmi.

Mi salì la nausea, mi sentii divisa in due, tra la parte che voleva scoppiare a piangere per la felicità e quella che desiderava soltanto nascondersi per la vergogna, per la sensazione di star tradendo Jesse, il mio unico cuore.

«Ehi.»

Ci fermammo, eravamo arrivati al binario. Dovevamo solo attendere l'arrivo del treno. Sollevai lo sguardo così da incrociare quello di Ruben, e non appena i suoi occhi si posarono su di me, realizzai che, nonostante il sorriso e il mio apparente stato di soddisfazione, aveva già capito tutto.

Aveva di nuovo tradotto tutte le mie bugie.

Mi domandai come fosse possibile. Come fosse possibile che, nonostante sapessi di non potergli mai mentire, non sentissi mai il bisogno di fuggire da lui. Eppure mi sviscerava, con quegli occhi, strappava tutte le radici delle mie menzogne, le faceva sanguinare. Eppure mi dilaniava con quel suo sguardo che già sapeva tutto, in un modo talmente furente da farmi credere che mi stesse uccidendo.

E non capivo proprio, non capivo proprio perché venir assassinata da lui mi piacesse così tanto.

«Troppi pensieri» dichiarò con voce sommessa. «Ti aumentano il sorriso. È disgustoso.»

Senza volerlo, le mie labbra si arcuarono ancora di più. «Inizio a sospettare che tu abbia un debole per il mio sorriso ma non sappia come ammetterlo.»

«Non sono masochista» affermò con sicurezza.

«Però sei uno tsundere.»

Mi fulminò con un'occhiataccia. «Cosa sarei?»

«Nulla, nulla» mormorai. «Finirai in una puntata di Real Time: "Extreme Makeover: Bad Boy Edition".»

Mi diede un altro colpo in testa con la mano. Forte.

«Ahi» mi lamentai, massaggiando il punto dolente. «Lo vedi che sei uno tsundere?»

«No, solo uno che non sopporta la tua parlantina.»

«Allora preparati, abbiamo quattro ore di viaggio davanti, la mia parlantina non smetterà di tartassarti.»

«Per fortuna ho le cuffie e un cellulare.»

Scoppiai a ridere. «Te lo ruberò» dichiarai con orgoglio. «E ti costringerò ad ascoltare per tutto il tempo la sigla di Crystal Ballerina.»

«Grazie al cielo c'è sempre un finestrino da cui buttarti.»

Feci per rispondere, ma un fischio ci avvertì che il treno stava arrivando. Inspirai a fondo, guardando il locomotore farsi sempre più vicino a noi, correndo lungo i binari.

Per un attimo, mi domandai se stessi facendo la cosa giusta.

Se Jesse avrebbe davvero apprezzato quel regalo.

Stavo per realizzare un'impresa non poco ardua, per cui sicuramente lui mi avrebbe rimproverato, e non osavo neanche immaginare come avrebbero reagito i nostri genitori, se ne fossero mai venuti a conoscenza.

Il treno sfrecciò davanti a noi, iniziando a rallentare, il rumore stridente delle sue ruote mi fece dubitare qualche istante di me stessa.

E se proprio mentre compivo quell'impresa, Jesse si fosse di nuovo sentito male?

Se avesse avuto una crisi? Avrei fatto in tempo a ritornare per salutarlo e dirgli addio?

Mi avrebbe mai perdonata per averlo lasciato da solo nei suoi ultimi istanti?

Un calore improvviso, bollente, divampò nella mia mano sinistra. Sussultai, sorpresa, e chinai lo sguardo. Le dita di Ruben si erano intrecciate alle mie, e per quanto fosse strano o sconsiderato da fare in mezzo a tutta quella gente, la ritenni una mossa così naturale e fatale da non poter fare a meno di ridacchiare.

«Non accadrà» lo sentii dire con voce decisa, surclassando il suono del treno che frenava. «Hai ancora tempo, ce la farai.»

«Come fai ad esserne così sicuro?»

Non mi guardava, i suoi occhi erano rivolti ai binari che rallentavano sempre di più davanti a noi. Riuscii comunque a vedere un angolo delle sue labbra sollevarsi. Un accenno soltanto, ma tanto bastò per sciogliere il nodo di preoccupazioni che mi stava legando le arterie. «È tuo fratello» disse, con una certezza tale da apparire scontata. «Ti aspetterà, come tu hai sempre aspettato lui.»

Respirai con forza, gonfiando i polmoni. Adesso l'aria non era più così fredda, al contrario mi sembrava di star ingoiando lava pura.

«Pensi che mi perdonerà per questa follia?»

Ruben non esitò un istante. «Ti perdonerebbe pure un genocidio, Callisto.»

«Lo hai visto solo una volta, come fai ad esserne così certo?»

Lui non rispose subito, continuò ad osservare le porte dei binari che iniziavano ad aprirsi, la gente che usciva, trasportando con sé le valigie.

«Perché te lo perdonerei anche io» dichiarò alla fine, con sicurezza, e io, sorpresa, sgranai gli occhi.

Risi ancora.

«Che bad boy.»

Un altro colpo in testa.

«E questo per cos'era?»

«Niente. Mi andava.»

*

Il viaggio in treno si rivelò piuttosto semplice. Ci eravamo seduti insieme, Eve e James da un lato e io e Ruben dall'altro. Io mi trovavo accanto al finestrino, guardavo il paesaggio che si dipanava oltre il vetro, il treno si muoveva così veloce da trasformarlo in strisce di colore che si rincorrevano tra loro, senza sosta, unendosi, scontrandosi, dividendosi in continuazione.

«Ti sto dicendo che va benissimo.»

«N-Non e-e-essere ridicola, no-non può fu-funzionare.»

«Andiamo, perché no?»

«"U-Ubr-ubriacarsi e vo-vomitare i-i-insieme" non può essere considerato un comandamento del-dell'a-amicizia.»

Eve rivolse un'occhiataccia a James. «E perché no?» domandò.

«E-E-E se l'a-a-altro fo-fosse ast-astemio?» suggerì lui.

Lei sgranò gli occhi. Risultò evidente che non aveva preso in considerazione quella possibilità.

«E-E-E po-poi no-no-non si pu-può be-bere fi-fino a ven-ventun anni.»

«Ah, quella legge!» blaterò la mia amica, indignata. «Ti rendi conto di quanto è assurda? Possiamo guidare una macchina, uno dei mezzi più pericolosi al mondo, una vera e propria arma di distruzione, a sedici anni, comprare fucili e pistole anche da bambini, ma non possiamo bere fino ai ventuno. L'ho sempre trovata un'immensa ingiustizia. Dannata America. Dannato proibizionismo.»

«No-Non mo-mo-molto patriottico da-da-da parte tu-tua.»

«L'unica cosa di cui mi vanto del nostro paese sono i negozi di vestiti» replicò lei, accavallando le gambe sul posto. Ci pensò su. «E il Mc Donald.»

«Ca-Capitalista.»

«Come, prego?» Gli schiaffeggiò la coscia, indignata. «Mi piacciano gli hamburger, ok?»

James sollevò lo sguardo al cielo. Mi ritrovai a ridere nell'osservarli. Mi domandai se si fossero parlati tra di loro, quando non c'ero, perché il loro rapporto sembrava essersi fatto più forte. Adesso lui non arrossiva più ad ogni momento, con il minimo tocco, e anzi, faceva sentire la propria opinione a gran voce, ed Eve, dal canto suo, sembrava adorare tutto ciò.

Forse, per lei, era la prima volta che un ragazzo le parlava in quel modo, senza far costantemente indugiare gli occhi sul suo corpo. Certamente doveva essere una novità interessante. Riflettei su quanto fosse strana la vita: fino a poco prima James era preoccupato che la sua cotta fosse superficiale solo per il fatto che era iniziata proprio dalla bellezza di Eve, ma a guardarlo non si sarebbe detto proprio.

