L'amore esiste
«Cosa diavolo è successo?»
Trasalii, spaventata. Mai in tutta la vita mi era capitato di vedere mio fratello così furioso. Seduto sul letto d'ospedale, mi fissava con gli occhi sgranati carichi d'ira, le narici dilatate, la bocca squarciata da una smorfia di puro orrore. Eravamo a mezzo metro da lui, eppure, seppur distante, mi ritrovai comunque a tremare sotto il suo sguardo furibondo. Il sorriso pure traballava, e solo con una violenza inaudita riuscii a non farlo crollare.
«Guardala, Jesse» sentii le mani della mamma posarsi sulle mie spalle con una delicatezza che mai mi aveva riservato, la sua voce dolce sfiorarmi l'orecchio, «l'ha voluto fare per te, voleva esserti solidale, non sei contento?»
Jesse si strappò il cappellino di lana bianca che gli ricopriva il capo e lo lanciò contro la faccia di mamma, sopra il mio capo. «Perché diavolo» urlò a squarciagola, spalancando la bocca per la furia, «dovrei essere felice di vedere mia sorella somigliare a una malata come me?»
«Calmati, figliolo.» Papà, alla mia sinistra, avanzò di un passo, con tono gentile. «Callisto voleva solo esserti accanto in questo modo, non-»
«Lei mi è già accanto! Non ho bisogno che si rasi tutta la testa per saperlo!» lo interruppe con un grido Jesse. Respirava con affanno, e la flebo attaccata al braccio vibrava a ogni mossa. «Callisto, perché? Ti piacevano così tanto i tuoi capelli! Non dovevi-»
«Ama più te che i suoi capelli» replicò la mamma, carezzandomi il capo ora completamente nudo e glabro. Avevo desiderato un simile gesto di gentilezza da parte sua per anni, ma ora che lo stavo ricevendo mi rendevo conto di quanto spaventoso fosse. Sentivo un uragano vorticarmi nel petto e trascinare via tutte le mie speranze e buone intenzioni. «Sono solo capelli, tesoro, non c'è bisogno che ti arrabbi così. Le ricresceranno.»
«Ah sì? Se sono solo capelli, perché non ti radi i tuoi, mamma?»
Sentii la mamma sussultare alle mie spalle.
«E perché non lo fai tu, papà?» sputò ancora Jesse, in un'espressione di disgusto. «Ah, giusto, non ne avete il coraggio! Lo fate solo su Callisto.»
«Ti stai sbagliando, figliolo» intervenne papà. «Noi non abbiamo fatto niente, è stata Callisto a suggerirlo.»
Continuai a sorridere, le labbra cucite, mentre la stretta della mamma sulle mie spalle si fece più forte. «Noi eravamo contrari, ma lei ha insistito così tanto!» cinguettò con voce angelica. «Ci siamo commossi davanti al suo spirito di solidarietà.»
Jesse inspirò con forza dal naso, fece calare lo sguardo su di me, le sopracciglia aggrottate.
«È così, Callisto?»
Mi sentii appassire dentro.
Sfiorirmi petalo per petalo, senza più avere profumi addosso dietro cui nascondermi.
La stretta della mamma si era fatta impercettibilmente più forte, le sue lunghe unghie rosse mi stavano sfiorando la pelle della clavicola, ne percepivo la punta contro la carne, il principio del taglio.
Sollevai gli angoli delle labbra. «Sì, è così» chiosai, e quella menzogna mi colò giù per la gola come acido, «volevo essere come te, Jesse, così non saresti stato più triste.»
Jesse mi osservò per qualche secondo, analizzò ogni centimetro del mio sorriso, per cercare le bugie che celava dietro le labbra. La camicia dell'ospedale, azzurra, si tendeva sotto le contrazioni forti del petto. «Callisto» mi chiamò ancora, «è davvero così?»
«Sì, Jesse» mentii ancora. «Scusami, non pensavo ti avrei fatto arrabbiare.»
