Meritevole d'aiuto
Odore di sigaretta.
Un effluvio pungente, nauseabondo, che lo circondava e mi scorticava i polmoni.
I suoi occhi nei miei, biglie illuminate dalla luna, le pupille che scavavano a fondo su di me e in me, alla ricerca di una verità che non sapevo di possedere.
La sua espressione intransigente, che non avrebbe mai perdonato alcun tipo di peccato, quella rabbia sottile che gli aggrottava la fronte, una collera che gli irrigidiva tutto il corpo. Le labbra e il mento insudiciate dal sangue rinsecchito gli conferivano un'aria ancora più aggressiva, una tensione che riuscivi a respirare a gocce nell'aria.
Quale fosse il mio crimine, tuttavia, non lo sapevo.
Lo guardavo, di fronte a lui, in piedi, con il mio povero pigiama e tutti i dubbi a implodermi in testa, gli sorridevo confusa, perché in quella nebulosa corrente che aveva creato mi ritrovavo persa e sola.
Ruben si sollevò dal letto, le molle della rete accompagnarono ogni suo gesto quasi a voler ridere di noi, della bizzarra situazione in cui ci eravamo ritrovati. Sembravano sghignazzare a ogni passo claudicante che lui compiva verso la mia direzione.
Venne da me in silenzio, senza mai staccare lo sguardo. I nostri occhi erano incatenati tra loro come stelle appartenenti alla stessa costellazione. Mi arrivò davanti, il suo grande e lungo corpo coprì il mio sotto un'ombra gigante, il suo respiro mi alitò sul capo. L'odore di sigarette si fece più pungente, un pizzicore che mi faceva prudere il naso.
«Tu» ringhiò, e io non potei fare a meno di notare il modo in cui modulava la propria voce, stando attento ogni secondo a far sì che continuasse a risultare aggressiva, il verso di un animale pronto ad attaccare in qualsiasi momento, «che cosa vuoi da me?»
Di tutte le domande che avrebbe potuto farmi, quella era l'unica che non avevo affatto previsto. Mi chiesi cosa avrei dovuto dirgli, visto che una risposta effettiva non esisteva proprio. "Nulla" sarebbe stato corretto, ma avevo la forte sensazione che non mi avrebbe creduto.
«Ti conosco da tipo cinque giorni» gli feci notare allora. «Che diavolo dovrei volere da te?» Il mio sguardo ricadde sul sangue che lo ricopriva. «Posso pulirti il viso? Sei proprio-»
«Non esiste» mi interruppe lui, «una gentilezza che non richiede nulla in cambio.»
Ero completamente spaesata, il suo discorso filosofico non era proprio adatto a quell'orario notturno. «Ho pensato» spiegai, «che se ti avessero beccato, avrebbero messo le grate alle finestre, e l'idea non mi piace proprio. Sarebbe come essere rinchiusa in una prigione.» Di nuovo, aggiunsi nella testa, ben attenta a non pronunciarlo.
«Quindi» disse, «tu mi avresti aiutato solo perché non vuoi le grate alla finestra?»
Annuii, ma l'ombra nei suoi occhi mi fece capire sin da subito che non era per niente convinto. Mi chiesi in che modo avrei potuto fargli capire la mia posizione, ma non sorse nulla alla mente.
«Ehi» lo chiamai, «so che non c'entra niente, ma posso pulirti il volto? Ti deve dare fastidio tutto quel sangue.»
Lui non rispose, i suoi occhi continuarono a scrutarmi con sospetto. «Farò subito» mi affrettai a precisare, «e starò attenta a non toccarti se non attraverso l'asciugamano.»
Interpretai il suo silenzio come un assenso, perciò mi sbrigai a prendere uno degli asciugamani rossi piegati dentro il cassetto dell'armadio, sulla parete sinistra. Afferrai la bottiglietta d'acqua che lasciavo sempre ai piedi del letto e la usai per impregnare la stoffa morbida.
«Ci impiegherò un attimo» precisai, mostrandoglielo a un centimetro dalla bocca. Lui non disse nulla, me lo strappò di mano senza proferir parola e iniziò a tamponarselo sulla bocca e il mento. Richiusi le dita a pugno e mi silenziai, mentre Ruben si ripuliva in fretta, strofinandosi il tessuto con fin troppa violenza.