Si vedeva che gli piaceva parlare con lei, e anche tanto.

Accanto a me, Ruben guardava il corridoio del vagone con occhi assenti. Era inclinato di lato, il gomito sul bracciolo del sedile, il mento posato sulla mano chiusa a pugno. Non sembrava interessato al battibecco dei miei amici, ma stranamente non aveva ancora tirato fuori le cuffie. Mi chiesi se stesse aspettando l'occasione giusta per prendermi di nuovo in giro.

«Callisto» mi chiamò Eve, e io sussultai. «A te cosa piace del nostro paese?»

La domanda mi sorprese. «Hmm» mugugnai. «Crystal Ballerina?»

«Scontata» dichiarò Eve.

«Sc-scontata» dichiarò James.

«Scontatissima» dichiarò Ruben. Ah! Quindi stava ascoltando!

«Ok, ritento.» Mi sentivo quasi offesa. «Il Gran Canyon?»

«Ma se non l'hai mai visto!» ribatté Eve.

«Ho visto le foto» mi difesi. «Ed è veramente bellissimo.»

«Non puoi dire che è bellissimo se non l'hai mai visto. Non vale. Ritenta ancora.»

«Hmm...» Il mio sguardo cadde su di Ruben, ancora intento a fissare il corridoio. Sarebbe stato ancor più scontato se avessi detto lui? Immaginavo di sì. E poi ero piuttosto certa che mi avrebbe dato l'ennesimo colpo alla testa, se l'avessi fatto. «Brad Pitt?»

Non avevo idea di come mi fosse venuto in mente, ma da qualcosa dovevo pur sempre cominciare.

Eve annuì, fiera. «Hai capito tutto dalla vita, amica.» Incrociò le braccia al petto. «Quindi ti piacciono i biondi, eh?»

Mi piacevano i ragazzi alti almeno un metro e novanta, con un piercing alla lingua, un tatuaggio a forma di ragnatela sul collo, l'eterocromia, i capelli castani e l'incapacità di sorridere. Ma era troppo dettagliato, persino per me. «Sì, immagino di sì.»

La mia amica passò lo sguardo su Ruben, ancora fermo a guardare il corridoio, gli angoli delle labbra le si arricciarono. «Ehhh» mormorò, con fare indifferente. Accanto a lei, James iniziò a rovistare nel proprio zaino. Lo guardò curiosa. «Cosa fai?»

«Cibo» rispose lui, tirando fuori dallo zaino una valanga di merendine. «Vi-Visto ch-che parl-parlavamo de-dell'orgoglio a-a-americano, perché no-non fes-steggiarlo così?» Posò sul piccolo tavolino che separava i loro sedili dai nostri tutte quelle prelibatezze. Aveva proprio ragione. Ogni merendina era un richiamo americano. Reese's, Cheetos, Takis, Twix, Twizzlers, Snickers... c'era di tutto e di più. Rimasi allibita, e così Eve. James arrossì. «P-Prima di-di partire, ho-ho fatto ri-rifornimento al-alla macchinetta della scuola» spiegò. «Ho-Ho pe-pensato che Ca-Ca-Callisto no-non aveva si-sicuramente a-a-ancora mangiato.»

Mi sentii commuovere dentro. Eve lo guardò con occhi quasi lucidi.

«Grazie, James» sussurrai, e lui annuì, la punta delle orecchie ancora in fiamme.

Mi sporsi per prendere un pacchetto di Twizzlers. Mi chiesi da quanto tempo era che non ne mangiavo uno. Forse... a otto anni? Ricordavo a stento che sapore avesse. Lo aprii con cautela, il rumore croccante della plastica che si sfilacciava fra le mie dita suonò come un augurio di buon auspicio.

Mentre addentavo la mia merenda, uno sguardo su di me mi bloccò, proprio nell'attimo in cui i denti affondavano nella cordicella rossa e gommosa. Sollevai appena il volto, gli occhi di Ruben mi erano addosso. Indifferenti, all'apparenza, ma le sue sopracciglia erano appena aggrottate.

«Lo volevi tu?» gli chiesi confusa, ed Eve, davanti a me, scoppiò a ridere.

«Meglio di un documentario» la sentii commentare, mentre a sua volta si sporgeva per prendere un pacchetto di Cheetos.

Lui non disse nulla, tornò a guardare il corridoio.

«James, fai metà con me?»

«O-Ok, Eve.»

Non riuscivo proprio a capire, ma d'altro canto non ero mai stata molto intelligente. Avrei chiesto spiegazioni a Eve più tardi.

Diedi un morso al Twizzlerrs, e il sapore mi esplose in bocca, non riuscii nascondere il verso di piacere che mi travolse le papille gustative. «Dio» mormorai. «È praticamente una droga.»

«Sembra che non ne mangi uno da secoli, Callisto.»

«È così» ammisi. «L'ultima volta che avrò mangiato una merendina simile sarà stato da bambina.»

Mi resi conto troppo tardi di aver rivelato fin troppo. Il piacere del cibo mi aveva fatto abbassare le difese ed ero finita per parlare di cose che non avrei mai dovuto dire a nessuno. Vidi gli sguardi confusi dei miei amici, e subito cercai di giustificarmi: «Mia madre detesta questo genere di merendine, le trova pericolose per la salute, quindi me le ha sempre proibite.»

Accanto a me, sentii il corpo di Ruben tremare impercettibilmente. Sapevo che si stava sforzando di non ridere. Aveva già scovato la mia ennesima bugia.

«E poi» aggiunsi, ignorandolo, «a Jesse non fanno bene, quindi ho sempre evitato di mangiarle per non dargli dispiacere.»

Una mossa crudele da parte mia, quella di usare la malattia di mio fratello per giustificare tutte le storture della mia vita con cui avrebbero potuto insospettirsi, ma non me ne pentii. Non era neanche una bugia, in realtà. Jesse aveva sempre avuto una dieta ristretta, e solo in rare occasioni gli era stato concesso di abbuffarsi di schifezze. Ok, non proprio rare. Più di una volta mi ero lasciata comprare dal suo sguardo supplicante e finito per spacciargli quelle merendine di nascosto.

"Tanto morirò comunque" diceva sempre, "almeno fammi crepare felice."

Di solito, si offriva sempre di condividere quelle leccornie con me, ma avevo sempre rifiutato. Non volevo rubargli neanche un grammo di quei cibi che per lui erano tanto preziosi, dei veri e propri tesori.

Eve e James si scambiarono un paio di sguardi che non compresi, e alla fine lei, dopo un grosso respiro, si ritrovò a dire: «Come... come sta Jesse?»

Mi ero domandata quando avrebbero tirato fuori il discorso. In fondo, per quanto stessero facendo finta di nulla, non ne avevamo ancora parlato in modo diretto. Loro sapevano e io sapevo che sapevano, ma certo non potevamo continuare a fingere che non fosse successo niente.

«Ha avuto una brutta febbre» ammisi. «Ha passato tutto il giorno a vomitare e... meglio che vi risparmi gli altri particolari.» Mi sfuggì un sorriso. «La febbre però si era abbassata, quando me ne sono andata, e i medici mi hanno detto che, sebbene bisogni mantenere sempre un occhio vigile, non è ancora il momento di preoccuparsi. Temo si sia semplicemente affaticato troppo quando è uscito con noi. Il suo corpo, ormai, non lo segue più.»

Mi era capitato in molte occasioni di parlare delle condizioni di mio fratello, ma era sempre stato con il personale medico, i miei genitori, o qualche vecchio amico che di tanto in tanto provava a chiamare per sapere se fosse ancora vivo. Mai nella vita mi ero ritrovata a doverne discutere con persone che consideravo "amiche", e mi resi conto, con orrore, di vergognarmene quasi.

Non per Jesse, non per la sua malattia.