Le mani di mamma sulle mie spalle erano dei coltelli affilati che mi recidevano anche le ossa, le sentivo gravarmi addosso nel preludio di una condanna che sapevo si sarebbe consumata presto nella cabina dell'armadio.
«Lasciateci soli.»
«Jesse, tesoro, sei ancora sconvolto, datti un attimo-»
«Papà, ho detto: Lasciateci soli!»
Finalmente mamma si scostò da me, mi voltai un attimo per guardarla: i lunghi capelli biondi legati a chignon sopra la testa, il viso delicato, a cuore, gli occhi verdi inaciditi dallo sconforto, le labbra carnose all'ingiù.
«Ne sei davvero sicuro?» gli chiese. «Forse se ci dai un attimo per-»
«Fuori di qui! Ora! O chiamo gli infermieri!»
Papà strinse con violenza la mascella, mi lanciò un'occhiata carica di delusione e rabbia, prima di tornare a guardare il primogenito. «Va bene, figliolo, noi saremo proprio qui fuori.» Prese la mano della moglie con cura. «Se hai bisogno di qualcosa, diccelo subito.»
Se ne andarono via in silenzio, lasciandomi da sola e portandosi via anche tutte quelle verità che non avrei mai dovuto rivelare a mio fratello.
Feci per parlare, ma Jesse non me ne diede il tempo. Scese con un balzo dal letto e mi corse incontro fino ad abbracciarmi con forza a sé. Quella stretta mi lasciò talmente senza parole, talmente accaldata e confortata, da darmi l'impulso violento di piangere lì sul momento, di esplodere come una stella e abbagliare tutto quello che mi circondava per poi portarlo via con la mia morte.
«Sono stati loro, non è così?» domandò Jesse, con il mio capo posato sul suo petto. «Sono stati loro ad ordinarti di farlo, vero?»
«No, Jesse» mugolai a fatica contro la sua camicia, «è stata un'idea mia, davvero.»
Jesse mi afferrò per le spalle e mi spinse indietro così che potessi vederlo in viso. Aveva un'espressione austera e seria che raramente mi era capitato di scorgergli addosso, gli occhi gli tremavano per una paura che non sapevo definire. «Callisto, non devi obbedire sempre a quello che dicono.»
«Ma sono stata io, lo giuro.»
Le sue mani su di me tremarono, capii dall'espressione negli occhi che non sapeva se credermi o meno. Il senso di colpa di stargli mentendo in quel modo, di starlo confondendo così, mi provocò una terribile fitta allo stomaco.
«Non farlo mai più» dichiarò alla fine. «Non mi piace vederti così, non voglio che anche tu sembri una malata.»
«Okay, scusami, Jesse.»
Lui mi strinse di nuovo a sé e fra le sue braccia mi sentii finalmente amata come desideravo da anni. Ma dopo qualche secondo, mi accorsi che a tremargli stavolta non erano solo le mani, bensì tutto il corpo. Singhiozzi e lamenti profondi lo trapassavano scuotendolo tutto, e io non potei che rafforzare il nostro abbraccio, nella speranza di poter asciugare le lacrime che gli graffiavano il viso.
«Mi dispiace, sorellina» lo sentii dire con voce rotta, «scusami tanto, non volevo rovinarti così, scusami, ti prego.»
«Non è colpa tua, Jesse» guaii amareggiata, sentendomi lacerare dentro dal suo pianto. Soffocai il mio respiro contro il suo petto. «Non è colpa tua.»
Ma Jesse non mi ascoltò, continuò a ripetere "scusami", a stringermi per non crollare, a lacrimare e distruggersi in un modo che non avrebbe mai dovuto essere permesso ad un essere umano. Mi pregò a ripetizione di perdonarlo, anche se quello malato era lui, anche se quello che presto sarebbe morto era lui. Un ragazzino che supplicava la sua sorella ancora bambina.
Dio solo sa quello che provai in quel momento.