«Smettila di sorridere» tuonò. «Sei fastidiosa.»
Anche così, però, non smisi di farlo. «Mi dispiace» replicai, «il sorriso è nel mio DNA: c'è e basta, non lo posso cambiare.»
«Bugiarda» dichiarò con voce forte, giudicandomi con un solo sguardo.
Portai le mani in grembo. Non potevo contraddirlo, né confermare quanto da lui affermato, ma... era bello avere finalmente qualcuno incapace di credere alle mie bugie.
Osservai la manica della sua maglia, anch'essa sporca di sangue, e mi domandai cosa fosse successo per fargliene uscire così tanto dal naso. Un colpo in testa, sicuramente. E doveva essere stato anche piuttosto forte.
Incastrai le dita tra di loro, tornai a parlare: «Tutte le ferite fanno male.» Lui si bloccò, con l'asciugamano a coprirgli metà viso. «Alcune meno, alcune più, ma tutte provocano dolore» continuai. «E a me non piace vedere quel dolore, perché mi ricorda cose che vorrei dimenticare. Per questo faccio di tutto perché quelle ferite svaniscano il prima possibile, non importa se su di me o sugli altri.» Mostrai i denti impacciata. «Quindi non credo si tratti di gentilezza immotivata. È solo che voglio scordare il prima possibile.»
«E cosa avrebbe da scordare una come te?»
L'insulto che mi rivolse era chiaro ed esplicito, ma mi domandai se fosse sincero. Il modo in cui si muoveva, in cui parlava... tutto mi appariva quasi una finzione, un teatrino che lui stesso metteva in scena per allontanare gli altri, ferirli prima ancora che loro potessero ferirlo prima. Avevo la sensazione di avere a che fare con un cane che era stato picchiato sin da cucciolo e che ora aggrediva qualunque persona o animale gli venisse incontro, a discapito di qualsivoglia buon intento.
Forse perché anche io non ero che una menzognera, una faccia sintetica, un'anonima ragazza che si era costruita un'espressione allegra da indossare ad ogni momento, percepivo la stessa artificiosità da parte sua: ogni gesto che compiva, ogni parola pronunciata, erano così precisi e diretti da instillarmi il dubbio che in realtà fossero già calcolati.
O forse era semplice sindrome da Crocerossina, da degna protagonista dei romanzi trash che si leggeva mio fratello. Non potevo negare che lui mi piaceva, alla fine, gnocco com'era.
Inclinai appena il capo e mi indicai un punto in basso sul mento: «Ti è rimasto un po' di sangue qui.»
Ruben se lo pulì con furia, al punto che, quando lasciò andare l'asciugamano, la pelle era rossa non più per il sangue ma per la forza con cui aveva scartavetrato via quest'ultimo dalla carne.
«Se pensi che io adesso abbia un debito nei tuoi confronti» enunciò, «ti stai sbagliando di grosso.»
Sollevai le sopracciglia. «Un debito?» ripetei perplessa. Ci impiegai un paio di minuti per capire. «Ah! No, non ti preoccupare, non ti chiederò di ripagarmi. Non hai nulla per cui potresti risultarmi utile.»
Lo dissi con la più totale onestà, ma evidentemente lui prese quella dichiarazione come un insulto. La sua mandibola si serrò.
«Tu» mi chiamò, «non hai paura?»
«Di cosa?»
«Di me.»
Sbattei le palpebre, rimasi ammutolita per qualche secondo. Di lui? Certo, non era una domanda così strana. Aveva già dato dimostrazione di sapere usare la violenza, di ricorrere ad essa quando lo riteneva necessario. Lui che era un quadro di lividi e tornava di notte col sangue addosso, lui che aveva pestato tre ragazzi da solo. Mi ricordai l'immagine di quando lo avevo trovato in quel vicolo: rinchiuso nell'oscurità, in piedi sopra agli avversari, la suola della scarpa a schiacciare il capo di Conrad per terra, il modo distaccato con cui lo guardava, come se fosse un'altra creatura, un essere che non poteva appartenere alla razza umana.