Quello di cui mi vergognavo era la consapevolezza di star parlando di una persona che inevitabilmente sarebbe morta. Quello di cui mi vergognavo era non poter dire, neanche in un sogno, "ce la farà, sopravvivrà".

Ammettere a voce di avere un fratello malato, capii, era un dolore grande quanto quello di fingere di non averlo affatto. In parte, adesso, comprendevo perché Jesse aveva sempre cercato di non farsi troppi amici, di rimanere in solitudine con la sua malattia. Se quello era ciò che provavo io, non osavo immaginare come si sentisse lui, il malato in questione, a dover condannare un'altra persona alla consapevolezza di perderlo per sempre.

«Sai, sono rimasta sconvolta» disse Eve. «Ti giuro che se quel giorno non si fosse tolto la parrucca, non gli avrei mai creduto. Come diavolo ha fatto? Nemmeno le make-up artist del mio settore sono così brave.»

Ridacchiai. «Jesse è un autodidatta» spiegai. «Dato che è in ospedale da tutta una vita, per non annoiarsi cerca sempre di imparare cose nuove. Sa cucire, ricamare, fare origami, giocare a scacchi, lavorare a maglia e all'uncinetto, e negli ultimi tempi si è dedicato al trucco. Sotto certi aspetti, è un vero e proprio genio.» Addentai ancora la merenda. «Una volta ha provato a insegnarmi l'uncinetto, ma dopo dieci minuti stavo per lanciare tutto dalla finestra.»

Risi al ricordo di lui che mi tratteneva con le braccia per la vita, seduto sul suo letto, impedendomi di defenestrare quel maledetto bastoncino.

«L-Lui lo-lo sa... che st-stai fa-facendo qu-questo viaggio?»

Scossi la testa. «Si preoccuperebbe di sicuro, e poi voglio che sia una sorpresa.» Guardai la plastica accartocciata del Twizzlerss tra le mie dita. «Ho sempre avuto difficoltà ai suoi compleanni, sapete? Non so mai cosa fargli. Ogni volta mi pento dell'acquisto, anche se lui dice sempre di adorarlo. Però, adesso, credo proprio che questa sorpresa gli piacerà un sacco. Sono molto fiduciosa. Certo, purché riesca nell'impresa, cosa non tanto probabile.»

Sollevai il capo. Eve e James mi guardavano in silenzio. Nei loro occhi scorsi la compassione a cui ero abituata da tempo, e in parte mi ferì, in parte ne fui grata. Non potevo biasimarli per quel sentimento, era naturale, umano. Eppure, avrei tanto voluto fingere che non ci fosse, avrei tanto voluto credere che non esistesse motivo per provarlo.

Che Jesse non stesse davvero per morire.

Mi emerse in mente il ricordo di quando ancora andavo alle elementari, i volti apprensivi delle maestre e quelli titubanti dei miei compagni di classe. Dal giorno della diagnosi, avevo smesso di essere Callisto Murray, ero diventata per tutti "la sorella del ragazzo malato". I bambini che prima erano soliti prendermi in giro per il mio nome così strano, adesso erano sempre cauti con me; su consiglio dei loro genitori e degli insegnanti, cercavano di fingersi buoni e di non spaventarmi, di non intristirmi.

Era passato davvero tanto tempo dall'ultima volta che qualcuno mi aveva trattato così, e non sapevo come digerire quell'esperienza. Sarebbe stato egoista da parte mia chieder loro di dimenticare tutto, fingere di non sapere niente? Sarebbe stata un'offesa nei confronti di Jesse? Mio fratello era una parte di me di cui non mi vergognavo, eppure, allo stesso tempo, tremavo al pensiero che i miei amici vedessero solo e soltanto quella parte, soffocando tutte le altre, quelle che andavano a comporre Callisto Murray.

Mi bastò quel pensiero per capirlo.

Ero cambiata.

Appena entrata a scuola, sarei stata orgogliosa di venir considerata solo per mio fratello, ne avrei fatto un immenso vanto. Ed ora eccomi lì, a pregare che i miei unici amici non mi considerassero solo quello, che non mi vedessero unicamente come la povera ragazza destinata tra poco a diventare figlia unica.

Ero sicura che Jesse ne sarebbe stato felicissimo, ma io... non altrettanto.

I cambiamenti... mi spaventavano.

Avevo il terrore che mi portassero a esprimere desideri irrealizzabili, crudeli, che mi inducessero a sminuire l'amore della mia vita, Jesse, la sua sofferenza, a dimenticarmi di lui per far avanzare il mio egoismo.

Proprio come sostenevano sempre mamma e papà.

Feci per addentare un altro pezzo della mia caramella gommosa, quando la vidi venirmi sfilata dalle mani con un gesto brusco. Guardai Ruben indignata, mentre lui, noncurante, mordeva la refurtiva appena colta, senza alcuna vergogna.

«Ehi!» mi lamentai. «Prima, quando te l'ho offerta, non hai risposto!»

«Punizione.»

«E per cosa sarei in punizione?»

«Hai di nuovo sorriso.»

Lo colpii divertita con un pugno sul braccio, ma diavolo, se non era muscoloso, per lui fu praticamente una carezza.

«Callisto» mi chiamò Eve, inducendomi a guardarla. Il suo volto, stavolta, era serio. Anche se sorrideva serena, mi guardava con occhi che mai mi aveva mostrato fino ad ora. «Sono sicura che un sacco di persone te l'hanno già detto, ma per situazioni simili, secondo me, non è mai abbastanza.» Mi osservò con una dolcezza inaspettata, che mai mi era capitato di sentirmi. «Sei una ragazza estremamente forte e coraggiosa. Sono fiera di te.»

Accanto a lei, James annuì. «E-E-E anche se-se-se non cre-credi che si-sia così» aggiunse, «fi-fidati, so-sono in pochi qu-quelli ch-che fa-farebbero ta-ta-tanto per il pro-proprio fratello.»

Strinsi le mani in due pugni, sopra le mie cosce. Avvertii la gola inaridirsi, come se qualcuno, al suo interno, ne stesse scartavetrando la carne.

A differenza di quanto pensava Eve, nessuno mi aveva mai detto parole simili. Non i medici, non i miei genitori, non gli infermieri.

Solo Jesse, ma lui non l'avevo mai considerato, era di parte, era mio fratello.

«E quando arriverà il momento» aggiunse Eve, con una serenità così adulta che per un attimo non riuscii a credere fossimo coetanee, «e tu non avrai più motivo di esser forte, lo saremo noi per te.»

Mi tremarono le labbra, ancora sorridenti, il volto della mia amica si fece giocoso. «Anche un albero ha bisogno delle sue radici per rimanere in piedi, no?»

Ah, era davvero difficile non piangere. Davvero difficile non crollare in quell'esatto momento, esplodere come una supernova e lasciarmi andare.

Percepii un tocco al lobo dell'orecchio, un pizzico forte. Mi voltai di nuovo a guardare Ruben. Un sorriso lascivo, malevole gli storpiava la bocca. «Che fai, piangi?» mi provocò.

Mi venne da ridere. «No» risposi, accavallando le gambe. «Non ho finito di tormentarti.»

«Credo che sia giunta l'ora di tirare fuori le cuffie e il cellulare.»

«Bene, è il momento adatto per far partire Crystal Ballerina.»

«Sei proprio attaccata al finestrino, fossi in te non rischierei tanto.»

«È proprio una frase da tsundere» dichiarai, e di nuovo mi pizzicò l'orecchio, violento.

Davanti a noi, Eve e James sogghignarono.

«Grazie» soffiai loro con un sospiro appena accennato, e, di risposta, entrambi mi sorrisero.

Non fecero altre domande su Jesse e sulle sue condizioni, non ne avevano bisogno. Non erano quel genere di persone da voler a tutti i costi scavare a fondo nella radici di un problema, gli bastava sapere che ci fosse per decidere di volermi sostenere.