La violenza con cui mi sforzai di non scoppiare a piangere a mia volta nel sentirgli addosso quel dolore che ormai era diventato anche mio.
Lo strinsi a me con forza, affondai il viso nel suo petto, mi aggrappai con le mani alla sua camicia.
«Ti perdonerò sempre, Jesse» squittii con un fil di voce. «Sempre, lo giuro.»
*
Il pomeriggio di quel giorno, quando entrai nella stanza di mio fratello, non lo trovai come al solito sul suo letto, ma sentii dei rumori piuttosto chiari provenire dal bagno adiacente.
Aprii la sua porta senza un attimo di esitazione, e ad accogliermi fu l'odore acidulo di vomito e il rumore definito del rigurgito.
Lo trovai inginocchiato a terra, col busto piegato sulla tazza del water. La schiena si contraeva ad ogni conato sotto il tessuto verde della camicia, le mani erano arpionate al bordo della tavoletta con così tanta forza da far scorgere le ossa sotto la pelle e i versi che emetteva erano mostruosi, disumani, quasi stesse cercando di buttar fuori tutti i suoi organi interni.
Non era la prima volta che lo vedevo in quelle condizioni, in troppe occasioni mi era capitato di assisterlo durante eventi simili, perciò non me ne preoccupai. Avanzai verso di lui a passo svelto e mi piegai sulle cosce al suo fianco, carezzandogli la schiena che sussultava ad ogni conato.
Jesse non ebbe modo di pensare a me, continuò a vomitare per una buona decina di minuti, riempiendo i rari attimi di pausa tra uno sforzo e l'altro con bestemmie e imprecazioni e suppliche di salvarlo.
Quando finì, era così stanco, così emaciato e distrutto, da avere il viso quasi trasparente tant'era pallida la pelle. Gli occhi gonfi, le labbra tremanti ancora imbrattate di bile, il fiato singhiozzante.
Ricadde a terra, sdraiato sulle piastrelle bianche del bagno, e per qualche istante non disse nulla. Si accucciò in sé stesso, si strinse le gambe al petto e nascose il volto tra le ginocchia. Tremava dappertutto, era devastato da brividi così forti da fargli battere le mascelle, eppure trovò comunque la forza di parlare: «Non chiamare nessuno» ordinò. «Resta... resta con me, per favore.»
Gli sfiorai la fronte bagnata di sudore freddo e sorrisi. «Va bene» gli garantii. «Aspetta solo un secondo.»
Presi uno degli asciugamani appesi sulle pareti e nel lavandino lo impregnai di acqua calda. Una volta finito, tornai su mio fratello e iniziai a tamponargli la fronte con il tessuto imbevuto e accaldato. Lui sospirò di piacere nel sentirlo, ma non smise di tremare.
«Andiamo a letto» suggerii. «Devi essere scomodo qua-»
«No, aspetta» sussurrò. «Lasciami qui... ancora per un po', solo un po'.»
Aveva la voce roca, gli occhi vitrei, soffocati tra le ginocchia. In quel momento, sembrava un bambino distrutto dal mondo e dalla malattia. E dentro di me sentii un dolore così forte al petto da pensare di star morendo insieme a lui.
«Lascia che ti asciughi un po' di sudore, allora, okay?»
Non rispose, e io presi il suo silenzio come una forma di conferma. Con delicatezza, lo sciolsi dalla posizione rigida in cui si era messo e lo feci sdraiare per terra a pancia in su. Iniziai a sbottonargli la camicia pian piano: aveva sudato così tanto che ora il tessuto si era attaccato alla pelle e più non sapevi distinguere l'uno dall'altra.
Se la lasciò sfilare senza esitazione, si fece modellare dalle mie mani senza opporsi in alcun modo, e io lo tirai in su fino a fargli ricadere il capo sulle mie gambe sdraiate sul pavimento.
Lo asciugai nel mutismo più totale, raccolsi ogni goccia di sudore e sofferenza e come una spugna le assorbii in me, nella speranza di sollevarlo almeno in parte dalla condanna che lo stava dilaniando.