«Suppongo dovrei averla» asserii, per poi, senza neanche volerlo, lasciarmi andare a una risatina.
La cosa ridicola di tutta quella situazione, la più grande e ingiusta ironia del nostro rapporto appena iniziato, era che io la sua violenza la conoscevo da tempo, l'avevo sognata e desiderata, l'avevo immaginata più volte nascere dalle mie mani, sentirla macchiarmi le dita di sangue. Come una mendicante avevo supplicato Dio di concedermela, di darmi l'opportunità di farla uscir fuori, di togliermela da dentro il cuore che più non riusciva a contenerla.
Io sognavo lame affilate di coltelli e un petto squarciato dal loro tocco, urla di dolore e preghiere, scuse che non avrei mai accettato, volti deturpati da una paura così incombente da trasformarli in visi bestiali.
«Non posso avere paura di te.» La mia voce uscì più gentile di quanto volessi. «Se lo facessi, dovrei avere paura anche di me.»
Non comprese, questo era evidente, ma non era necessario spiegargli altro. Mi ripresi l'asciugamano, ne guardai il tessuto: il sangue si confondeva con il suo colore vermiglio al punto da non poterlo più individuare.
«E per cosa spaventeresti tu?» domandò con un sarcasmo profondo nella voce. Mi guardò dall'alto in basso, gli occhi che sembravano voler insultarmi con il semplice sguardo e io ricambiai la sua presa in giro con un altro sorriso. «L'unica cosa che spaventa di te» pronunciò rigido, «è la falsità con cui continui a sorridere.»
Strinsi l'asciugamano tra le dita con più forza, lo vidi avvicinarmisi e scrutarmi dalla sua imponenza. «La tua gentilezza, le motivazioni dietro ad essa, il tuo dannato sorriso... tutto di te è così finto da darmi il voltastomaco.»
Le labbra restarono ferme, ma dentro mi sentii marcire come un'orchidea abbandonata al sole cocente dell'estate.
«Non osare paragonarti a me, non osare cercare di comprendermi.» I suoi tratti si erano fatti duri, e mentre parlava mi accorsi di un altro dettaglio finora mai notato: un piercing alla lingua che luccicava come un piccolo diamante celato in bocca. «Stammi alla larga, considerati invisibile quando mi sei vicino.»
«Se lo avessi fatto» gli feci notare, «a quest'ora saresti finito nei guai.»
«Non ti riguarda» dichiarò con tono deciso. «Non mi fido della gente come te, non mi fiderò mai.»
«Lo trovo molto ipocrita da parte tua.» Una ciocca della frangia mi finì sopra gli occhi e io la scostai malamente. «Se davvero fosse come dici, non ti saresti fatto aiutare da me, ma così è stato.»
Ruben si immobilizzò.
«Quando ti ho detto di entrare in camera mia, lo hai fatto, ti sei fidato di me. Forse hai pensato di starmi solo usando, ma anche per usare le persone bisogna avere un qualche tipo di fiducia nei loro confronti.» Inspirai. «A me non importa, in realtà. Così come non mi importa quello che pensi di me. Ma se credi che quello che stai facendo mi metta paura» aggiunsi, «mi dispiace dirti che non sta funzionando.»
Strinse le labbra con forza.
«Mi dispiace» ripetei, «è solo che non lo so più nemmeno io, cosa sia la paura.»
E, concluso il mio discorso, mi diressi verso la porta della stanza. Feci per indicare la maniglia, quando lo sentii dietro di me, la sua ombra che mi investiva.
«Stammi alla larga. Sempre.»
Aprì la porta senza che potessi dire altro, se ne andò via lasciandomi da sola nella camera.
Quando l'uscio si chiuse, lanciai l'asciugamano nella cesta dei panni sporchi, nascosta sotto la scrivania.
«Stammi alla larga» ripetei con voce profonda, cercando di imitarlo. «Sempre!»
Non so perché, ma per la prima volta sentii sincerità nella mia risata.
*
C'era l'oscurità.
Tenebre così dilaganti da colarmi dentro, riempirmi gli organi, soffocarli col loro liquame.