E di questo gliene ero infinitamente grata.

Descrivere nei dettagli la leucemia e le sue conseguenze non era mai un'esperienza piacevole, sia per me che ne parlavo che per quelli che ascoltavano, e inoltre... mi sembrava inutile.

Tutto ciò che era davvero necessario sapere era che Jesse stava per morire. In che modo, con quanta sofferenza, per quale motivo medico specifico, non avrebbe dovuto interessare. Erano solo dettagli cruenti che non facevano altro che addolorare la realtà dei fatti. Io, se avessi potuto, avrei preferito non scoprirli mai.

«Quando arriviamo, suggerirei di dividerci» propose a un certo punto James, a metà del tragitto, con una tale sicurezza da non farlo balbettare neanche una volta. Tutti, Ruben incluso, ci voltammo sorpresi. Arrossì. «A-Abbiamo du-due posti... da-da controllare, giusto?» continuò, evadendo lo sguardo di ognuno di noi. «Fa-Faremmo prima a-a-a di-dividerci in du-due gruppi per a-a-andare a con-controllarli e-e, se non tro-troviamo qu-questa pe-per-persona, per fa-fare do-do-domande a chi-chi si tro-trova lì.»

Ruben tamburellò l'indice sul bracciolo, riflettendoci su. Annuì, senza aggiungere altro.

«Sono d'accordo» disse Eve. «Ci sbrigheremmo. Cosa hai scoperto dal suo profilo Instagram, Callisto?»

«Solo che vive a Nicewood e fa volontariato per la Caritas.» Chiusi gli occhi per qualche secondo. «Prepara i pasti a pranzo. Il suo profilo era pieno delle foto di tutte quelle teglie ricolme di cibo. Dato che arriveremo il pomeriggio tardi, probabilmente avrà già staccato.»

«Non per forza, se fa volontariato, è possibile che rimanga fino a sera.»

«Non se fa il lavoro scritto nel profilo Linkedin» intervenne Ruben. Eve e James rimasero sorpresi nel sentirlo parlare, io non altrettanto. L'angolo destro della mia bocca guizzò in alto. «È un lavoro serale, avrà bisogno di una pausa tra la Caritas e quello.»

«Non c'è niente sulla sua vita privata? Laurea? Matrimonio? Figli?» continuò Eve.

Scossi la testa. «Niente. Credo che sia già un miracolo esser riuscita a trovare il suo profilo Instagram. Grazie al cielo, c'era il suo tag in una delle vecchie foto di mio fratello. E sempre grazie al cielo non ha smesso di usare quel profilo negli anni a venire, altrimenti non avrei mai saputo dove scovarla.»

«Co-Come vu-vuoi prova-provare a co-convincerla?»

Mi lasciai andare un po' sul sedile, sgranchendomi il collo. «Mi sono preparata qualche discorso in testa. Jesse mi direbbe di usare la malattia nella sua massima atrocità e rendere la storia ancor più strappalacrime di quanto già sia. Puntare al senso di colpa, la pietà e la commozione. Sfruttare al massimo la leucemia a fin di bene. Ma di solito questa è una cosa in cui è lui ad eccellere, non io.» Ed era un vero portento. «Inoltre, non conosco affatto questa persona. Sicuramente è cambiata nel corso degli anni. Magari si è trasformata in una creatura insensibile di cui poco o niente può fregargliene di un malato terminale.»

«La-Lavora a-a-alla Caritas» mi fece notare James. «No-Non credo.»

«Ah, non idealizzare chi fa volontariato, James» lo rimproverò Eve. «Anche a me tante volte è capitato di farlo – e non lo nego, l'ho fatto perché il mio manager me l'ha chiesto - e fidati, la maggior parte di quelli con cui ho lavorato erano tremendi. Lo facevano solo per lenire i propri sensi di colpa e credersi esseri superiori che meritano il piedistallo.» Eve aprì un pacchetto di Mikado e ne addentò uno. «Raramente le persone aiutano gli sconosciuti più sfortunati di loro per vero e proprio spirito altruistico. Beh, tranne alcuni, ovviamente» sollevò le palpebre per guardarmi, sorrise con il bastoncino al cioccolato ancora tra i denti. «Ne ho una proprio davanti.»

Inarcai il sopracciglio, confusa.

«Mi voglio fidare del giudizio di Jesse» dissi alla fine. «Se a lui piaceva, ci deve essere un motivo. Voglio credere che sia rimasta una brava persona, anche dopo tutti questi anni.» Mi massaggiai la tempia. «Il problema principale è riuscire a scovarla. Nicewood non è una grande città, ma comunque...»

«Non sai nulla della sua vita privata?»

Scossi ancora la testa, affranta.

«Fo-Forse è... u-una pe-persona mo-molto in-introversa.»

«Così l'ha descritta Jesse» ricordai. «Ma, di nuovo, si tratta di tanti anni fa. Davvero, sarà un miracolo solo riuscire a riconoscerla. Prego che il suo aspetto non sia cambiato troppo, altrimenti nemmeno Dio potrà aiutarmi a individuarla.»

«Che ne sai, magari finirai per scontrarti con lei, a caso, in mezzo alla strada. Nei film succede sempre.»

«La vita non è un film, Eve.»

«A volte sa esserlo, a modo suo, in maniera inaspettata.»

Il suo ottimismo non bastò a rasserenarmi. Volevo davvero crederle, anche se sapevo che era impossibile.

Tornai a massaggiarmi le tempie. Più ci pensavo, più sentivo il principio di un mal di testa. D'improvviso quel viaggio folle mi sembrò un'idea ridicola, la più stupida che mi fosse mai venuta in mente. Tremavo al pensiero di fare un buco nell'acqua.

Non volevo deludere Jesse, non stavolta.

Mi accasciai contro lo schienale del sedile.

«Ehi.»

Sollevai lo sguardo verso Ruben, ammiccai un sorriso.

«Dormi» dichiarò con voce dura.

«Non è così facile.»

«È facile: chiudi gli occhi, smetti di pensare, ti addormenti. Fine.»

Sghignazzai. Lui e le sue perle. Incrociai le braccia al petto e, con violenza, poggiai tutto il lato destro del mio corpo contro il suo braccio piegato sul bracciolo del sedile. Mi lanciò un'occhiataccia. «Allora diventerai il mio cuscino» dichiarai.

«Non sono un cuscino.»

«Hai ragione. Sei un materasso. Adesso chiudo gli occhi, smetto di pensare e mi addormento. Magari sbavo anche un po'. Fine.»

«Non sulla mia maglia.»

«Dormi anche tu, così non te ne accorgerai.»

Aggrottò ancora la fronte. «Ti verranno le rughe a furia di fare quella faccia» gli ricordai. «La gente inizierà a scambiarti per un uomo di mezz'età già a vent'anni. Nessuna ragazza ti andrà più dietro.»

«Tu sei fra queste?»

Chiusi gli occhi, mi ritrovai a ridere.

«No.»

«Peccato, era la mia occasione per liberarmi di te.»

Il mio sorriso si fece gigante, ma stavolta sembrò non dargli fastidio. Mi accomodai meglio contro il suo braccio, posando il capo sulla spalla. Anche a palpebre abbassate, riuscivo comunque a sentire gli sghignazzi di Eve.

«Dormo» enunciai.

«Chi dorme non parla.»

«I sonnambuli sì.»

«Non ricordavo lo fossi.»

«Un upgrade dell'ultimo momento, riscoperto con l'incontro con un certo bad boy tsundere, ahi!» Mi massaggiai il capo. «Devi per forza essere così violento?»

«Ti volevo solo aiutare ad addormentarti. Riprovo, se vuoi, magari stavolta funziona.»

«No-no» mi misi più comoda contro il suo braccio. «Ora dormo sul serio.»

«Dio esiste, allora.»

Mi addormentai tra le risate.