Lui mi guardò a labbra schiuse per tutte il tempo, lo sguardo vago e raffermo, la bocca che ancora tremava.
Il suo torso nudo era così magro che riuscivo a vederne gran parte delle ossa, la carne esangue sembrava svanire ad ogni secondo che passava. Ma continuai a sorridergli gentile, perché sapevo che era ciò di cui aveva più bisogno, l'unica certezza che potevo offrirgli.
Rimanemmo così per non so quanti minuti: con io che lo riscaldavo con l'asciugamano bagnato e lui che mi osservava soltanto, con la testa sopra la mia coscia.
Solo dopo un po', Jesse ritrovò la forza di parlare.
«Sono stanco, Callisto.»
Lo mormorò a fatica, e compresi all'istante che quell'ultimo effetto collaterale doveva averlo devastato molto più che solo nel corpo. Posò la guancia destra sulla mia coscia, chiuse gli occhi.
«Io... sono stanco di tutto questo.»
Posai la mano sul suo capo calvo, lo accarezzai. Impedii all'agonia che mi divorava i polmoni di emergere anche in viso, mantenni la mia espressione serena, lo cullai tra le mie braccia.
«Perché... proprio a me?»
Gli si spezzò la voce con l'ultima parola, gli passai l'asciugamano sulle labbra, per raccogliere il vomito che gli era rimasto.
«Non lo so, Jesse» confessai alla fine. «Non so perché proprio te.»
Lui affondò la faccia sulla mia gamba, e io sentii l'inequivocabile sensazione di bagnato che si allargava sul tessuto del jeans. Pianse in silenzio, senza singhiozzi, senza gemiti, senza parole. Pianse come piangono i fiori durante la pioggia, nel mutismo delle stille che gli scivolavano sui petali.
Lo carezzai per tutto il tempo ad occhi chiusi, accolsi quel suo dolore e lasciai che mi travolgesse, e quasi più non respiravo, quasi più non riuscivo a percepirmi nella carne, tant'era intenso e sadico, eppure riuscii comunque a proseguire il mio conforto nei suoi confronti, a consolarlo.
«È un momento no, scusami» borbottò sulla mia coscia.
«E allora vivi questo momento no» risposi, «poi tornerà il momento sì.»
«Li detesto, i momenti no.»
«Pensa che sono solo una ricarica necessaria per il tuo ottimismo innato» risposi. «Dopo un po' lo esaurisci e hai bisogno di tempo per raccoglierne di nuovo. Così arriva il momento no per farlo.»
«Come la batteria di un cellulare?»
«Esatto.» Gli pizzicai il lobo dell'orecchio. «Devi metterti sotto carica.»
Lo sentii sghignazzare. «Non ricordavo che i cellulari sudassero.»
«Gli ultimi modelli ti vomitano persino sulle scarpe.»
Adesso anche le spalle gli tremavano, ma per le risate.
«E non solo» continuò lui, «se li tratti bene, possono pure pisciarti sul letto.»
Allungò la mano e io la strinsi con la mia. Intrecciamo le nostre dita lì, sul pavimento di uno squallido bagno di una squallida clinica per malati terminali, ma non ci fu nulla di più bello di quel momento.
Finalmente tornò a farmi vedere il suo viso: aveva gli occhi arrossati e lucidi dal pianto, ma le labbra erano inarcate e mostravano i denti bianchi. «Callisto» mi chiamò.
«Cosa c'è?»
«Qualunque cosa ti diranno i nostri genitori, qualunque cosa ti dirà il mondo esterno, non dubitare mai quanto ti ho amata» enunciò con voce ferma. «Non lo dimenticare mai, anche quando non ci sarò più.»
Inspirai con forza.
Jesse sorrise ancora di più.
«Ricordati per sempre che Jesse Murray ha amato Callisto Murray per tutta la sua vita, e che questo mai cambierà, nemmeno con la morte.»