C'erano le pareti che si facevano sempre più strette, come corvi si avvicinavano a me, mi si chiudevano attorno, e io sentivo l'aria rarefarsi, i polmoni che non riuscivano più a catturarla, e il cuore che esplodeva e si ricomponeva ad ogni battito.
Il sudore freddo che mi bagnava le cosce, il calore bollente della pipì che si accumulava nella vescica e spingeva per uscire.
Mostri di tenebre che mi leccavano le curve del collo, l'odore asfissiante del profumatore al limone.
E allora grattavo, grattavo, grattavo.
Supplicavo, pregavo, imploravo.
Sarei stata zitta e brava, stavolta, non avrei mai più parlato.
Mi sarei ammalata io, me lo sarei presa io quel cancro.
Il rumore delle unghie che si spezzavano nel legno, i trucioli che mi cadevano addosso, negli occhi, ad asciugarmi le lacrime.
Tutto si faceva sempre più stretto, più piccolo, attorno a me, ma io diventavo più grande, troppo grande.
Certe volte udivo rumori da fuori, ma per quanto gridassi non rispondeva nessuno.
Per quanto mi scusassi, non mi perdonava nessuno.
E c'erano incubi sordidi che prendevano vita nella follia di quell'orrore, sciami di parole e insulti che mi travolgevano e pizzicavano dappertutto, bestemmie che mi rimanevano a metà gola, roventi.
C'era che non potevo più nemmeno pregare, mi avevano tolto anche quello.
E allora provavo a pensare a qualcosa di bello.
Qualcosa di bello a cui potessi aggrapparmi, un filo sottile a cui legarmi per non sprofondare per sempre in quegli abissi.
Pensavo al sorriso, al sorriso di Jesse.
Pensavo a lui che soffriva.
Bambina cattiva.
Bambina malvagia.
Non avrei sofferto più, in due non si poteva fare: c'era già lui, aveva preso tutto lo spazio possibile.
E allora avrei sorriso anche io.
Come Crystal, sì, avrei sorriso anch'io.
Magari così sarei stata perdonata, magari così a qualcosa sarei servita.
Magari così avrei potuto essere amata.
«Sorridi, sorridi, sorridi.»
E lo ripetevo, lo ripetevo, lo ripetevo...
Fin quando non avrei dimenticato che sapore avevano le mie lacrime.
Mi svegliai in un letto di sudore, con il suono acuto della sveglia del cellulare.
Balzai giù dal letto di colpo e corsi nel bagno adiacente alla camera, una piccola stanza dalle piastrelle celesti e un soffitto scorticato dalle crepe.
Spalancai la porta, mi buttai contro la tazza del water e il mostro di orrore e paura che conservavo dentro si gettò fuori dalle mie labbra, in una pozza di vomito che mi fece sentire eviscerata.
Il rumore delle mosche che volavano intorno al pezzo di carne, l'odore della putrefazione...
Rigurgitai fuori tutto: anima, sentimenti, bugie e fallimenti.
Mi sentii spremuta da una mano invisibile, come se fossi un brik di succo di frutta: ogni liquido che tenevo dentro schizzò fuori dalla bocca in un getto continuo, portando con sé un sapore e un odore aciduli.
Tossii più volte, la bava che mi colava sul mento, sputai fuori gli ultimi pezzi di vomito che mi erano rimasti dentro il palato.
Mi sollevai in piedi, scaricai. Andai al lavandino e mi sciacquai la faccia, la bocca, i denti.
Tutti i miei muscoli dolevano, e mi sentivo come appesantita, quasi la mia carne si fosse ingrassata nel giro di una notte e io dovessi portarne avanti i pezzi senza essermi mai allenata prima.
Mi guardai allo specchio, il viso impallidito a tal punto da non riuscire più a riconoscerlo, le occhiaie profonde, le labbra tremolanti, i capelli spettinati, con la frangia che si era aperta proprio sopra gli occhi lucidi.
Così non andava bene, non avrei potuto presentarmi a lezione in quelle condizioni.
Presi la mia trousse di trucchi dall'armadietto accanto allo specchio e tirai fuori il correttore e il fondotinta. Ridiedi un colore omogeneo alla carne e nascosi le pesanti borse sotto gli occhi.