*

Qualche ora più tardi, il treno si fermò a Nicewood. Eravamo gli unici adolescenti dentro quel vagone, e, mentre scendevamo dalle porte, con Eve e James che mi spianavano la strada, sentii Ruben prendermi la mano.

Scesi gli ultimi gradini e arrivai alla pedana, lo guardai confusa. Era... accigliato. Mi chiesi se davvero gli avessi sbavato nel sonno. Fissai la manica della sua maglia: sembrava asciutta.

«Cosa c'è?» domandai.

«Brad Pitt?»

La domanda mi lasciò stupita. Il suo sguardo serio ancor di più.

«È un bell'uomo» mi giustificai.

«Un vecchio, semmai.»

Lo guardai sorniona. «Per le cotte per i personaggi famosi non esiste alcun limite d'età, lo dice sempre anche Jesse.» Schioccai la bocca. «E poi non è vecchio. I sessanta sono i nuovi venti.»

«Quindi ti piacciono i biondi, vecchi e impossibili da conquistare.»

Mi domandai se si fosse tenuto quel discorso per tutto il tempo del tragitto, da quando avevo pronunciato il nome fatidico di quell'attore.

«Sei geloso?» gli chiesi a quel punto.

«Al contrario, estremamente sollevato. Grazie a Dio sono giovane e castano.» Lasciò andare la mia mano e cominciò a camminare, seguendo James ed Eve che parlottavano tra loro a qualche metro da noi.

Gli andai dietro, trotterellando alle sue spalle, mentre lui si sistemava meglio il bracciolo del suo zaino in spalla.

«È solo una cotta» mi giustificai. «Da quando sono tornata a scuola, ho scoperto di avere un debole per la categoria bad boy.»

Mi ignorò, proseguì avanti senza voltarsi mai nella mia direzione. «Ma davvero?»

«Già. Soprattutto quelli che violano il coprifuoco e tornano pieni di lividi durante la notte.»

«Un'agonia.»

«Nah, non così tanto.»

«Non per te, per loro.»

Risi ancora.

«Ci credi che uno di questi mi ha detto la classica frase da cattivo ragazzo: "sii mia"? Così sdolcinato!»

«Sarà stato senz'altro ubriaco.»

Gli strinsi la mano, mettendomi al suo fianco.

«No, solo un po' sanguinante dal naso.»

«La botta in testa deve avergli dato al cervello. Secondo me non era in grado di intendere e di volere.»

«Ne dovrò cercare un altro, allora, uno che non si becchi botte in testa. Magari simile a Brad Pitt. Però meno vecchio, visto che ti sta tanto a cuore la sua età.»

Le sue dita s'intrufolarono fra le mie, come se già le conoscessero, come se fosse tutto quello di cui avevano bisogno.

«È un tuo modo indiretto per dirmi che dovrei tingermi i capelli?»

Risi di nuovo. Attraversammo la folla di gente che si muoveva tra i binari della stazione.

«Mi piacciono i tuoi capelli. Però, se vuoi tingerli, non sono nessuno per fermarti. L'importante è che non inizi a metterti lenti a contatto colorate.»

«Ah sì?»

«Sì, i tuoi occhi sono sacri. Quando mai ti capita di incontrare un bad boy con l'eterocromia? Nasconderli sarebbe un insulto a Madre Natura.»

«Vorrà dire che d'ora in poi metterò ogni giorno lenti a contatto nere.»

Gli diedi una gomitata. Di nuovo, non gli feci niente. Era come provare a colpire un menhir.

«Sei sicuro di voler essere qui?» gli chiesi. La domanda partì dalla mia bocca senza che me ne accorgessi. Ruben si fermò, e io con lui. Ci guardammo in silenzio. «Non ti pentirai di non essere andato da tua madre?»

Mi osservò soltanto, in silenzio, e quasi a prendermi in giro per quanto appena detto, mi ritrovai a studiare quei suoi occhi così particolari.

Riprese a camminare, trascinandomi con sé.

«Ti ricordi quando mi hai detto che per te Jesse avrà sempre il primo posto?» domandò.

«Sì.»

«Per me nessuno ha mai avuto il primo posto. No, neanche Anna.» La sua stretta si fece più forte. Un guizzo divertito gli sollevò appena le labbra. «Fino a ieri.»

Mi sentii arrossire.

«Ah sì?» mormorai, calciando un ciottolo ai miei piedi, sfuggito dai binari.

«A quanto pare sono più masochista di quanto temessi.»

«Un bad boy masochista è raro da incontrare. Dovrò dirlo a Jesse, appena torno a trovarlo. Ne sarà entusiasta.»

«Per carità, mi basta già un Murray che mi tartassa, non darmene un altro.»

«Ehi» lo chiamai.

«Ehi» rispose.

«Resti qui?»

Le sue dita s'unirono alle mie. Un bacio di mani.

«Resto qui.»

*

Era ormai passato il tramonto quando arrivammo al centro di Nicewood. A differenza di Littburg, una vera e propria metropoli, quella città aveva molti tratti rustici e campagnoli. Le strade erano per lo più scorticata, l'asfalto rovinato, in vista non c'erano grattacieli ed era molto raro incrociare un mezzo di trasporto.

Ci dividemmo in due gruppi. Eve e James, diretti alla Caritas, e io e Ruben, diretti al pub indicato sul profilo Linkedin.

Non essendoci molti autobus e non conoscendo le strade, ci affidammo a Google Maps. Ringraziai il cielo di essere nata nell'era dell'esplosione digitale, senza di essa dubitavo che sarei riuscita ad orientarmi in quel posto così sconosciuto.

Il pub che cercavamo si chiamava Make a Dream, si trovava in una zona molto periferica della città, e per raggiungerlo ci affidammo ad un taxi. Eve, ormai la mia eroina, mi aveva prestato un po' di soldi. Quando arrivammo a destinazione, trovammo il locale ancora chiuso. La porta in legno era sbarrata e dalle vetrate non proveniva alcuna luce. La scritta CHIUSO s'illuminava a sprazzi su un'insegna al led appesa alla finestra.

«È ancora presto» mi disse Ruben, mentre io sospiravo. «Alcuni pub aprono molto tardi.»

«Dovremmo aspettare?»

«Penso sia una buona idea.»

Mi guardai attorno, non c'era molta gente a quell'ora, e gli altri edifici erano per lo più appartamenti privati. Mi chiesi se ci fosse un luogo là vicino dove poter attendere e continuare a sorvegliare l'ingresso del pub.

Mi sentivo un po' stalker, se ci riflettevo.

Sentii il cellulare nella tasca squillare.

«Eve?»

«Ehi, bambola» mi chiamò lei. «Io e James abbiamo appena finito di parlare con quelli della Caritas.»

Inspirai a fondo. «Ci sono novità?»

«James ha avuto un'idea geniale. Ha detto di essere un parente di uno dei senzatetto di cui lei si è presa cura e che voleva ringraziarla personalmente. Strano ma vero, si sono sciolti come cioccolatini. Beh, visto quant'è tenero James-ehi, dai! Non arrossire, James! Ho detto solo la verità! Dicevo, visto quant'è tenero James, non c'è poi così da stupirsi. Ci hanno detto che lavora al pub di sera, e sì, Callisto, anche oggi dovrebbe farlo.»

Una vampata d'entusiasmo mi scarnificò lo stomaco, strinsi con più forza il telefono. «Ti hanno detto a che ora? Perché siamo davanti al pub ed è ancora chiuso.»

«No, gli orari cambiano sempre a seconda del periodo. Sai, non ha molto senso tenere aperto se non ci sono molti clienti.»

«Vorrà dire che aspetterò.»