*
La sera, mi ritrovai come al solito sul davanzale della finestra, in camicia da notte, a gambe incrociate, intenta ad osservare il paesaggio adombrato del cortile dei dormitori.
C'era una piacevole brezza di vento che rinfrescava l'afa di quel giorno estivo, e in sottofondo si udiva il canto ottemperato delle cicale in festa.
Ero particolarmente felice, in quel momento, reduce dall'ultimo incontro con Jesse e le sue parole, mi sembrava di avere una palla di zucchero filato al posto del cuore: dolce e soffice, capace di accogliere qualunque battito, anche il più crudele, senza mai spezzarsi.
Canticchiavo gioiosa la sigla di Crystal Ballerina, dondolando il busto a ritmo con la canzone, e nemmeno l'ultimo messaggio di mia madre era riuscito a scacciarmi via il buon umore.
Se continuerai a metterci contro Jesse, sai già quali saranno le conseguenze.
Non sapevo dire per quale motivo fosse così convinta che io ero la causa delle loro diatribe con mio fratello, ma di una cosa ero certa: Jesse si stava opponendo a loro con molta più forza rispetto a prima, mostrava apertamente il disprezzo nei loro confronti senza alcun ritegno, e aveva cominciato a fare ciò dal giorno in cui aveva accettato di fare quella terapia sperimentale e ricoverarsi in clinica.
Nemmeno io sapevo darmi una spiegazione a quell'improvviso cambiamento. Certo, non si poteva dire che prima Jesse li adorasse particolarmente, ma adesso la questione si era aggravata in maniera inequivocabile. Ogni volta che li fissava, ogni volta che ci parlava, non mancava di esprimere l'immensità dell'odio che lo travolgeva.
Mi domandai se il motivo fosse proprio la terapia sperimentale che stava facendo. In fondo, erano stati mamma e papà a insistere perché si sottoponesse ad essa, nonostante fossero ben consapevoli dei terribili effetti collaterali che provocava.
La risposta era incerta, e con lui non ne potevo parlare: evadeva le domande e cambiava argomento senza alcun vergogna, mi faceva capire chiaramente di non voler intrattenere quella discussione.
Che per questo motivo, ora io fossi ancor più condannata dai miei, non fu affatto una sorpresa. D'altronde, era il loro modus operandi: quando c'era qualcosa che non andava, la colpa ricadeva sempre sulle mie spalle.
Di solito, un messaggio del genere mi avrebbe creato non poche angosce, ma quel giorno fu diverso.
Quel giorno mio fratello, la mia vita, mi aveva detto di non dimenticare mai quanto mi amava.
Non esisteva nulla che potesse spazzare via il mio buon umore.
Perciò avevo ignorato il messaggio di mamma e, in conseguenza a ciò, ne avevo ricevuti altri da parte sua, che non avevo nemmeno letto, perché già intuivo il contenuto.
Avevo semplicemente messo il cellulare in silenzio e lo avevo abbandonato sul comodino, per poi godermi l'aria estiva sulla finestra.
Ero talmente tanto contenta, che non badai neanche tanto all'arrivo di Ruben dal muretto e la sua agilità da ninja mentre scendeva dall'albero. Lo accolsi con un sorriso aperto, salutandolo con la mano, e ottenni in cambio, proprio come prevedevo, un'espressione severa e profondamente irritata.
Si avvicinò verso le nostre finestre a passo veloce, ma claudicante. Doveva aver ricevuto un'altra botta alla gamba. Quella sera, poi, evidentemente non era riuscito a sostenere di indossare abiti lunghi, a causa del caldo travolgente, e la maglietta blu a maniche corte mostrava senza indugio tutti i lividi che gli ricoprivano le braccia: macchie porporate che si spandevano sulla carne e anche sotto la luce lunare apparivano scure e intense.