Quando tornai a guardarmi, ero ancora brutta come al solito, ma almeno non sembravo più una che aveva appena vomitato anche l'anima.
Mi diedi dei colpetti sulle guance, nel tentativo di svegliarmi da quell'incubo che ancora mi perseguitava di giorno.
Stavo bene, stavo bene, stavo bene.
Non c'erano più lacrime da consumare, né preghiere da fare.
Era tutto okay.
Annuii al mio riflesso e ripresi a lavarmi, canticchiando la sigla di Crystal Ballerina tra me e me.
Indossai un paio di jeans strappati che avevo comprato secoli prima e una t-shirt che Jesse mi aveva regalato per i quindici anni: nera e con la scritta rosa a caratteri cubitali "Best sister ever".
Leggerla mi strappò un sorriso sincero.
Controllai che i bracciali fossero tutti al loro posto, che coprissero i polsi alla perfezione. Li scossi un po' per far tintinnare i ciondoli, il loro suono metallico mi ricordò con precisione cosa dovevo fare e perché.
In quel momento, il mio cellulare suonò.
Lo presi dal comodino accanto al letto e mi sfuggì un altro sorriso quando vidi la notifica di un messaggio da parte di Jesse.
Salve, principessa ballerina, una nuova, strepitosa e ormonale giornata da adolescente ribelle ti aspetta! Quest'oggi si raccomanda di fare attenzione a un possibile temporale di bad boy e di stare lontani da acquazzoni provocati dalla sua ira. In caso di imprevisti, ricorrere sempre allo spray al peperoncino che me medesimo ti ha dato in dono settimane addietro. Qua giù a Cancro World il tempo è dei migliori, non ci sono state pisciate o cagate impreviste e a portarmi la colazione oggi è stata un'infermiera benedetta da Madre Natura per le sue curve. Io e la leucemia siamo ancora un'unica cosa, ma almeno oggi Sua Santità il Tumore mi ha permesso di fare una bella passeggiata nel cortile della clinica. Non ti preoccupare per me e goditi la tua adolescenza al meglio che puoi. Cerca però di non diventare un nuovo personaggio di Euphoria perché Zendaya sarà pure figa, sì, ma una sorella drogata e un fratello incancrenito non sarebbero poi così belli in un nostro futuro film. Un bacio!
Il tuo malato terminale preferito
La giornata trascorse tranquilla per quasi tutte le lezioni. Di nuovo, non riuscii a parlare con nessuno, ma anche su questo non c'era molto che potessi fare: l'unico con cui avevo avuto una conversazione finora era Ruben e non mi sembrava proprio adatto da prendere come esempio.
Presi appunti, ascoltai gli insegnanti, osservai un po' gli altri studenti, mi divertii a guardare fuori dalla finestra. Di tanto in tanto condivisi la lezione con Mr Bad Boy, ma lui mi ignorò completamente, non mi guardò neanche. Sembrava essersi un po' ripreso, almeno, anche se continuava a zoppicare; l'espressione scontrosa era rimasta la stessa, fulminava chiunque gli si avvicinasse con lo sguardo, presi quei dettagli come dei buoni segni di guarigione.
Ma ci fu una parte peggiore del dover far finta di non interessarmi minimamente a come far scomparire il prima possibile le sue ferite.
La lezione di educazione fisica.
Non ero mai stata una persona atletica, da che ero bambina, e la situazione che avevo vissuto fino a quel momento, sempre al fianco di Jesse, non mi aveva permesso di migliorare quel rapporto controverso con lo sport.
Si poteva dire che la mia prestanza fisica fosse alla pari di quella di un'ottantenne, e di questo non ne andavo fiera. Riuscivo già a immaginarmi le risate che avrebbero fatto gli altri studenti nel guardarmi affannare solo per correre come un essere umano qualunque.
Condividevamo la lezione insieme a un'altra classe, li incontrammo nella palestra della scuola, e tra loro mi accorsi subito che c'era anche la ragazza con cui avevo fatto la mia più umiliante figuraccia, nell'aula di teatro.