«La tizia con cui abbiamo parlato è stata davvero d'aiuto. Oddio, non so quanto sia bello sapere che una persona riveli dettagli così privati e importanti di un'altra a dei totali sconosciuti, ma per una volta non guardiamo al lato tenebroso della vita e cerchiamo di accettare questo colpo di fortuna così com'è. Meno politically correct siamo, più in fretta la troveremo.» Ridemmo insieme. «Dice che di solito è lei che si occupa dell'apertura del pub, quindi, se siete già lì, dovresti beccarla subito. Appena vedi una persona aprire il locale, stai sicura, al... hmm... 80% che è lei.»

Feci cenno a Ruben di allontanarci di qualche metro. Andammo dall'altro lato della strada, all'opposto di Make a Dream. Se proprio dovevo incontrarla, volevo ridurre al minimo le mie impressioni sul mio livello di stalking.

«Avrei voluto farle domande sul suo aspetto fisico» stava continuando Eve, «ma James mi ha fermato, ha detto che così saremmo sembrati troppo sospetti e che non avevamo proprio bisogno di una gita in centrale di polizia per festeggiare la nostra fuga adolescenziale.»

«Ha ragione, quel che avete scoperto è sufficiente. Riuscirò a farmelo bastare.» Sollevai lo sguardo verso la porta ancora chiusa del pub. «Ti hanno per caso detto qualcosa su di lei? Il suo carattere?»

«La tizia della Caritas aveva solo complimenti da darci. Amata da tutti. Gentile. Pacata. Un po' introversa.»

«Pensi che sia sincera?»

«Non lo so. È facile conquistare le persone con un po' di bontà, specie le più disperate, ciò non significa che tale bontà sia sincera.» Eve si fermò un istante. «Ma io ti direi di continuare a credere in Jesse, Callisto. Se a lui piaceva, c'era un motivo. E tu ti fidi di lui, non è così?»

«Sempre» risposi a occhi chiusi, in un istante. «Rimane il fatto che, anche se fosse il nuovo San Francesco, non è detto che mi ascolterà. La mia richiesta non è semplice, anche la persona più buona del mondo avrebbe delle difficoltà.»

«Fa' come tuo fratello, punta sulla pietà.» Ci scommettevo, aveva fatto l'occhiolino. «Potrai sempre dire di averci provato, no?»

«Hai ragione.»

«Vuoi che ti raggiungiamo?»

«No. C'è già Ruben con me, si spaventerebbe se vedesse all'improvviso quattro adolescenti sbucati dal nulla che l'aspettano. Meno siamo, meglio è.»

«Perfetto, allora ti aspettiamo all'hotel. Ti mando la posizione su whatsapp.»

«Eve...» Esitai un istante. «Grazie, davvero.»

Dall'altro capo, la udii ridere. «Chi l'avrebbe mai detto che da una macchia di ciclo sul pavimento della palestra saremmo arrivate a qui? Io no di certo, ma lo rifarei senz'altro.» Un fruscio, dall'altra parte. «Ehi, Callisto.»

«Sì?»

«Sii sincera. Di' quello che davvero desideri. Solo così, secondo me, riuscirai a farti capire.»

Quando chiusi la chiamata, mi affrettai a spiegare a Ruben le novità che mi aveva dato Eve. Lui annuì, in silenzio. Non avendo altri posti dove andare, restammo lì, dall'altro lato della strada, ad aspettare.

Lui si accese una sigaretta in silenzio.

«Quasi vorrei fumare anche io» ammisi. «Aiuterebbe a smorzare l'ansia.»

«Nah» lo sentii rispondere, mentre steccava la cenere a terra. «È solo uno spreco di soldi.»

Lo guardai sorpresa. «Allora perché lo fai?»

«Era inevitabile» ammise, mentre espirava una nuvola di fumo dalle narici. «Tutti quelli che mi stavano attorno fumavano. Sono circondato dalle sigarette da quando sono nato. Rispetto agli altri ragazzi del Dump della mia età, posso quasi considerarmi fortunato. Loro non hanno saputo accontentarsi della nicotina.»

Non parlava quasi mai della sua vita al Dump, l'unico momento era stato durante la confessione fatta in camera mia la notte scorsa, quando mi aveva rivelato il segreto di sua madre. «Anna fuma?» gli chiesi.

«Sì, da che ne ho memoria.» Una smorfia sulle sue labbra. «Neanche lei è riuscita ad accontentarsi.»

Guardai dall'altro lato della strada, l'insegna al led CHIUSO che lampeggiava a scatti.

«Cosa dirai alla tua famiglia affidataria, se scoprissero che non sei ai dormitori?»

«Sono affidatari solo di nome. Non ci hanno pensato due volte a scaricarmi ai dormitori per non starmi dietro. Neanche se ne accorgeranno.» Prese un altro tiro. «Pensa, sprecare tutti quei soldi per un ragazzo di cui fingono di volersi prendere cura ma di cui non gli interessa minimamente niente. La tua amica ha ragione: a volte lo spirito altruistico è solo un mezzo per vantarsi con gli altri e sentirsi migliori.»

Socchiusi le palpebre. Immaginai che quello fosse uno dei motivi per cui faticava così tanto ad accettare aiuti esterni. Era nato in un posto sperduto e abbandonato dalla società e per questo era stato condannato, era stato affidato a persone che fingevano di volersi prendere cura di lui e per questo era stato abbandonato di nuovo.

«Il Dump...» mormorai. «Se ne sente sempre parlare, in giro. Sai, le voci di corridoio. Ma com'è veramente?» Lo guardai. «È davvero così orribile come viene descritto?»

Finì la sigaretta, la spense per terra con la pianta della scarpa. «È peggio di come viene descritto» mi corresse. «Sai perché torno sempre ai dormitori coi lividi?»

«Rick.»

«Anche, ma non solo.» Guardò davanti a sé la porta del pub. «Che sia al ritorno o all'andata, vengo aggredito di frequente dalle altre persone del posto. Spesso le gang. Quella notte... siamo stati fortunati a non beccare nessuno.»

«Perché?»

«Perché ho chiamato l'ambulanza, il giorno in cui Anna è andata in overdose» rispose. «E così facendo sono intervenute le autorità.» Assottigliò appena lo sguardo. «Portare la polizia là dentro è considerata una forma di alto tradimento.»

«Ma... ma era tua madre» mormorai. «Cosa si aspettavano-»

«La lasci crepare. Così funziona. "Meglio la morte che uno sbirro in casa" è il motto del Dump.» La sua espressione era aggrottata come al solito, una smorfia gli indurì le labbra. «Te l'ho detto, è un posto pericoloso. Ha le sue leggi e i suoi divieti, e se non li rispetti, sei già miracolato di poter tornare a casa con le tue gambe.»

«E tu sei cresciuto lì per quasi tutta la tua vita?»

«Ah-ah.»

«E come sei sopravvissuto?»

«La maggior parte dei ragazzi della nostra età cerca di entrare in gruppi già consolidati per avere le spalle coperte» mi spiegò. «Bande, gang, chiamale come vuoi, io li chiamo "deficienti".» Un'altra smorfia. «Il problema di quando inizi a farne parte è che poi non puoi più uscirne. O meglio, puoi, ma dentro una bara.»

Sentii un brivido di freddo attraversarmi la schiena.

«Io non sono il tipo adatto per i gruppi, come tu stessa una volta hai notato. Preferisco farmi i fatti miei. Inoltre, gran parte di essi è dedita ad attività illegali che non mi interessano affatto. Ho visto troppe volte quello che la droga e le armi di contrabbando possono fare. Ne trovi i risultati negli androni delle vie: quando sei fortunato, ti becchi il tossicodipendente in astinenza che ti aggredisce per rubarti i soldi con cui comprarsi altra polvere, quando non lo sei, ti becchi direttamente il suo cadavere, o quello che ne resta.»

Non c'era da stupirsi che sorridesse così poco. La vita non gli aveva dato motivi per farlo.

«E tu non hai mai pensato... di fare come loro?»