«Sei di buon umore?» grugnì, con l'aria di chi tutto voleva tranne che una ragazzina felicitante di fronte a sé. «Per la prima volta il tuo sorriso non è falso come al solito.»
Gonfiai il petto con orgoglio. «Mio fratello mi ha detto che mi vuole bene» dissi subito, non vedevo l'ora di parlarne con qualcuno. «Mi ha reso molto contenta, lo ammetto.»
Aggrottò la fronte. Era evidente che si stava domandando che razza di diciassettenne potesse essere così entusiasta di un'espressione di affetto da parte del proprio fratello. Immaginai che lui evitasse e ripudiasse le dichiarazioni d'amore come l'acqua con l'olio, o che addirittura le considerasse disgustose. Non ce lo vedevo a struggersi per un "ti voglio bene".
Continuai a dondolarmi canticchiante e gli feci cenno di avvicinarsi. «Abbiamo fatto un patto» gli ricordai. «Perciò ora userai la pomata.»
Chiuse gli occhi per un secondo, supposi per raccogliere tutta la pazienza e non mandarmi a quel paese. Avanzò con molta calma fino a ritrovarsi sotto di me, ai piedi della finestra, gli occhi brillanti di fastidio.
Allungò il braccio e mi mostrò la sua mano aperta.
«Passala qua.»
Lo guardai dubbiosa. «Te la devi mettere di fronte a me.»
«Non sfidare la sorte.»
Aggrottai la fronte. «Guarda che lo so che non hai intenzione di rispettare il patto. Sei un bad boy, in fondo, da quando un bad boy mantiene le promesse?»
«Io sarei cosa?» tuonò.
Avevo parlato troppo.
«Hai lividi anche sulla schiena, non è così?» cambiai discorso. «Te la tocchi spesso perché è dolorante.»
«Ce la posso fare da solo.»
«Come arrivi fino alla schiena con le tue mani?»
Strinse le labbra, la mascella irrigidita. Lo ignorai e indietreggiai sul davanzale. «Vieni dentro» gli dissi. «Ti aiuto a mettertela.»
«Tu sei davvero stupida» sputò. «Inviti così una persona pericolosa in camera tua?»
Lo guardai confusa. «Tanto ormai lo hai già fatto una volta.» Feci spallucce. «E poi ti voglio proprio vedere a provare a metterti da solo la pomata sulla schiena.»
«Non-»
«Andiamo, andiamo» lo interruppi prima che potesse di nuovo insultarmi, e scesi dal davanzale per rientrare in camera. «Ci vorrà poco tempo, te lo prometto, poi potrai tornare a trasgredire le regole come preferisci.»
Andai subito a cercare la pomata nel cassetto della mia scrivania, sulla parete destra della stanza, senza aspettarlo. Quando finalmente la trovai e tornai a guardare verso la porta, lo trovai già dentro la camera, in piedi accanto al letto, e da come mi guardava si sarebbe potuto dire che, se avesse potuto, mi avrebbe dato fuoco con lo sguardo.
Con la scatoletta in mano, gli feci cenno di sedersi sul materasso, ma Ruben mi fermò.
«Perché» pronunciò con tono serio, «non hai paura di me?»
Aggrottai la fronte. Credevo che avevamo già superato la soglia di quel quesito, ma per lui sembrava troppo fondamentale.
Mi guardava al suo solito modo, con quel desiderio infuocato di capirmi, di comprendere l'incognita che ai suoi occhi rappresentavo. Sembrava così arrabbiato, così irritato, di fronte al mio comportamento tranquillo, da farmi venire quasi voglia di ridere.
«Perché» domandai a mia volta, «desideri così tanto che le persone ti temano?»
Si irrigidì tutto: le spalle, il viso, la fronte, le braccia. Compresi di aver colpito nel segno, di aver trovato il suo unico, vero e più grande livido, il solo che mai avrebbe voluto mostrare al mondo esterno.
E in realtà io sapevo già la risposta, in realtà io avevo capito da tempo che Ruben era un essere fatto di spine per il solo scopo di allontanare e ferire chiunque potesse fargli del male.