Camminava a passo sicuro, come una vera e propria modella, il petto in fuori e la schiena dritta, la coda di cavallo che ondeggiava ad ogni movimento. Ci stavamo dirigendo verso gli spogliatoi per le donne, e solo in quel momento notai che, come me, anche lei era completamente isolata dalle altre studentesse. Andava veloce, come se volesse stare il più alla larga possibile da quel marasma di adolescenti che aveva alle spalle, e non si guardava mai indietro.
La osservai dal fondo del gruppo. Dio, quant'era bella. Arrossivo solo a vederla. Possedeva quel genere di fascino che non si vede spesso nel mondo, un autentico magnetismo che induceva gli occhi di tutti a posare lo sguardo su di lei. L'invidia che provavo nei suoi confronti era infinita; al solo osservarla, mi vergognavo ancor più del mio aspetto così banale e ordinario.
Aprì la porta degli spogliatoi per prima, e si rifugiò dentro essi come una scheggia. In quel momento, due ragazze che mi camminavano di fronte iniziarono a bisbigliarsi tra loro: «Ehi, ho sentito che stavolta si è fatta Terrence Nickolson.»
«Si è già stancata di Lawrence? Cambia ragazzo come cambia scarpe.»
Ci furono delle risatine che non compresi: «Che ti aspetti dalla puttana della scuola?»
«Ce l'avrà così grande ormai da sembrare un garage.»
Continuarono a spettegolare e insultare la ragazza in comunella, senza neanche preoccuparsi troppo di esser sentite. Smisero solo quando entrammo negli spogliatoi, ma anche lì, continuarono a lanciare occhiatacce divertite alla giovane che si stava cambiando, con quei sorrisetti aciduli che sembravano voler dire "ecco il clown".
Il soggetto di quelle beffe sembrò accorgersene, ma mantenne un'espressione indifferente tutto il tempo, anche mentre si spogliava e infilava la tuta da ginnastica bianca. Non avrei saputo dire se i commenti sul suo conto non la interessassero o se semplicemente aveva scelto la politica dell'impassibilità, ma mi accorsi, dall'armadietto accanto al suo, che l'angolo sinistro delle labbra le tremolava leggermente.
Forse sarei dovuta intervenire? In fondo, ero in debito con lei, dopo che l'avevo interrotta in quel modo durante il suo amplesso. Quelle due studentesse non sembravano le uniche a prenderla in giro, anche le altre, di tanto in tanto, lanciavano qualche sghignazzo o battutina sottovoce che era però udibile a tutti. Persino ai miei occhi risultava evidente che tutte le presenti in quello spogliatoio la consideravano "la puttana della scuola", come era stata definita.
Decisi di aspettare e di vedere come si sarebbe evoluta la vicenda.
La palestra della scuola era grande quanto un campo da football, con il pavimento color crema e le pareti celesti che generavano echi a qualunque voce, il soffitto talmente alto da riuscire a stento a individuare le luci al neon che lo illuminavano. Il professor Harrison ci fece sedere per terra, proprio al centro, per spiegarci un po' quello che sarebbe stato il programma semestrale di quell'anno.
La ragazza che aveva attirato tutte le mie attenzioni non aveva nessuno al suo fianco, le altre studentesse la evitavano, mettendosi alle sue spalle da una certa distanza, tra risolini e battute sussurrate a bassa voce. Così, decisi che mi sarei seduta io accanto a lei, comunque non avevo nessun altro a cui fare compagnia.
Sembrò sorpresa quando si accorse di me, i suoi occhi mi indagarono per qualche secondo tra la confusione e lo sbigottimento, io invece mantenni lo sguardo fisso verso il professore che parlava a sproloquio, senza un vero motivo, rossa in volto al pensiero che avrebbe potuto riconoscermi come "la ragazza ombrello" che l'aveva interrotta in uno dei suoi momenti più importanti.
Mr Harrison andò avanti per una ventina di minuti, e risultò evidente che nessuno tra noi ragazzi lo stesse effettivamente ascoltando. Di lui guardavamo i vari gesticolamenti che faceva con le mani e il modo in cui, ogni tre secondi, andava a grattarsi la barba folta e imbrunita.