«Sarebbe stato molto più semplice» ammise. «Ma no, non mi è mai interessato.» Si fermò un istante, le sopracciglia corrugate. «Quando ero bambino...» si bloccò ancora. «C'era questo tossico che frequentavo.»

Lo guardai, in attesa.

«Non so il suo vero nome, non l'ho mai saputo. Si faceva chiamare da tutti Pop. Era un vecchio decrepito pronto a schiattare da un momento all'altro. Ancora mi chiedo come sia sopravvissuto così a lungo, considerato che i suoi ultimi trent'anni li aveva dedicati solo all'eroina. Lo incrociavo sempre quando uscivo di casa, si era costruito non so come una sorta di capanna indiana con dei vecchi stracci e pezzi di cartone, a un angolo della strada, e lì ci viveva. Di solito era troppo preso a farsi o a dormire per badare a chi gli passava davanti, ma un giorno che non era troppo sballato mi vide e mi chiese se poteva farmi un ritratto.»

«Un ritratto?»

«Ah-ah.» L'angolo delle sue labbra tremò appena. «E disegnava da far schifo. Forse quando era giovane era anche discreto, ma tutta la merda che si schizzava da anni gli aveva completamente sfasato l'intero organismo. Gli tremavano troppo le mani, sbavava sul foglio, tossiva sangue... C'ero abituato, dato che sono nato al Dump, ma mi fece comunque impressione.»

«Non hai avuto paura che ti volesse fare altro, quando ti ha chiesto una cosa simile?»

«No, e anche se ci avesse provato, a malapena riusciva a stare seduto. Avrei potuto picchiarlo senza problemi e scappare via.»

Provai a immaginarmelo: Ruben, bambino, con molti meno lividi e cicatrici addosso, a navigare in quel mondo di dolori e sangue, crimini violenti dentro cui era nato. Lo immaginai, e mi venne da sorridere con amarezza.

«Alla fine mi diede il disegno e io gli dissi: "Che merda". Pop scoppiò a ridere.» Sembrò voler ridere anche lui, ma non ci riuscì. «Ma era simpatico. Faceva delle battute divertenti. Soprattutto quando non era fatto. Finita la scuola, andavo a chiacchierare con lui. Certo, purché non fosse troppo andato. Mi dava le dritte su come comportarmi per sopravvivere, come evitare di alterare gli altri e incorrere nelle loro ire. A volte mi parlava della sua vita prima di diventare un tossico. Diceva di aver viaggiato per il mondo, di aver visto cose che un bambino come me non poteva neanche immaginare, meraviglie della natura. Tutte balle, ovviamente, e lo sapevo, ma mi piacevano comunque. Erano dei bei racconti, e anche se si trattava di gigantesche bugie, volevo ascoltarli lo stesso. Mi faceva credere davvero che là fuori, oltre il Dump, ci fosse qualcos'altro. Qualcosa in cui sperare.»

«Non eri mai uscito dal Dump prima di allora?»

Scosse la testa. «Non è facile» spiegò. «È come mettere migliaia di topi dentro lo stesso buco nel terreno, un buco molto profondo: nessuno riuscirà mai ad uscirne veramente, perché continueranno tutti a scavalcarsi e spingersi, tirare giù gli altri.»

«E a uccidersi» mormorai sottovoce.

«E a uccidersi» confermò lui. «Pop diceva di essere finito lì per sbaglio. La solita, classica storia strappalacrime: moglie e figlio morti in un incidente d'auto, lui che si dà alle droghe per dimenticare, perde tutti i suoi soldi, la casa, il lavoro e va a fare il tossico barbone nel quartiere peggiore della città per racimolare altra polvere.» S'infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, le lunghe ciglia gli adornarono il viso con spicchi d'ombre. «Quella, probabilmente, è stata l'unica volta in cui mi ha detto la verità.»

Tentai di raffigurarmi quest'uomo di cui mi parlava e che, anche se non lo dava a vedere, gli era entrato così a fondo nel cuore. Supposi fosse per via di Pop se era così bravo a scovare le bugie, a tradurle in modo così automatico. Mi sentii quasi in debito nei confronti di quello sconosciuto: era per merito suo se avevo potuto incontrare qualcuno che mi leggeva così a fondo senza che io dovessi ammettere a voce la verità.

«Non ti ha mai... spronato a-»

Ruben scosse la testa. «Era un tossico, ma non crudele, il che, vista tutta la merda che si schizzava in vena, era già un miracolo. Aveva un suo codice morale. Gli piaceva farsi, ma non gli piaceva indurre gli altri a fare altrettanto, specie un bambino come me. Una persona rara da trovare in un posto del genere.» Sbuffò dal naso. «Penso che il motivo per cui parlasse con me e mi desse così tanti consigli fosse perché gli ricordavo il figlio. Forse era il suo modo per chiedergli scusa, non lo so. Non m'interessava granché. Mi piaceva solo la sua compagnia.»

Sentivo che stavamo arrivando alla parte più dura della storia, e automaticamente la mia mano finì nella sua, la sfilò dalla tasca e finì a stringergli le dita.

Ruben sbatté un attimo le palpebre, tese le spalle con forza, per poi rilassarle con un sospiro. «L'ho trovato morto nella sua casa di stracci e cartoni quando avevo tredici anni» disse. «Aveva chiesto in prestito del denaro che non era riuscito a ridare indietro con gli interessi, e così si era guadagnato una dose gratuita di quindici pallottole nel cervello.» Chinò lo sguardo più in basso, sulla strada che ci divideva dal pub. «La sua testa... Gli avevano sparato così tante volte che la sua testa non c'era più, era tutta spalmata contro il muro. Ricordo che quando la vidi, pensai che somigliava a della marmellata sul cemento.»

Nessuna luce od ombra di sofferenza gli attraversò il viso, nessun'espressione di dolore ne contrasse i lineamenti, ma era la sua voce a mostrarlo, il modo in cui si annacquò, come una goccia di profumo nell'oceano infinito.

«Quando lo dissi ad Anna, lei mi rispose: "È la legge." Sapevo che aveva ragione. Quello era il Dump, in fondo era così che funzionava. Se nasci là, nasci bestia. È il tuo destino, puoi solo scegliere se soccombere ad esso o se invece farne la tua arma.» Flesse le sopracciglia. «Ma a me, comunque, non andava bene nessuna delle due strade. Così, ho deciso di crearne una terza con le mie sole mani.»

«Quale?»

«Rispettare la legge, ma non farne parte. Non fidarmi mai di nessuno. Restare in buone conoscenze con chi comandava, ma non avvicinarmici mai troppo. Non mettermi in mezzo a risse che non mi riguardavano. Non desiderare mai denaro, perché lì c'è un solo modo per ottenerlo. E soprattutto, calpestare subito chi provava a sottomettermi per primo. Far capire sin dall'inizio, a qualunque nemico, a cosa sarebbe andato incontro provando ad attaccarmi.»

Già, mi ritrovai a pensare, sei proprio così. Ma non c'era condanna nella mia mente, nemmeno una briciola di giudizio. Quello, mi dissi, era l'unico modo che aveva trovato per sopravvivere.

«Non volevi essere come Pop» mormorai, «ma non volevi neanche essere come quelli che l'hanno ucciso.»

Una risata amara gli vibrò nel petto. «Già.» Corrugò la fronte. «Ma là dentro non puoi sopravvivere, se non ricorri alla violenza. Ghandi, Martin Luther King e le loro teorie pacifiste finiscono tutte nel cesso nel Dump. Che tu lo voglia o no, se vuoi vivere, devi per forza lottare in quel modo.»

«Le cicatrici sulla schiena... come te le sei procurate?»

«Oh, quelle?» Abbozzò un mezzo sorriso. «Un cliente di Anna troppo... ossessionato, se così vogliamo dire. Non pagava mai e pretendeva sempre. Le lasciò un livido gigantesco su tutto il viso, non riuscì ad aprire l'occhio destro per settimane. Andai da lui per dargli una lezione, e purtroppo lui la diede a me, con la sua cintura.»