«Posso giurartelo» dichiarai con fierezza e un sorriso, «a questo mondo ci sono solo due persone a cui vorrei far male, e tu non sei tra queste.»
Le sopracciglia gli calarono sugli occhi, in un'espressione di rigidità e confusione. Eppure, per la prima volta, non negò, non rispose con cattiveria, non rifiutò la mia promessa. Rimase in silenzio per qualche minuto e infine, dopo avermi osservata a lungo, afferrò gli orli della sua maglia e se la sfilò via.
Non mi era mai capitato di vedere un uomo nudo oltre a Jesse, e dovevo dire che anche quell'unica esperienza mi risultò piuttosto inutile e non potei aggrapparmici. Mio fratello era estremamente magro, non aveva muscoli e gli si vedevano tutte le ossa; Ruben era diverso: era allenato, con pettorali sodi e una tartaruga definita, bicipiti evidenti e un aspetto tonico e allenato.
Eppure, non c'era modo di ammirare quella bellezza, perché soffocata da tutti i lividi che come un'epidemia gli mangiavano la carne rosea. Si sparpagliavano su tutto il suo torace come sgocciolature di colori, ed erano dappertutto: sulla pancia, sul petto, le braccia, e, anche se non potevo vederlo, sulla schiena.
Mi domandai quante botte dovesse aver preso, per possederne così tanti. Non ne avevo mai visto un numero simile, nemmeno su Jesse. Dovevano fargli anche male, eppure lui non mostrava alcun tipo di dolore in viso, quasi ci fosse così abituato da considerare quella sofferenza un vestito in più da portare addosso.
Tolsi la pomata dalla scatoletta e me ne misi un po' sulle mani. «Non farò male, lo giuro» gli promisi.
Lui non disse nulla, non rispose in alcun modo, e di nuovo mi domandai se fosse perché non voleva insultarmi, o perché non voleva ammettere che ciò che più temeva, in realtà, era proprio quello: venir ferito in un modo diverso da semplici calci e pugni.
Iniziai ad applicare la pomata sui lividi, cheta, accompagnata solo dal canto delle cicale di fuori. Come luce avevo solo quella dorata dell'abate-jour del comodino accanto al letto, ma fu sufficiente perché potessi comprendere come muovermi.
C'era un che di misterioso in quello che stavamo facendo, la costruzione di un legame a cui né io né lui sapevamo dare un nome. Realizzai in quel momento che Ruben era la prima persona esterna alla mia famiglia che medicavo, di cui mi prendevo cura in un modo che era diverso da tutti quanti, che non sapevo definire.
Lui era strano, tutto in lui era strano.
Riuscivo a comprenderlo in quella sua rabbia così profonda, in quella violenza così radicata, da poterne scorgere la fonte: la paura.
Il terrore.
Quel terrore che io stessa conoscevo, che era la fondamenta di tutti i miei pensieri e di tutte le mie azioni.
Mi sentivo vincolata a lui da un nodo che tratteneva entrambi dal scappare via dalle nostre vite, un nodo così stretto e forte da indurci ad amarlo anche se era ciò che più ci imprigionava.
E lo percepivo, adesso, quel nodo, lo sentivo così stretto da pesarmi nello stomaco, mentre lui si girava e mi mostrava la schiena: il luogo che più di tutti era stato massacrato. Gli ematomi erano dei veri e propri giganti violacei che gli strappavano via ogni colore della pelle, e sotto di essi potevo scorgere anche altro, cicatrici sottili, come graffi immensi, che gli si inerpicavano su tutta la carne, incidendogliela.
«Non hai intenzione di chiedere?» mi domandò, quando iniziai a medicarla.
«Chiedere cosa? Come te li sei fatti?»
Rimase zitto, supposi per confermare.
Mi aggiunsi altra pomata alle mani e ripresi la mia opera. «Non mi risponderesti» feci notare.