Dopo un altro quarto d'ora, finalmente, decise che era ora di iniziare la lezione e ci disse di alzarci da terra. Quando ubbidimmo, sentii alle mie spalle una studentessa ridacchiare con forza, e dire: «Guarda, la dà talmente tante volte che ora le ha iniziato a sanguinare.»
Mi ci volle un po' per capire cosa stesse succedendo. Guardai la ragazza accanto a me, il suo corpo, e all'inizio mi sembrò tutto così confuso, perché non vedevo nulla di strano. Poi, posai lo sguardo sul punto a terra da cui si era appena alzata.
E notai la macchia di sangue.
La stessa che ora le sporcava i pantaloni bianchi della tuta, proprio sul lato del fondoschiena.
Anche lei se ne accorse, e non riuscì a mascherare in tempo il panico che la travolse, il viso le si immobilizzò in un'espressione di puro terrore, con la pelle pallida e gli occhi sgranati.
Le ragazze alle nostre spalle continuavano a ridacchiare, i loro sghignazzi erano così fastidiosi che, se avessi avuto una trombetta, gliel'avrei suonata proprio accanto all'orecchio solo per zittirle. Non comprendevo neanche la loro crudeltà nei confronti di quella studentessa; la ragazza stava letteralmente vivendo quello che era uno dei peggiori incubi che noi donne potessimo mai sperimentare, e loro dovevano saperlo bene.
La vidi portarsi le mani sul sedere, cercare di tastarsi per vedere se anche il pantalone era macchiato e, non riuscendoci, andare ancora più in crisi. I suoi occhi si muovevano come schegge impazzite da una parte all'altra, ed ero sicura che anche lei, come me, riusciva a sentire i commenti delle altre giovani.
«Forse l'ultimo con cui è stata l'ha sfondata troppo.»
«Dovrebbe essere felice, visto quante volte corre il rischio di restare incinta.»
«Almeno siamo sicuri che non nascerà un'altra come lei.»
Il viso di lei era così esangue da ricordarmi quello di Jesse. Gli occhi le tremavano impazziti, le labbra si aprivano e chiudevano in continuazione tra l'affanno.
Tirai giù la zip della mia giacca rossa e me la tolsi in fretta, restando con la mia t-shirt bianca. Senza aspettare un minuto di più, gliela legai attorno alla vita in un gesto rapido e fulmineo, nascondendole così la macchia nei pantaloni, e la spinsi in avanti, andando ad occupare io il posto in cui si trovava; i miei gesti sorpresero lei tanto quanto sorpresero le altre spettatrici, che rimasero a occhi sgranati.
Le sorrisi. «Faccio subito» fu la mia promessa, per poi gridare a gran voce: «Professor Harrison!»
Mr Harrison si voltò verso di noi, lo sguardo crucciato. «Murray! Perché siete ancora ferme lì? Cosa state-»
«Professor Harrison, mi è venuto il ciclo.»
Il professore sobbalzò, e anche gli altri studenti fino a quel momento ignari della situazione si girarono dalla nostra parte, fissandomi con occhi interessati. Tra loro c'era anche Ruben, ma lo ignorai, non avrebbe avuto senso concentrarmi su di lui in un momento simile.
«Ho sporcato il pavimento» proseguii, indicando il punto in cui la macchia ora risultava visibile. Per fortuna, essendoci io davanti, tutti quelli che se ne erano accorti solo ora avrebbero subito pensato che ne ero io la fautrice. «E anche il mio pantalone. Avrei bisogno di tornare agli spogliatoi. Lei può accompagnarmi?» domandai a quel punto, avvolgendo il braccio attorno a quello della ragazza con naturalezza. «Ha un cambio da darmi e inoltre è l'unica che possiede gli assorbenti anallergici che posso indossare.»
Il professor Harrison sembrò senza parole, forse non per la situazione in sé quanto per la naturalezza con cui ne parlavo di fronte a tutti. Cercai di mantenere il mio sorriso più cordiale nel guardarlo, e mi resi conto che nel giro di un paio di giorni avevo mentito spudoratamente a così tanti adulti da poter meritarmi l'inferno solo per quel motivo.
Ma poco importava, ormai.