Strinsi con più forza la sua mano. «Quanti anni avevi?»

«Quattordici.»

«Mi dispiace.»

«Non esserlo. Cresciuto un po' di più, gliel'ho fatta pagare cara.»

Ormai si era fatta notte, il cielo aveva iniziato a scurirsi come velluto nero, l'aria si stava facendo sempre più fredda. «E il piercing?» chiesi a quel punto.

«Pop ne aveva uno identico» spiegò. «Un po' strano, per un vecchio tossico come lui. Se ne vantava un casino, diceva che rendeva i baci con le sue signore molto più eccitanti. Probabilmente si riferiva alle amanti immaginarie che l'eroina gli faceva vedere.» Scoppiai a ridere, l'angolo della bocca riprese a tremargli. «Nessuno si ricorda più di lui, ora. Era solo un tossico senzatetto come tanti, sai quanti ne crepano così, al Dump? Troppi per poterli contare. Ho pensato...» Si bloccò.

«Che così non lo avresti dimenticato?»

Un altro mezzo sorriso. «Immagino di sì.»

Le nostre mani intrecciate erano anche la nostra unica fonte di calore, mentre i respiri si trasformavano in caligine cristallizzata non appena toccavano l'aria.

«Penso che tu sia stato molto coraggioso» mi ritrovai a dire alla fine, tornando a guardare Make a Dream, ancora chiuso. «Avresti potuto scegliere le strade più semplici: quella di sprofondare o quella di distruggere. Sarebbe stato molto più facile. Avresti rischiato molto di meno. Avresti potuto semplicemente cedere alle leggi del Dump e diventare come tutti quanti gli altri, ma non l'hai fatto. Hai preso la via più difficile per non tradire te stesso.» Le sue dita, così callose, si erano fatte ancora più calde tra le mie. «Forse il Dump ti considera un infame per aver chiamato le autorità, ma per me sei solo una persona che ha scelto di essere libera anche se dentro una prigione.»

Ruben non disse nulla, ma sentii i suoi occhi scrutarmi.

«Una gabbia è tale solo quando tu le permetti di rinchiuderti» mormorai. «Anche con delle catene addosso, finché rimarrai te stesso, finché non ti dimenticherai mai chi sei e chi vuoi diventare, nessuno potrà mai veramente imprigionarti.»

Sentii la sua mano libera sfiorarmi la guancia, accaldarne la carne fredda col suo tepore. Mi voltai verso di lui, un sorriso delicato a timbrarmi le labbra, i suoi occhi nei miei, appena schiusi, ad osservarmi. «È questo quello che ti dicevi, quando i tuoi genitori ti rinchiudevano?»

Mi domandai come facesse a saperlo. Non gli avevo mai parlato delle mie punizioni dentro l'armadio. Non gli avevo mai detto dell'incubo dell'anta che si chiudeva, delle mie unghie che grattavano contro il legno. Forse era stato il giorno in cui ero entrata nell'ascensore? O forse si riferiva a una prigione metaforica, quella delle violenze?

«Quando mi rinchiudevano» bisbigliai, stringendo la mano con cui mi carezzava nella mia, le labbra ancora sollevate, «pensavo a Jesse.»

«Jesse?»

Annuii contro il suo palmo, a occhi chiusi. «Il suo sorriso» proseguii con un sussurro. «Era l'unica cosa che mi calmava. Lui era la chiave per aprire la gabbia nella mia mente.»

Col pollice, sfiorò lo zigomo. «Non vuoi davvero rivelarglielo?»

Scossi la testa. «Sarò bugiarda fino alla fine» esalai con una risatina. «È troppo tardi, ormai, per rivelare la verità. Sono passati troppi anni. Rovinerei tutto quanto. E soprattutto...» Chinai lo sguardo a terra, la punta consumata delle nostre scarpe. «Non me lo perdonerei mai, se lui dovesse andarsene dandosi la colpa di tutto. Lo conosco, lo farebbe senz'altro. Da bambina avevo il terrore che lo scoprisse e per lo shock gli venisse una crisi.»

Sentii il timbro caldo delle sue labbra contro la mia fronte. Inspirai con gioia quell'aria fresca, invernale, mi sembrò di venir disintossicata. Tutto il veleno che i miei genitori mi avevano iniettato nel corso degli anni parve sciogliersi nel sangue e scomparire, sotto lo stampo di quel bacio.

Mi afferrò il mento con le dita, mi costrinse a sollevare lo sguardo, così che i nostri occhi tornassero a incrociarsi. Lui era... bellissimo, in un modo che andava oltre l'aspetto fisico. Mi resi conto di quanto ci fossimo denudati in un singolo istante, con quella conversazione. Era più del sesso, pensai, più del semplice scambio di corpi.

Era il primo uomo a cui avessi mai detto la verità.

La prima persona a non aver mai creduto a una sola delle mie bugie.

Non era lo sguardo, i capelli, l'aspetto ammaliante, era quell'insieme di sfumature con cui andava a dipingermi dentro i suoi occhi, quel pennello che sembrava ricalcare i miei contorni senza mai lasciarsi ingannare dalle bozze della matita che si nascondevano sotto.

Mi sollevai sulle punte dei piedi, lo baciai aggrappandomi al colletto della sua giacca. A occhi aperti, per non dimenticare mai quel momento, le sue ciglia che tremavano appena, il modo in cui mi contornò il volto tra le mani, con una delicatezza che nessuno avrebbe mai potuto pensare appartenere a uno del Dump, e che eppure gli si adattava magnificamente, come se fosse la sua seconda pelle, la sua vera natura.

I passanti attorno a noi si voltavano di tanto in tanto per guardarci, ma non m'importava granché. Mi ritrovai a sorridere contro le sue labbra. «Puzzi di sigaretta» mormorai. «Adesso manca solo la menta.»

Un colpo in testa, mi allontanai, ferita, massaggiandomi ancora una volta il capo.

Tamburellò con l'indice sulla mia spalla. «Guarda là» e indicò il pub.

Girai la testa, trattenni il fiato.

Una giovane donna si stava avvicinando alla porta d'ingresso del pub. Un paio di chiavi in mano, fischiettava. Era minuta, addosso portava un cappotto rosso fuoco dai bottoni dorati, che le arrivava alle cosce. Un cappello alla francese dello stesso colore, da cui ridiscendevano capelli corvini talmente scuri da confondersi con le tenebre del cielo.

Sentii la mano tremarmi.

Dietro la donna, c'era un uomo, forse più grande di lei di qualche anno. Tra le braccia stringeva una bambina di due, massimo tre anni. Stavano parlando, ma erano troppo lontani perché potessi sentirli.

La donna infilò la chiave nella serratura della porta, e poi, per un istante, si voltò nella nostra direzione.

Per la prima volta, fui grata a Madre Natura per avermi donato una vista perfetta.

Lo notai subito.

Il neo all'angolo dell'occhio.

"Grande quanto un chicco di riso."

Non esitai un attimo. Corsi verso il pub, Make a Dream, in fretta e furia, attraversai la strada e, a gran voce, urlai quel nome che finora avevo cercato solo su internet.

Lei e l'uomo sussultarono insieme, si voltarono verso di me che gli correvo incontro.

Arrivai davanti alla donna quasi con il fiatone.

Sollevai il capo.

Due occhi nocciola mi guardarono tra lo spavento e la curiosità, la donna sembrò tentennare, insicura su come comportarsi.

«Tutto bene, cara?» mi domandò, la sua voce sembrava mischiata al miele.

Cercai di riprendere fiato, mi sforzai di assumere un tono e una posa dignitosi, ma fallii miseramente.

Per Jesse, mi dissi con forza, per Jesse, un'ultima volta.

Presi più aria che potei dalla bocca, per poi guardarla e domandarle:

«Emma? Emma Marlow?»

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