«Non sei curiosa?»
«Un po'» ammisi. «Mi sono fatta tre teorie sul perché ogni giorno scappi via dal dormitorio e ritorni sempre così rotto.»
Le sue spalle ebbero un sussulto. Che stesse ridendo? Era un peccato, avrei tanto voluto vederlo.
«E sentiamo, quali sarebbero?»
«La prima teoria è che tu sei il membro o addirittura il capo di qualche gang» spiegai. Era una teoria che avevo realizzato con mio fratello, ma non mi sembrò il caso di dirglielo. «Lo si legge spesso nei libri o nei manga. Pensa a Tokyo Revengers.»
«Cosa?»
«Non lo hai letto? Peccato. La seconda teoria» continuai, mentre seppellivo un livido gigantesco sotto uno strato di pomata, «è che partecipi ogni notte a incontri di lotta clandestini.»
Silenzio da parte sua, perciò ripresi a parlare: «Voglio dire, è una cosa che un bad boy farebbe.»
«Come mi hai chiamato?»
«Niente, niente. Ad ogni modo, io non credo granché a queste due teorie. Nel primo caso, non mi sembri il tipo che desidera collaborare con altre persone. Nel secondo, usi la forza solo quando qualcuno ti minaccia, perciò non ne vedo il senso. Ma questi sono solo il frutto della mia mente che viaggia.»
«E la terza?»
Mi ferma con la mano ferma sopra un ematoma, mi chiesi se fosse il caso di dirlo, ma, nel suo mutismo, percepii un'urgenza, un ordine di parlare. «La terza teoria» ripresi a passare la crema, «è che c'è qualcosa, là fuori, a cui tieni così tanto che non interessa quanto ti faccia male.»
Era la teoria a cui credevo di più, forse perché era quella che rappresentava anche me. Perché anche io conoscevo quella sensazione: amare qualcuno così tanto da ritornarci ogni volta, anche se questo significava sanguinare e soffrire.
Io andavo da Jesse sempre, consapevole che poi ne avrei pagato le conseguenze per mano dei miei genitori, ma non riuscivo comunque a smettere di volergli bene, non riuscivo comunque a non andare a trovarlo, tanto era intenso l'amore che provavo nei suoi confronti.
Ruben non rispose, rimase in silenzio fino a quando non completai la mia opera. Il suo mutismo mi portò a domandarmi se ci avessi preso, se davvero era quello il motivo per cui ogni notte sgattaiolava via dai dormitori e si faceva picchiare così forte da ricevere tutti quei lividi.
E forse in realtà neanche lui se n'era reso conto, fino a quel momento. Solo a guardarlo, solo a vedere quelle cicatrici bianche che come cinghiate di cintura gli dilaniavano la schiena, capivo che quello era il mondo a cui era così abituato da non farci caso: un luogo in cui ci si faceva male per forza, in cui per sopravvivere bisognava usare la violenza a propria volta.
Mi guardai i bracciali, il segreto che si celava sotto ad essi, e lasciai cadere le mani lungo i fianchi.
Io ero l'ultima che poteva giudicarlo per questo.
«Sai» gli dissi, mentre lui tornava a voltarsi verso di me, grande e imponente, «lo so che è difficile da credere, ma in questo posto non sempre è così. Esiste anche il bene.»
Aggrottò la fronte, le labbra serrate.
«Ci sono persone che sanno dare carezze al posto di pugni e sorrisi invece che urla.»
Non sapevo dire sinceramente a chi lo stessi affermando, se a lui o a me stessa.
«Forse non sei riuscito a incontrarli finora, ma ci sono, io lo so.»
Sorrisi, e questa volta lo feci per davvero.
Con delicatezza, serenità.
Con la calma e l'immensità dell'amore di mio fratello e per mio fratello addosso.
Con la consapevolezza di star guardando un riflesso, lo specchio della mia vita.
«L'amore esiste anche per noi, ne sono sicura.»
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