Gli altri ragazzi iniziarono a bisbigliarsi tra di loro, la giovane accanto a me mi guardò come se non capisse tutt'ora cosa stesse succedendo, mentre, a un paio di metri di distanza, Ruben mi fissava con occhi di ghiaccio, la solita espressione aggressiva dipinta in viso.
E dal modo in cui mi scrutava, era indubbio il fatto che aveva già fiutato di nuovo la mia bugia da chilometri.
«Va bene, Murray» disse il professore poi, schiarendosi la gola, «vatti a cambiare, se ti senti poco bene vai pure in infermeria. Mentre voi» aggiunse poi, rivolto agli altri studenti, «riprendete subito la lezione.»
«Andiamo» dissi alla ragazza, ancora confusa, «non ti preoccupare, se ti volti c'è la mia felpa a coprire la macchia.»
Lei schiuse le labbra, ancora sorpresa, ma non le diedi il tempo di reagire, la trascinai con me verso la porta dello spogliatoio femminile a passo svelto. Le altre ragazze ci fecero spazio per passare, con occhi sconvolti, ma le ignorai. Arrivammo alla porta in fretta e, quando la aprii, la spinsi dentro con forza.
Feci il mio ingresso a mia volta, per poi richiudermi l'uscio alle spalle. Una volta fatto, mi lasciai andare a un sospiro.
La stanza degli spogliatoi era piuttosto grande, dalle pareti bianche e gli armadietti accatastati contro esse, il pavimento blu lucido e levigato. Lei si trovava proprio al centro, tra le due lunghe banche in legno che erano state messe a disposizione per sedersi mentre ci si cambiava, e mi guardava con un'espressione che non avrei saputo decifrare: come se stesse cercando di capire se stava ancora sognando o se la realtà aveva preso una piega troppo irrealizzabile perché fosse possibile.
Le sorrisi a denti scoperti. «Ti senti male?» domandai. «Hai mal di pancia? Mal di testa?»
Sobbalzò, le palpebre tremule. «N-No» balbettò.
«Meno male» continuai, e mi mossi verso il mio armadietto. «Porto sempre con me un cambio per paura che una situazione del genere possa accadermi» spiegai mentre aprivo l'anta. «Sei molto più alta di me, quindi i miei pantaloni ti andranno un po' corti sulle caviglie, ma non ci dovrebbero essere problemi se-»
«Perché l'hai fatto?»
Aveva una voce delicata, musicale, ma quando pronunciò quelle parole sembrò intinta nel più abissale dei dolori. La osservai incerta, osservai il suo viso contorto dalla sofferenza, le guance rosse per la vergogna, le labbra che tremavano.
«Sono la puttana della scuola, l'hai sentito anche tu» proseguì. «Se aiuti la puttana della scuola, verrai considerata puttana anche tu.»
Non comprendevo la logica di quel ragionamento, ma supposi fosse tipico degli adolescenti in preda agli ormoni.
Tirai fuori dallo zaino nell'armadietto il pantalone, di un grigio topo, e mi avvicinai a lei per poi porgerglielo: «Ero in debito con te» le ricordai. «E poi» sollevai il più in su possibile gli angoli delle labbra, «perché mai una puttana non dovrebbe essere meritevole d'aiuto?»
Forse furono le mie parole.
O forse il momento in cui le pronunciai.
Forse la vergogna di quella situazione, l'incrinatura dell'imbarazzo.
O forse la sofferenza di tutti i commenti ricevuti fino a quel momento.
Forse fu tutto questo.
Qualcosa si spezzò in lei, ne sentii proprio la rottura, gliela lessi negli occhi, nell'istante in cui il suo volto si deturpò in una maschera di dolore talmente espressiva da far piangere anche il mio cuore.
Le lacrime che le scesero in viso furono così grandi e gocciolanti da bagnarle tutte le guance.
Un verso neonato le sfuggì dalle labbra, un gemito d'agonia che la trasformò in un bambino appena venuto al mondo.
Pianse così, senza altro da dire.
Pianse così, senza altro da fare.
E nelle stille della sua sofferenza, io mi ritrovai a sorriderle, stringendole le mani tra le dita.
«Non ti preoccupare» la rassicurai, mentre si inginocchiava a terra e singhiozzava, «ti prometto che non lo dirò a nessuno.»
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